giovedì 16 giugno 2016

Cannes e Dintorni 2016 - Parte Prima: I, Daniel Blake, Bacalaureat, Sieranevada

Lunga vita a Cannes e dintorni, che ci permette di recuperare dopo poche settimane alcuni dei film presentati sulla Croisette, il nome del viale che costeggia il litorale della città della Costa Azzurra. Un'edizione caratterizzata da numerose polemiche, con buona parte della critica radical-chic inferocita per l'assegnazione dei premi da parte della Giuria presieduta dall'australiano George Miller. La Palma d'oro è andata a 'I, Daniel Blake' (voto 9) di Ken Loach: per molti, una decisione presa per non scontentare nessuno, un compromesso per dare risalto agli intenti nobili del film piuttosto che alla sua effettiva qualità. Beh, teniamocelo stretto il cinema del compagno Ken: il regista britannico è ancora l'unico cineasta in grado di coniugare l'impegno civile con una narrazione e un linguaggio popolari e universali. Il suo è un film che emoziona, commuove, indigna. Vibra. L'odissea di un uomo umile, con seri problemi di salute, che lotta contro la burocrazia statale per ottenere l'indennità di malattia o, perlomeno, il sussidio di disoccupazione è raccontata con un'energia e una lucidità che dovrebbero essere la colonna vertebrale di un'opera cinematografica: come spesso accade nel cinema di Loach, non mancano momenti più rilassanti e leggeri, ma risultano funzionali a coinvolgere e scuotere lo spettatore che altrimenti si troverebbe di fronte a un manifesto politico. E invece Ken utilizza la sfera privata per parlare delle contraddizioni della macchina pubblica, entrando nella gola e nel cuore di chi guarda. Per questo ho trovato davvero surreali le accuse di "film-comizio" proprio da parte di quei critici che fino a pochi anni fa esaltavano gli ingredienti di Loach: complimenti a Miller e agli altri giurati che se ne sono infischiati delle mode e hanno riconosciuto il valore di una pellicola bella, dolorosa, attuale. Uno dei due vincitori del premio per la miglior regia, 'Bacalaureat' (voto 7) di Cristian Mungiu, invece pecca un po' di coinvolgimento emotivo. L'autore rumeno riflette sulla forma mentis di corruzione e interessi personali che si è ormai appropriata non soltanto degli apparati statali ma anche dei comportamenti degli onesti cittadini. Nuovamente, l'obiettivo è raccontare un dramma famigliare per porre una lente di ingrandimento sulla Romania di oggi. Una Romania che, a dire il vero, non ci sembra tanto diversa dagli scandali dell'Italia, a cominciare da Mafia Capitale. Mungiu sembra indeciso tra due storie che fanno fatica a coniugarsi: quella di un padre disposto a tutto pur di garantire un futuro migliore in un altro Paese; e quella che denuncia un modus operandi che ha vinto e rappresenta ormai la normalità per ottenere servizi e assistenza. Il risultato è così un ibrido tra racconto morale e analisi sociale che non porta fino in fondo i suoi spunti di partenza. Meglio comunque Mungiu di 'Sieranevada' (voto 4) del connazionale Cristi Puiu. Tre ore lunghissime, interminabili, verbosissime di kammerspiel, in cui una famiglia allargata di Bucarest si ritrova per commemorare il patriarca da poco scomparso. Tre ore dove non accade praticamente nulla, al di fuori di molto poco interessanti dialoghi su politica interna e politica estera che si alternano a qualche scheletro nell'armadio, a qualche fantasma del passato e alle solite immancabili questioni di corna. La scelta suicida di Puiu è di adottare uno sguardo molto distaccato, evitando chissà perché di voler entrare in empatia con i personaggi. Lo spettatore si trova così costretto ad assistere a una pesantissima riunione di famiglia, dove non può neppure esprimere il suo dissenso o, almeno, inventarsi una scusa per alzarsi da tavola.

Emiliano Dal Toso



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