mercoledì 2 settembre 2015

Venezia 72 - #Day1: Everest

Il senso di Baltasar per la neve è quello della grande sfida impossibile, dai risvolti imprevedibili e tragici. Un po' come il sontuoso Ron Howard di Apollo 13, il regista di Cani sciolti sembra interessato, inizialmente, alla dimensione umana e famigliare dei suoi protagonisti: su tutti, s'innalza un ottimo Jason Clarke, dal cuore travolto per una Keira Knightley a casa in apnea, mentre il compagno è bloccato nel gelo, nel punto di contatto tra la vita e il paradiso. Non è un problema di altitudine, ma di attitudine, suggerisce il personaggio di Jake Gyllenhaal, e le sue parole dovrebbero suggellare la convinzione che Everest utilizzi la catastrofe come pretesto per mettere in scena un raffinato conflitto tra individui e personalità opposte. Un po' come Rush, nuovo punto di riferimento del cinema di "scontri tra uomini". Purtroppo, l'impressione conclusiva è che l'impeto della natura sovrasti e devasti tutte quelle dinamiche e quegli scontri psicologici che fino a un certo punto Kormákur aveva costruito con sagacia e intelligenza. Arriva la bufera, e si cancellano le inimicizie, spariscono le insicurezze e le incertezze, e Everest abbandona la sua umanità, anche per giustificare la presenza di una tridimensionalità di cui il cinema contemporaneo d'avventura non può ancora fare a meno. La cronaca di una morte annunciata si esprime corretta, compatta, organizzata. Con tutte le convenzioni del caso: chi è a casa o nei rifugi si muove e s'anima, col pensiero e il trasporto emotivo di chi vive in funzione di qualcun altro; chi aspira, invece, alla vetta più alta del mondo non può nemmeno preoccuparsi della propria sopravvivenza, perchè non è altro che un corpo raggelato, un respiro destinato gradualmente a spegnersi. E così la moltitudine di piccoli personaggi non sufficientemente approfonditi appare in parte giustificata dal fatto che l'unico vero protagonista del film sia la montagna. Come se di fronte all'enormità della natura, dinanzi a tutto ciò che non è stato l'Uomo a creare, si ribadisse che una parata di star hollywoodiane rimane inosservata, anonima, attonita e travolta dalle conseguenze, da ciò che l'ineluttabilità del fato e l'insensatezza del cataclisma comportano. Baltasar Kormákur si limita a raccontare, a mettere in scena, a riprendere. Il suo sguardo è privo di una presa di posizione autentica e personale, di una rilettura originale degli eventi. Ciononostante, il suo (non) film da red carpet spiazza e inquieta proprio nell'assenza dichiarata ed esplicita di autorialità. Un cinema abbandonato al suo destino, forse per scelta, forse per ammissione di inferiorità del genere umano.

Emiliano Dal Toso


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