domenica 22 gennaio 2012

Sette Opere Di Misericordia (voto 4)

Negli ultimi anni, è innegabile che il cinema italiano abbia regalato degli esordi molto interessanti, vivaci e graffianti. Penso a Gianni Di Gregorio con il suo 'Pranzo Di Ferragosto', capolavoro di semplicità e di umanità, piuttosto che ad Ascanio Celestini e a Gianni Pacinotti, che con i rispettivi 'La Pecora Nera' e 'L'Ultimo Terrestre' hanno dimostrato che il coraggio e la freschezza di idee possono prevalere anche sulle ingenuità di scrittura. I fratelli De Serio irrompono con il loro 'Sette Opere Di Misericordia' e sulla carta paiono possedere le migliori caratteristiche dei loro colleghi sopra citati. Purtroppo, però, in questa opera prima il coraggio è confuso con presunzione e l'essenzialità con pesantezza e compiacimento. Il film è suddiviso in sette capitoli, ciascuno con il nome delle sette opere di misericordia che, secondo la Chiesa Cattolica, un buon cristiano deve sostenere nella sua vita. I fratelli De Serio optano per un linguaggio delle immagini decisamente radicale: pochissimi movimenti di macchina, lunghi piano sequenza, praticamente nessun dialogo. Il loro registro stilistico è scarno e naturalistico, senza concessione a modalità distensive (nessuna colonna sonora, non un momento di rilassamento emotivo). Il tema principale è sicuramente quello della pietas, inteso come preoccupazione e sacrificio nei confronti dell'altro. Un sentimento religioso, spirituale ma nello stesso tempo carnale, fisico testimoniato dal corpo sfiancato dei due protagonisti così distanti per età e così vicini per necessità e bisogno per la sopravvivenza. I modelli di 'Sette Opere Di Misericordia' sono altissimi: da Bresson ai fratelli Dardenne. Ma il lavoro compiuto è troppo inaccessibile per essere apprezzato. Se, da una parte, la volontà di non cedere a compromessi narrativi è certamente funzionale, quella di rifiutarsi a ogni tipo di espediente cinematografico per coinvolgere in prima persona lo spettatore è imperdonabile. Stiamo parlando di cinema, concepito come strumento artistico attraverso il quale la collettività può riconoscersi e riflettere su se stessa. In questo caso, i registi si rivolgono esclusivamente a loro stessi e agli esperti del settore. C'è solo tanta arroganza in questa idea di cinema, in modo particolare se ad attuarla è chi ha le capacità per utilizzare questo meraviglioso strumento. Sicuramente, i fratelli De Serio conoscono la materia ma perdono completamente di vista quello che dovrebbe essere il fine principale: parlare della vita allo spettatore, quello che paga per vedere un film e vuole essere parte integrante di un discorso, di un emozione. Il cinema è condivisione e gli stessi Dardenne esprimono un linguaggio popolare prima che autoriale. Nel momento stesso in cui questo non avviene, le interpretazioni, la fotografia, gli aspetti tecnici si sviliscono e perdono il senso.

Emiliano Dal Toso
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