Negli ultimi mesi sul blog, ho sostenuto calorosamente la candidatura di Boyhood di Linklater, augurandomi che l'Academy tornasse finalmente a premiare un'opera degna di poter essere considerata uno dei migliori film dell'anno, capace di coniugare l'innovazione sperimentale e l'emozione. Per quanto possa valere la mia opinione, gli unici lavori che si sono meritati davvero la statuetta principale negli ultimi quindici anni rimangono Million Dollar Baby di Eastwood, The Departed di Scorsese e The Artist di Hazanavicius. Chi più, chi meno, credo che gli altri siano stati film fraintesi, sopravvalutati o ai quali il riconoscimento è stato assegnato per ragioni meramente politiche. A volte, il premio è andato a pellicole che non hanno ulteriore finalità che quella di intrattenere, già trionfatrici al box office (Il Gladiatore, Chicago, Il Ritorno Del Re, The Millionaire), che non avevano alcun bisogno di ricevere l'Oscar. Il perbenismo obamiano ha certamente influenzato la vittoria di prodotti assolutamente medi come The Hurt Locker, Il Discorso Del Re e Argo o decisamente mediocri come 12 anni schiavo. Succede, poi, che qualche annata i giurati dell'Academy decidano di premiare lavori più o meno indipendenti, alternativi, quasi come se volessero sentirsi apposto con la coscienza, così da poter giustificare ipocritamente le scelte conservatrici degli altri anni: questo è successo con l'inspiegabile Oscar dato a Crash - Contatto fisico di Paul Haggis (regista che ha dimostrato il suo reale valore in ben altre occasioni), mentre il senso di colpa ha fatto sì che i fratelli Coen trionfassero con Non è un paese per vecchi, uno dei loro lavori meno riusciti, dopo che i veri capolavori (Fargo, Il grande Lebowski, L'uomo che non c'era) erano stati scandalosamente ignorati. Birdman rientra senza ombra di dubbio in quest'ultima categoria: tra le nomination, quest'anno non c'è stato nessun blockbuster, e i favoriti sono stati tutti presentati ad alcuni dei più importanti festival mondiali (Linklater e Anderson a Berlino, Inarritu a Venezia). Preventivamente, l'Academy ha deciso che questo sarebbe stato l'anno del "film d'autore" per cinefili: non ha vinto Wes Anderson, la cui vittoria sarebbe stata riparatoria come era successo per i Coen; non ha vinto Linklater, forse perché ancora troppo ancorato agli stilemi del "prodotto Sundance"; ha vinto Inarritu con la proposta più radical-chic, quella che rassicura il popolino borghese con il suo piano-sequenza taroccato, ingannandolo così di essere un grande esperto di cinema, ma che non è altro che un virtuosismo fine a se stesso e privo di reali contenuti.
Emiliano Dal Toso