venerdì 19 settembre 2014

Venezia 2014 - Prima Parte: Ritorno a L'Avana, Jackie And Ryan, Sivas, Anime Nere

Mai come quest'anno mi sembra che la proposta cinematografica veneziana, della quale la rassegna milanese 'Le vie del cinema' presenta soltanto una parte, si sia concentrata soprattutto su opere che ambiscano ad essere la fotografia, il racconto di un Paese o di un luogo, ancor prima che una semplice narrazione di eventi. A cominciare dal ritorno di Laurent Cantet dietro la macchina da presa, cineasta acclamato per la Palma d'Oro 'La Classe', che nel suo 'Ritorno a L'Avana' (voto 8) riunisce cinque amici di vecchia data su una terrazza della capitale cubana, e attraverso i loro dialoghi fa emergere il ritratto di un popolo costretto a fare i conti con l'amarezza e con la disillusione, dovuti alle speranze infrante di una generazione che ha sognato di poter costruire un mondo migliore. Il regista francese evita di delineare un gruppo di cinquantenni che si limita a rimembrare il passato e ad illudersi che niente sia cambiato. Anzi, i rancori e le scelte dolorose dei protagonisti e, soprattutto, la consapevolezza delle loro sconfitte sono la cartina tornasole attraverso la quale lo spettatore può assistere alla radiografia degli umori di Cuba, a quello che poteva essere ma che non è stato. Affrontare una vicenda privata per porre una lente di ingrandimento su una realtà sociale è anche il desiderio della statunitense Ani Canaan Mann, che in 'Jackie And Ryan' (voto 5) affronta l'affidamento dei minori. Se la descrizione di un Paese nel quale nemmeno gli affetti possono fare a meno di avere un valore economico appare lampante, in questo caso non convince lo stile troppo invaso da ruffianerie folk e da un'atmosfera indie che si fa sedurre troppo facilmente dalle soluzioni più melense e concilianti. La Mann non trova mai il guizzo narrativo per coinvolgere e non viene aiutata dalle interpretazioni dei ben poco carismatici Ben Barnes e Katherine Heigl, quest'ultima decisamente preferibile nella versione brillante dei film di Judd Apatow. Non sono riuscito a innamorarmi neppure del Premio della Giuria 'Sivas' (voto 5) del debuttante Kaan Mujdeci, a differenza del Presidente Alexandre Desplat. Il giovane regista turco ambienta la storia del legame che si sviluppa tra un ragazzino di undici anni ed un cane da combattimento in un villaggio rurale dell'Anatolia, evidenziando soprattutto la brutalità delle battaglie tra Kanglar, la magnifica razza canina che viene vergognosamente trasformata in uno strumento di guerra. Se non fosse per la magistrale interpretazione dello stesso meraviglioso cane che porta il nome del film (di gran lunga migliore degli attori impiegati), 'Sivas' risulterebbe gravemente insufficiente, sia per le insicure riprese con la camera a mano pseudo-autoriali, sia per alcuni clamorosi buchi di sceneggiatura. Piuttosto violente le scene dei combattimenti, che mi fanno sconsigliare la visione non solo ai cinefili ma anche ai cinofili. Di ben altra fattura, e suona strano dirlo, l'italiano 'Anime Nere' (voto 9) di Francesco Munzi, un indimenticabile e sconvolgente racconto di "malavita", teso, tetro, durissimo. Si parla di 'ndrangheta, si parla di Calabria, ma si parla soprattutto dell'inevitabilità della violenza e del Male. Munzi non è interessato all'opera di denuncia e nemmeno al documento sociologico, quanto piuttosto a riflettere sull'impossibilità di fuggire dalle proprie radici, dimostrando un'abilità narrativa e una tensione lucida e rigorosa, che sono merce rara per il cinema nostrano. Non ci sono scorciatoie, non ci sono moralismi nè consolazioni: lo spettatore può godere finalmente soltanto di un Noir, crudo e spietato, nient'altro.

Emiliano Dal Toso




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