lunedì 25 settembre 2017

Top 5: Settembre 2017

5 - Walk With Me - Marc J. Francis, Max Pugh (voto 7)
Utile documentario sull'arte della meditazione buddista, oggi chiamata Mindfulness. Narrato dalla voce calda e sontuosa di Benedict Cumberbatch, è una lente di ingrandimento sul Monastero Zen di Plum Village, nel sudovest francese, dove uomini e donne, monaci e monache, vivono il presente. Bello e cinefilo il parallelismo tra il maestro Thich Nhat Hanh e Yoda di Guerre stellari. Consigliato a tutti coloro che faticano a concentrarsi e a rimanere attenti per un'ampia durata di tempo.

4 - Dove cadono le ombre - Valentina Pedicini (voto 7)
Nella vita di Anna (la straordinaria Federica Rosellini), infermiera di un istituto per anziani, riappare Gertrud (Elena Cotta) e riemergono i ricordi di un passato doloroso. Un esordio sconvolgente che affronta una storia poco nota, accaduta tra il 1926 e il 1986, quando l'associazione filantropica Pro Juventute sottrasse 2000 bambini alle famiglie Jenisch, rinchiusi in ospedali psichiatrici e prigioni, per estirpare il fenomeno del nomadismo. Rigoroso e senza scorciatoie emotive.

3 - In Dubious Battle - James Franco (voto 7)
James Franco è un punk. Perché fa quello che gli pare, alternando film demenziali, prove da Oscar, serie tv e Blockbuster a una carriera da regista autentica, coraggiosa, a volte fallimentare, ma importante. La sua traduzione de La battaglia di John Steinbeck è fedele alla poetica amara del libro, e come regista si fa da parte per lavorare al servizio del testo e della sua forza politica, indignata e commossa. Un cast variopinto di volti noti al pubblico teen e facce ruvide suggella un'operazione riuscita.

2 - Mother! - Darren Aronofsky (voto 8)
Nessuno costringe ad avere una reazione come Aronofsky. Un altro film imperfetto ed eccessivo, un'altra dichiarazione d'amore e di fiducia per le potenzialità del cinema di sporcare gli occhi, abbattere le censure borghesi del pensiero intellettuale e superare i limiti di ciò che è realizzabile. Un delirio visivo biblico e perverso, ma vivissimo ed estremo, sonoro e fisico, che s'interroga sul rapporto tra interno, artistico e sentimentale, ed esterno. Strepitosa Jennifer Lawrence.

1 - L'inganno - Sofia Coppola (voto 8)
Tremate, tremate, le streghe son tornate. E con loro anche la regista più brava del nuovo millennio, che si era persa tra il tedio di Somewhere e la futilità di Bling Ring. Sofisticata, raffinatissima e crudele lotta tra i generi: femmine contro maschio, impersonato dal grande Colin Farrell, seducente caporale che rimarrà vittima dell'alterità delle donne arpie e megere che lo circondano, capitanate da una Nicole Kidman in pura versione horror. Melodramma e commedia nera: bentornata Sofia.



venerdì 15 settembre 2017

Il Pagellino: Venezia 2017 - Seconda Parte

Madre! - Darren Aronofsky 8: nessuno costringe ad avere una reazione come Aronofsky. Un altro film imperfetto ed eccessivo, un'altra dichiarazione di fiducia per le potenzialità sconfinate del cinema di molestare e sporcare gli occhi. Un delirio visivo biblico e perverso, ma vivissimo ed estremo, sonoro e fisico, che s'interroga sul rapporto tra interno, sentimentale e artistico, ed esterno.

The Third Murder - Hirokazu Koreeda 5: forse il lavoro più debole di tutta la filmografia dell'autore giapponese, che cerca di svoltare verso il processuale, ma con un'impostazione troppo compassata e un ritmo soporifero. Eccessivamente verboso e senza alcun guizzo registico e narrativo, nonostante la solita attenzione alle innumerevoli sfumature dell'animo umano.

Sweet Country - Warwick Thornton 7: western aborigeno di gran classe, dove uno schiavo uccide il suo padrone razzista e stupratore e fugge con la moglie incinta verso il suo destino, mentre sullo sfondo stanno emergendo la rivoluzione sociale e il conflitto culturale dell'Australia degli anni Venti. Grande regia e grande fotografia: polveroso, ipnotico e solido.

Angels Wear White - Vivian Qu 4: dopo il bellissimo Trap Street (quattro anni fa alla Settimana della Critica), la regista cinese delude alla seconda prova con un banale e prevedibile giallo su due ragazzine vittime di abusi, adagiandosi su ovvie denunce nei confronti della corruzione e del malfunzionamento delle istituzioni. Nobile ma cinematograficamente scadente.

Mektoub, My Love - Abdellatif Kechiche 10: meraviglioso romanzo di educazione estiva ed erotica, inno definitivo alla giovinezza e alla sensualità del corpo femminile, complessa e problematica riflessione sulla contemplazione (e la frustrazione) di chi guarda. Un Kechiche mai così radicale e audace, in miracoloso equilibrio tra sublime e superficiale, tra poesia, sacralità e dance anni Novanta. Puro cinema inteso come sguardo sovversivo e liberatorio, come testimonianza di vita.

Hannah - Andrea Pallaoro 8: costruita quasi interamente sulla straordinaria forza attoriale di Charlotte Rampling, un'opera rigorosa e sensibile, che descrive con minuzia di particolari il dolore quotidiano di una donna rimasta sola, senza scene madri e isteria. Un'idea di cinema precisa, chiara e adulta, all'altezza del confronto con autori come Michael Haneke o Tsai Ming Liang.

Jusqu'à la garde - Xavier Legrand 4: il più sopravvalutato dalla giuria di Annette Bening, inspiegabile vincitore del premio per la miglior regia. Un film di denuncia basilare e didascalico, quasi uno spot di un'ora e mezza per la campagna contro lo stalking e la violenza domestica. Senza interrogativi e chiaroscuri, passando in maniera elementare dal dramma famigliare all'incubo thriller.



lunedì 11 settembre 2017

Riflessioni spiazzanti: Venezia 74

Mi sarei aspettato francamente un maggiore coraggio da parte del presidente di giuria Annette Bening nell'assegnazione dei premi di quest'ottimo Concorso di Venezia 74. The Shape of Water di Guillermo del Toro non ha bisogno del Leone d'oro per acquisire visibilità e, nello stesso tempo, non è un film che si distingua per particolari meriti, al di là di essere un buonissimo prodotto per famiglie, confezionato magistralmente per gli Oscar. Un tenero elogio all'amore e alla diversità, fin troppo perfetto e corretto, senza tormento. Un tono dark e fantasy sempre pulito, mai davvero cupo e irrequieto, mai sporco. The Shape of Water sa emozionare e rassicurare. Una favola sedentaria e conservatrice, che non sposta di un millimetro la ricerca cinematografica verso nuovi orizzonti - e sono certo che con il potenziale di questa storia il Tim Burton di un tempo, quello romantico e disperato, ne avrebbe tirato fuori un capolavoro. Guillermo del Toro è un regista privo della febbrile eccitazione che possiede un certo Abdellatif Kechiche quando è dietro la macchina da presa. Qualcuno sostiene che nel meraviglioso romanzo di educazione estiva ed erotica Mektoub, My Love: Canto Uno l'abbia confusa con il suo pene: un'osservazione brillante, ma non sono convinto che questo sia davvero un difetto. A parte i meriti puramente registici di Kechiche (nessuno muove la mdp come lui, nessuno attraverso dettagli e piccolezze instaura relazioni umane e racconta i personaggi come lui, nessuno immerge così tanto lo spettatore nella realtà e nella verità delle immagini come lui), Mektoub, My Love è una complessa e problematica riflessione sul ruolo di chi guarda: i lunghi primi piani sui bellissimi culi di ragazze che ballano, che hanno indignato la parte bigotta e castigatrice della stampa presente alla prima proiezione del film (mio dio, ci troviamo davvero ancora a questo punto?), sono la gioia di chi concepisce il cinema come sguardo sovversivo e liberatorio, come strumento artistico finalizzato a rompere i tabù e a far pensare, vedere, vivere ciò che non dovremmo o che non possiamo. Un'idea di cinema non troppo lontana da un regista strutturalmente lontano come Darren Aronofsky, che nell'imperfetto ed eccessivo mother! dichiara la sua fiducia indissolubile per le potenzialità sconfinate del grande schermo con un delirio visivo biblico e perverso, ma vivissimo ed estremo, sonoro e fisico, che sporca gli occhi e costringe a una reazione. Grazie a registi come Kechiche e Aronofsky, credo che abbia un senso intendere una visione cinematografica come un'esperienza. E, a tal proposito, in questa bella edizione della Mostra di Venezia, faccio fatica a non pensare allo struggente documentario Jim & Andy: The Great Beyond, dove si celebrano il significato profondo e le conseguenze dell'essere attore e dell'essere Andy Kaufman, quando, scoppiando quasi in lacrime, l'incredibile uomo e performer Jim Carrey ricorda la lezione del padre per cui "se devi fallire, è meglio fallire facendo quello che si ama".

Emiliano Dal Toso



lunedì 4 settembre 2017

Il Pagellino: Venezia 2017 - Prima Parte

Downsizing - Alexander Payne 5: il regista di Sideways e Nebraska non trova l'equilibrio tra farsa e riflessione ambientalista, e dopo un inizio promettente percorre la strada ecumenica del politicamente corretto. Non morde, si rifugia in scelte convenzionali, ma nello stesso tempo è troppo ambizioso per un semplice e divertente intrattenimento.

First Reformed - Paul Schrader 4: telecamera fissa e fiumi di parole per una riflessione banale sulla spiritualità. Schrader vive di rendita, ma i suoi ultimi film (The Canyons, Cane mangia cane) rivelano un evidente spaesamento sulla direzione autoriale da prendere. Stilisticamente tanto rigoroso quanto pretenzioso, con un paio di momenti che sfiorano il ridicolo involontario.

The Shape of Water - Guillermo Del Toro 6: una storia d'amore tenerissima dai toni favolistici in un film esteticamente straordinario ma dove non convince appieno l'elogio poetico della diversità. Probabilmente il Tim Burton di un tempo lo avrebbe reso un capolavoro, nelle mani di Del Toro è soltanto un ottimo prodotto ben confezionato.

The Insult - Ziad Doueiri 8: scontro dettato da futili motivi tra un cattolico libanese e un palestinese che si combatterà nell'aula di un tribunale. Una delle sceneggiature più potenti degli ultimi anni sulla necessità e la complessità della convivenza. Ritmo hollywoodiano, attori eccezionali, senza vincitori né vinti: nessuno ha l'esclusiva della sofferenza.

Lean On Pete - Andrew Haigh 4: enorme delusione dal regista inglese di 45 anni. Haigh sbarca in America e cerca di riadattare un immaginario che non gli appartiene. Senza sporcizia e ruvidezza, il suo romanzo di formazione irrita per perbenismo e lentezza, forzando in sensibilità e autorialismi una storia che avrebbe meritato tutt'altro furore e coinvolgimento.

Human Flow - Ai Weiwei 6: artisticamente indiscutibile e dalle nobilissimi intenzioni, ma la presenza dell'attivista e dissidente cinese è eccessivamente ingombrante. Da Weiwei era lecito aspettarsi qualche sforzo cinematografico più elaborato, al di là di immagini provenienti da tutto il mondo di indubbia bellezza volte a ribadire l'unicità dell'essere umano.

Foxtrot - Samuel Maoz 9: il dramma della perdita e l'orrore della guerra raccontati attraverso la disperazione di un padre e la vita in un checkpoint in mezzo al deserto. Il sangue si tramanda di generazione in generazione in un loop dove si torna sempre al punto di partenza. Ma l'assurdità della violenza e l'ineluttabilità del fato si possono esorcizzare con la danza e i racconti di gioventù.

Suburbicon - George Clooney 5: ormai le sceneggiature dei Coen cominciano ad assomigliarsi sempre più e a sorprendere sempre meno. George Clooney muore dalla voglia di essere il terzo fratello acquisito, desiderando a tutti i costi lo stesso sarcasmo e lo stesso cinismo di Fargo. Ma a parte qualche risata, il risultato è buffonesco e stilizzato.

La villa - Robert Guédiguian 8: forse il manifesto del cinema di Guédiguian: amore e amicizia, impegno politico, malinconia, solidarietà umana in un mondo cattivo e ingiusto dove è sempre più difficile essere buoni e giusti. Un cinema limpido e coerente, sincero: due ore in cui si assaporano vite molto simili alle nostre, tra affetti speciali e ideali perduti.

Una famiglia - Sebastiano Riso 3: una volenterosa e appassionata Micaela Ramazzotti non basta a salvare il naufragio di un film isterico e sopra le righe, con dialoghi spesso patetici su femminismo e filiazione, diritti civili ed egemonia del maschio. Stereotipato e frammentario, ottiene il risultato contrario a quello che si pone.

Tre manifesti a Ebbing, Missouri - Martin McDonagh 8: terzo lavoro del regista irlandese, più coeniano dello stesso Clooney. In un paesino del Missouri razzista e indifferente, la tragedia si stempera improvvisamente con la risata, così come la commozione si nasconde anche dietro personaggi grezzi e senzadio, forse soltanto alla ricerca di speranza. Terzetto d'attori inarrivabile: Woody Harrelson, Frances McDormand, Sam Rockwell.