mercoledì 28 marzo 2012

Pornoriviste. Tu non sei punk ma un sottofondo stupido

Ho numerose passioni nella vita, ma quattro in modo particolare: Natalie Portman, il Milan, il cinema americano e le Pornoriviste. Ho creato questo blog da appassionato di cinema un po' per gioco e un po' per noia e questo post non significa che modificherò l'indirizzo principale de 'Il bello, il brutto e il cattivo'. Semplicemente, apro alla possibilità di eventuali parentesi. In questo caso, mi piacerebbe parlare dell'ultima citata tra le mie grandi passioni, cioè la band punk-rock delle Pornoriviste. Le Porno sono una band amatissima, ma da pochi. Non è mai passato un loro video su Mtv o un loro pezzo su Radio Deejay e non ho mai letto un articolo su di loro su Rolling Stone. Quello che contraddistingue le Pornoriviste è la genuinità. Formatisi a metà degli anni Novanta a Venegono Superiore, provincia di Varese, negli anni del neocelodurismo leghista, i loro primi album si rivelano certamente debitori del punk-pop: i Green Day di 'Dookie' e gli Offspring di 'Smash' sono la base portante dei primi demo e del debutto 'Cosa Facciamo?'. Lavori acerbi, brufolosi, caratterizzati da testi tra il demenziale e il ribellismo scolastico. Molto adolescenziali, forse troppo. Nel 1999 esce 'Fino alla fine', un album che segna il primo grande passo in avanti. I riferimenti si spostano sull'hardcore americano più melodico (Nofx, Husker Du) e diventano un vero e proprio marchio di fabbrica le voci dei due cantanti Tommi e Dani. Sbiascicante e cavernoso il primo, urlante e romantico il secondo. Solitamente si alternano, a volte duettano. Nel 2001 'Codice a sbarre' ottiene un clamoroso successo tra le produzioni indipendenti. I testi sono più maturi e hanno parecchi riferimenti all'attualità. Non ci sono intellettualismi nelle loro canzoni, anzi, spesso sembra che i testi non vengano mai rivisti ma che siano il risultato di un incontrollato flusso di coscienza senza senso. Istintivi, immaturi, unici. Questo è il momento in cui le Pornoriviste potrebbero fare un bel contratto con una major e concedersi a reti televisive e magazine, e invece, nel 2003 esce 'Tensione 16', puro HC, album disperato nel quale la loro poetica sconclusionata, romantica, ignorante e provinciale raggiunge l'apice. Per chi ama il genere, è una fucilata. Ma quello che ho sempre trovato la carta vincente delle Pornoriviste è la scrittura incredibilmente autentica, senza regole, semplice in modo spudorato. Criticatissimi dai rock-snob e accusati di qualunquismo, le Pornoriviste sono una clamorosa espressione di quella fetta di provincia poco acculturata, priva di ideologie, che si affaccia alla politica attraverso i telegiornali. E il loro linguaggio ne è la conseguenza. Nessun orpello, cantano quello che pensano. Lo urlano. Si proclamano anarchici, vicini ai movimenti no-global ma quello che viene fuori dalle loro canzoni non è una presa di posizione politica, bensì soltanto il senso di un disagio, di un vuoto pneumatico compensato, qualche volta, dai sentimenti. Ascoltando una loro canzone, non ho mai avuto l'impressione neanche per un istante di ascoltare qualcosa di programmato o di preconfezionato. Gli ultimi due album 'La seconda possibilità' (2007) e 'Le funebri pompe', appena uscito, proseguono questa "politica". Come ho scritto sopra, il primo aggettivo che mi viene in mente pensando alle Pornoriviste è: genuino. Gli altri sono grezzo, antimodaiolo, coerente. Se per punk intendiamo i Clash, i Sex Pistols, gli anni Settanta, certamente le Porno non sono punk. Ma sono meglio di chi si autocompiace della propria cultura, di chi si autocommisera perchè si considera un artista e, quindi, è meglio degli altri. Nei concerti, il pubblico sale sul palco e canta con loro le canzoni. Le Pornoriviste sono una passione che rimane tale proprio per questo.

"Sono i fatti muoviti e combatti, non vedi che ce l'hanno con me?
Vieni avanti stiamo più compatti, non vedi che ce l'hanno con me?
Come gatti come matti come lupi annusali e combatti
Poliziotti e politicanti, non vedi che ce l'hanno con me?"
('Non vedi com'è', 2012)







lunedì 26 marzo 2012

Report: Festival Del Cinema Africano, Asia e America Latina 2012

Microcosmo atipico parte seconda. Dopo il bel post di Alvise Wollner sul Trieste Film Festival, ecco un secondo approfondimento su una bella realtà milanese, il Festival del Cinema Africano, Asia e America Latina. Un Festival che rivendica la sua totale indipendenza e autonomia, che rifugge ogni tentazione glamour e bada al sodo, alla sostanza, al contenuto. Alla qualità. Un Festival che non offre pellicole "carine" o esotiche ma che si concentra su opere cinematografiche vere, anche di genere, provenienti da luoghi nei quali di cinema se ne fa e anche bene ma che difficilmente hanno la possibilità di oltrepassare i propri confini nazionali. La settimana dal 19 al 25 marzo è stata molto intensa e ben programmata e l'organizzazione ha dato spazio non solo alle proiezioni, ma anche a incontri, conferenze stampa, concerti e, perchè no, happy hour molto particolari. I cinema che sono stati coinvolti sono vere e proprie chicche, posti di culto della cinefilia milanese: lo Spazio Oberdan, l'Auditorium San Fedele, il Teatro Rosetum, il Palestrina e l'Institut Francais. Ma passiamo a parlare dei film. Tra gli otto lavori che abbiamo avuto l'opportunità di vedere, qualcuno lo abbiamo trovato pessimo, un paio mediocri, un paio discreti e tre di fattura eccelsa. Al terzo posto troviamo la sorpresa del Festival, il tunisino 'Always Brando' di Ridha Behi. Esempio raro di cinema sperimentale, si è contraddistinto per l'alternanza coerente e fluida tra racconto documentaristico e finzione. Un forte e chiaro atto d'accusa alle produzioni hollywoodiane contemporanee, ree di utilizzare il mondo arabo per fini commerciali, trattando con superficialità il tema del terrorismo (e i bersagli sono chiaramente citati: 'Black Hawk Down', 'Green Zone', 'Syriana' tra gli altri). Un bel tono umoristico rende la visione per nulla faticosa e più di una sequenza è riuscita a strappare la risata. Al secondo posto posizionerei uno dei due veri capolavori della rassegna, ovvero il marocchino 'Sur la planche (Al limite)' di Leila Kilani, che aveva già partecipato alla Quinzaine di Cannes e che ha vinto il Festival di Taormina. La regista racconta con grande crudezza ed essenzialità la sopravvivenza di due ragazze ai margini della società, pulitrici di gamberetti di giorno e ladre-prostitute di notte. Un approccio che mi ha ricordato per la prima parte il cinema etico e viscerale dei fratelli Dardenne, mentre nella seconda parte la tensione, l'abilità narrativa, la costruzione da vero e proprio noir sociale mi hanno fatto pensare ai capolavori di Jacques Audiard ('Tutti i battiti del mio cuore', 'Il profeta'). Eccezionali le due protagoniste. Al primo posto, il vincitore della rassegna, ovvero il senegalese 'Aujord'hui' di Alain Gomis. Non succede spesso di trovarsi d'accordo con le scelte di una giuria ma, stavolta, non possiamo che considerare sacrosanto il riconoscimento attribuito dal presidente Marco Bechis. Il regista segue gli incontri, le esperienze, le suggestioni di Satchè durante il suo ultimo giorno di vita. Non sappiamo perchè e come morirà, semplicemente osserviamo il suo viaggio di ventiquattro ore verso l'accettazione della morte. Dominato da una luminosità spirituale, il film è uno straordinario percorso nella tradizione africana, nella sua filosofia, nella sua ritualità. Un cinema capace, però, di essere universale, popolare e di non porsi limiti sulle infinite possibilità della macchina da presa di creare visioni ed emozioni.

Emiliano Dal Toso


venerdì 23 marzo 2012

10 Regole Per Fare Innamorare (voto 5)

Guglielmo Scilla, in arte Willwoosh, è un ragazzo di 24 anni che è riuscito a diventare un fenomeno mediatico mettendo su You Tube una serie di video nei quali sfoggia liberamente il suo talento comico, appreso in maniera del tutto autonoma. Ci sono attori che per anni faticano nelle scuole teatrali con la speranza che un giorno possano ottenere anche soltanto una particina in un film, a Scilla è bastato un canale di You Tube e nel giro di pochissimo tempo ha ottenuto il ruolo da protagonista di '10 regole per fare innamorare', nuova creatura della neocommedia di Brizzi Land. Marco è uno studente universitario fuori corso, timido e impacciato, che si innamora di Stefania, borghesuccia, bella e irraggiungibile per uno come lui. A un certo punto, ripiomba nella sua vita il padre Vincenzo Salemme, nel classico ruolo alla "Christian De Sica", cialtronesco e sciupafemmine. Ed è così che sulla lavagna della cucina dell'appartamento di Marco spuntano le dieci regole infallibili per farla innamorare, che si riveleranno essere un vero e proprio percorso di crescita per il figlio. Il film, sì, è brutto ma nemmeno così tanto. Il regista Bortone non è uno sprovveduto, è al quinto film e conosce i tempi comici. Scilla ha la stessa fisiognomica del grande Jack Black malgrado possieda 1/1000 della sua gamma espressiva. Poco male, per tutta la pellicola si deve limitare alla classica espressione del "pesce lesso": quella fa e quella gli viene. Salemme è piuttosto godibile mentre si fa notare uno degli amici del protagonista, Piero Cardano, nei panni del bamboccione chitarrista e coltivatore di marijuana. Fausto Brizzi (qui sceneggiatore) si conferma un mostro in materia di furbizia e senso del marketing. Quest'ultimo lavoro è scritto meglio dei suoi ultimi dietro la macchina da presa e può contare su uno dei soggetti più vecchi ma efficaci della storia del cinema: l'imbranato che si innamora della bellona. Qualche scenetta, effettivamente, diverte e non c'è spazio per la volgarità cinepanettonesca. Senz'altro, si potrebbero spendere meglio questi 100 minuti ma, considerato il livello medio di Brizzi Land, queste 10 regole sono uno dei mali minori.

Emiliano Dal Toso

martedì 20 marzo 2012

East Ghost: Il Segreto Di Esma

Ci hai fatto caso? Questo odore è lo stesso di prima

Concludiamo il nostro approfondimento sui film dell'Est con 'Il Segreto Di Esma', bellissimo film del 2006, premiato con l'Orso D'Oro al Festival di Berlino ma passato piuttosto inosservato in Italia. La regista Jasmila Zbanic fu alla sua prima opera di finzione dopo una serie di documentari ed, immediatamente, realizzò un lavoro difficile da dimenticare, profondo e intenso. Siamo a Sarajevo, una decina di anni dopo la fine di quell'infame conflitto che violentò la Bosnia-Erzegovina. Esma è una quarantenne che abita a Grbavica, quartiere che venne usato dai serbi come lager. Di giorno fa l'operaia e di notte trova lavoro come cameriera in una via di mezzo tra una discoteca e uno strip club, un localaccio punto di incontro di alcuni dei peggiori ceffi della città. E' costretta a cercare un secondo lavoro per poter pagare la gita scolastica alla figlia quattordicenne Sara, dal momento che non spunta fuori quel certificato che testimonia che il padre è un martire di guerra, che la esonerebbe dal pagamento. Ma chi è veramente il padre di Sara? Perchè Esma non ha mai fatto luce sulla sua scomparsa? 'Il Segreto Di Esma' è, prima di tutto, un film di fantasmi. Sarajevo viene descritta in maniera spettrale, come un luogo irrimediabilmente stuprato della sua innocenza. Le uniche relazioni che si instaurano, anche quelle d'amicizia o di reciproco affetto, sono fondati sulla violenza. Così avviene per Esma, che nutre inaspettatamente una simpatia per una guardia del corpo del locale in cui lavora. E lo stesso accade a Sara, che stringe una forte amicizia con un suo compagno di scuola dopo una rissa durante una partita di calcio. Tutti hanno alle spalle un abbandono, una perdita dovuta alla guerra di un decennio prima. E' come se non ci fosse più spazio per l'interesse istintivo ma soltanto per un sentimento di solidarietà o di condivisione del dolore. Le bombe non ci sono più da un pezzo ma le macerie non sono mai state rimosse e i corpi sono ancora da identificare. Malgrado lo sfondo sia terribilmente cupo, la Zbanic riesce a donare al film un tono semplice, grazioso, ottimista. Splendidi i due personaggi femminili: Esma è una madre premurosa, una donna orgogliosa, ferita ma ancora capace di provare forti sentimenti; Sara è una adolescente acerba, tormentata dalla mancanza del padre ma piena di entusiasmo. Il loro rapporto ha parecchi passaggi indimenticabili, di grande tenerezza e di cruda drammaticità. Ma tutti i personaggi femminili del film sono da incorniciare, a cominciare dalle colleghe-amiche, che non abbandonano nel momento più difficile la coraggiosa protagonista. C'è spazio per una sola bella figura maschile, quella della guardia, seppure vittima anch'essa della criminalità che ha preso il sopravvento a Sarajevo. 'Il Segreto Di Esma' è, infine, un racconto sull'adolescenza e sull'avvicinamento alle prime vere difficoltà della vita. E su una comunità di donne, legate da un trauma incancellabile e da una dignità ultima a morire.

Emiliano Dal Toso

domenica 18 marzo 2012

Young Adult (voto 8)

Jason Reitman giunge al suo quarto film dopo i notevoli successi di 'Thank You For Smoking', 'Juno' e 'Tra le nuvole' che lo hanno proiettato come uno dei più promettenti registi americani, in modo particolare nella descrizione di una provincia tratteggiata sia nelle sue "carinerie" che nei suoi chiaroscuri. 'Young Adult' è il suo film più feroce e graffiante e, indubbiamente, il suo migliore. Charlize Theron interpreta Mavis Gray, trentasettenne autrice di romanzi rosa per adolescenti, che ritorna nel suo paese natìo per riconquistare il fidanzato del liceo, ora padre di famiglia. Una volta era desideratissima dai suoi coetanei, ora Mavis non ha certamente perduto la sua bellezza folgorante ma si è rinchiusa in un vortice di eterna illusione, dovuto a una naturale predisposizione per la distruzione. Non a caso, vuole riconquistare il suo ex proprio nel momento in cui questo ha appena avuto una figlia e, pare, sia innamoratissimo della moglie. Il suo è un ruolo di "sfasciatrice", di bella e maledetta. Mavis è un ritratto femminile impietoso e la sceneggiatrice Diablo Cody è bravissima nell'evitare qualsiasi risvolto consolatorio e buonista. I suoi caratteri sono chiaramente definiti dall'inizio alla fine, il che allontana qualsiasi possibilità di trovarsi di fronte a un romanzo di formazione. Piuttosto, 'Young Adult' è il racconto di un ritorno a casa senza redenzione, di una negazione della possibilità di prendere consapevolezza. Un po' stronza e un po' puttana, la Theron ha lo sguardo di chi si sveglia la mattina reduce da una sbronza sempre peggiore di quella della sera prima. Da questo punto di vista, le sue notti da leoni non sono mai l'eccezione ma la quotidianità: non esistono compagni di merende con i quali condividere il suo stato esistenziale. Sola ma non abbandonata, Charlize dona al suo personaggio una meravigliosa sgradevolezza. Da un lato, "gli uomini come noi sono nati per amare le donne come lei", avvicinabili ma traditrici per vocazione. Dall'altro, il piedistallo sul quale pensa di vivere e dal quale si rivolge a chiunque altro non è destinato a frantumarsi, anzi, è una condanna che le impedisce di percepire la realtà delle cose. Le verità che la circondano sono dolorose e i luoghi nei quali è cresciuta e abita non le appartengono. Nè la provincia, che ha rifiutato perchè sinonimo di omologazione e di medietà, nè la città, che respinge e forzatamente riaccetta, poichè inadatta al suo bisogno di essere al centro dell'attenzione. Se George Clooney in 'Tra le nuvole' percorreva una strada che lo portava a riflettere su se stesso e sui suoi bisogni, la protagonista di 'Young adult' non evolve. Guardando lo specchietto retrovisore, rimane una statua di sale, compiacendosi della sua femminilità e disprezzando l'eventualità di un lieto fine. Troppo bella e troppo differente da tutti gli altri, non concede mai l'impressione di porsi per qualcuno ma soltanto di voler dimostrare a qualcuno. Una commedia spietata, amarissima, che individua nelle bottiglie di bourbon gli unici motivi di consolazione. Bello e Cattivo.

Emiliano Dal Toso




giovedì 15 marzo 2012

East Ghost: Il Ritorno

Girato con l'entusiasmo di un regista che si accinge a realizzare la sua opera prima, dopo una prestigiosa carriera nel mondo del teatro, 'Il ritorno' ci parla delle vicende di due fratelli russi, Andrei e Ivan, adolescenti che giocano a diventare adulti, la cui vita viene sconvolta dal ritorno improvviso del padre, assente da dodici anni. Una figura ambigua, avvolta in un alone di fascino e mistero che li condurrà in un viaggio estremo dove troveranno loro stessi capendo il significato della vita. Un road movie atipico, che si trasforma in viaggio di formazione e si conclude con dei risvolti da tragedia shakesperiana. Il film di Zvyaginstev possiede tutte le peculiarità per essere ascritto nell'Olimpo dei grandi capolavori. Una regia impeccabile, sia nella direzione degli attori, che nelle scelte delle inquadrature, supportata da una fotografia mozzafiato e da una storia, di certo non nuova, ma mai banale. Importantissimi i riferimenti alla pittura del tardo Quattrocento e del primo Cinquecento: dal "Cristo morto" di Andrea Mantegna, usato come simbolica previsione dello svolgimento della trama, fino alle incisioni di un artista geniale e sottovalutato come Albrecht Durer. Ma "Il ritorno", oltre a essere uno stilema di perfezione tecnica, è anche una grande storia di sentimenti e vicissitudini umane. Ci fa capire che una vita degna di essere vissuta comporta gioie ma soprattutto dolori, è un percorso lunghissimo costellato in ogni parte da simboli di morte che non dobbiamo temere ed essere capaci di affrontare. Un percorso dove non possono mancare le domande a cui non riusciremo mai a dare una risposta, rappresentate qui dalla scatola di cui non si conosce il contenuto, simbolo di finitezza dello scibile umano. Seduto sulla poltrona, mentre scorrono le 24 fotografie (come il numero di fotogrammi che vengono proiettati al secondo) che chiudono il film, penso tra me e me: che incredibile turgore narrativo, che sorprendente potenza visiva! L'opera di Zvyaginstev mi lascia estasiato e commosso e mi fa innamorare sempre più della Settima Arte.

Alvise Wollner

sabato 10 marzo 2012

East Ghost: Blue Moon

Ho cercato per mesi e mesi di far vedere Blue Moon ad Emiliano. Poi qualcosa andava storto e non riuscivamo mai a combinare. Finalmente, un paio d'anni fa, ce l'abbiamo fatta. Ambientazione esteuropea, ma regista e parte del cast austriaci. E quindi che si fa? Bah, partiamo dalla regista: Andrea Maria Dusl. Giornalista e scrittrice austriaca molto schierata politicamente (non si offenderebbe, credo, ad essere definita comunista), conosciuta sul web anche come Comandantina Dusilova, che poi è il nome del suo sito internet. Blue Moon (2002) è il suo primo, e per adesso unico, film. Johnny Pichler è un disgraziato austriaco che tira avanti facendo il corriere di denaro per alcuni loschi figuri. In uno dei suoi viaggi incontra Shirley, escort biondissima e, per un motivo o per l'altro i due si ritrovano a rubare una macchina e a scappare insieme verso la Slovacchia. Inizia un viaggio strano, a volte afasico, a volte demenzialmente divertente, che i due portano avanti per poco perchè Shirley sparisce senza dire nulla. Pichler conosce un altro disperato come lui, un ex tedesco dell'Est, tale Ignaz, che lo trascina in curiose e ridicole peripezie commerciali, o presunte tali. Mollato anche Ignaz, Pichler riesce a scoprire alcune tracce che potrebbero portarlo da Shirley, però per arrivare a lei dovrà finire a L' viv, in Ucraina, dove incontrerà Jana, tassista e sorella gemella di Shirley, che è del tutto uguale alla escort, non fosse che porta dei corti capelli rossicci. Shirley è scappata da tre mesi, spiega Jana, voleva andarsene in America, aveva giurato. Pichler e Jana si innamorano. Però la ragazza ha dentro qualcosa che sanguina, un taglio bello grosso, di quelli che i cerotti non bastano. Esiste davvero Shirley? Perchè Jana ha paura degli spazi bui e chiusi? Come sono morti i suoi genitori e sua sorella gemella? Pichler intuisce qualcosa dietro ai sorrisi splendidi ma tristi di Jana. Non saprei definire questo film, come genere, intendo. È divertente, intelligente, dotato di una disattenta profondità, leggero, fresco. C'è del drammatico, c'è del comico. C'è una bella storia d'amore. Un amore sbilenco, improbabile, tra due come Pichler e Jana che sono personaggi a loro modo tormentati, due solitudini che si trovano. Vabè, insomma, si sarà capito, a me questa storia d'amore è piaciuta parecchio. Molto tenera, lieve. E poi c'è anche uno spaccato che la Dusl ci offre sull'Est Europa della transizione. Niente di sociologicamente impegnato, questo no. Un Est dove tutti cercano un po' di pararsi il culo, di pensare per sè (la polizia ucraina corrotta, il perdigiorno Ignaz...), però dove ci sono persone pronte a scatti di umanità e amore totali, come Jana. Il regime lontano di Mosca è caduto, tutto dovrebbe andare a posto, ma non è così. La nuova libertà occidentale non è mica il massimo, perchè fa diventare puttane le brave ragazze. Si rilegge e recupera il passato. Questo è un tema piuttosto attuale in Germania: la Ostalgie, la nostalgia dell'Est. Fantastico Josef Hader (Pichler), attore austriaco dotato di un'innata attitudine al comico, anche solo attraverso la camminata, la mimica. Bellissima Viktoriya Malektorovych. Inizio e fine film con inquadratura fissa sulla famosa scalinata di Odessa. Sognando Ejzenstejn.
PS: Qualche anno fa la regista mi ha scritto su Facebook che stava preparando un altro film. Spero lo faccia presto, perchè il suo Blue Moon penso sia roba che vale.

Ivan Ivanovich Brentari

 

giovedì 8 marzo 2012

Cesare Deve Morire (voto 10) IL FILM DEL MESE

Il risultato di 'Cesare deve morire' è incredibile. Si fa fatica a credere, infatti, che gli autori del più sperimentale e coraggioso lungometraggio italiano (almeno) del nuovo millennio siano due registi ultraottantenni, ormai praticamente del tutto fuori dai maggiori circuiti e dall'interesse della stampa, diventati uno stereotipo di un certo cinema d'autore un po' prolisso e pesante. Con 'Cesare deve morire' i fratelli Taviani firmano un'opera che ha il coraggio di porsi una domanda fondamentale, ovvero quale funzione debbano avere il teatro, il cinema e, di conseguenza, la cultura. E, in fondo, domandarsi se abbia davvero significato il termine di artista. In un Paese nel quale la retorica ha preso il sopravvento e nel quale vengono fatti proclami e rimproveri sul livello culturale da personaggi che si autodefiniscono artisti senza avere alcun motivo concreto e reale per farlo, i Taviani ri-definiscono il significato di cultura e di arte come bisogno primario dell'uomo. Per farlo, utilizzano la forza innovativa del cinema e la sua capacità di sperimentare e riprendono un gruppo di detenuti del carcere di Rebibbia durante la preparazione dello spettacolo teatrale di Shakespeare 'Giulio Cesare'. Teatro come unico motivo di riscatto, come unica possibile via di fuga. Gli attori-detenuti entrano immediatamente in sintonia con i personaggi che devono interpretare. Da una parte perchè le vicende dell'opera shakespeariana non sono poi così lontane da quelle che hanno vissuto in prima persona nel loro inferno privato, dall'altra perchè nella loro condizione galeotta non hanno alcuna difficoltà nell'assumere un ruolo, un carattere, una posizione che dietro la cella non possiedono. I protagonisti di 'Cesare deve morire' sono un corpo neutro, assente che, grazie all'allestimento teatrale, diventa concretezza e presenza. Non è un caso che i due registi riprendano ogni sequenza del 'Giulio Cesare' in un luogo del carcere differente. Ed è qui che entra il gioco l'incredibile forza del linguaggio cinematografico. In un luogo chiuso e confinato, i Taviani ribadiscono il concetto di spazialità e, nello stesso tempo, di essenzialità. Laddove il teatro è istantaneo e locale, il cinema è continuativo e universale e, soprattutto, sconfinato. E questa sconfinatezza può essere resa anche nel luogo per eccellenza di negazione della libertà. Un altro aspetto della straordinaria operazione di ricerca cinematografica è costituito dall'utilizzo dei dialoghi. Quasi completamente le battute del film sono quelle del 'Giulio Cesare', l'intreccio narrativo principale è quello shakespeariano. Eppure, è il modo con il quale vengono detto le battute, l'energia, la simbiosi dell'attore con il personaggio a essere il vero centro del discorso. Ed, infine, la scelta del bianco e nero finalizzata alla descrizione di un ambiente irreale e innaturale, che diventa colore soltanto nel momento della rappresentazione finale davanti al pubblico. 'Cesare deve morire' è una scelta politica che sculaccia la presunzione, l'autocommiserazione di chi si ritiene superiore a quasi tutti gli altri. E' un film intellettuale e anti-intellettualistico. E' un capolavoro sul concetto di eguaglianza. Se il vincitore dell'Oscar di quest'anno 'The Artist' è un inno al Cinema, il vincitore dell'Orso d'Oro è un inno alla Cultura. Bello e senza confini.


Emiliano Dal Toso

lunedì 5 marzo 2012

In Time (voto 5)

L'idea di partenza è folgorante. Alla fine del XXI secolo il denaro si misura in tempo. L'uomo è geneticamente programmato per crescere fino a venticinque anni e al ventiseiesimo muore. A meno che non possa permettersi di vivere anche per l'eternità. Ovviamente, le differenze sociali sono enormi: la vita di pochi ricchi significa la condanna di tanti poveri. Sulla carta, 'In Time' poteva riportare la fantascienza a essere uno strepitoso specchio del presente, uno zeitgeist devastante, così come è stato per 'Blade Runner' negli anni Ottanta o per 'Matrix' durante il passaggio del millennio. Il regista Andrew Niccol, però, si dimostra un buon sceneggiatore e un mediocre regista. Non a caso, aveva scritto il capolavoro 'The Truman Show', che considero uno dei più grandi film di sempre. Dietro la macchina da presa, invece, aveva prodotto lo scarso 'Lord Of War' mentre ammetto di non aver visto il debutto di 'Gattaca' che era stato piuttosto osannato. Il grande problema del suo quarto film è proprio la messinscena, prevedibilissima e palesemente commerciale. Dopo i primi venti minuti decisamente accattivanti, 'In Time' scivola verso i toni giovanilistici della fuga d'amore in maniera fredda e prolissa. La società viene descritta in modo senz'altro impietoso, senza personaggi che possano suscitare minimamente simpatia: nè i ricchi, crudeli e parafascisti, nè i poveri, disperati e incattiviti. Ma la cupezza non è certamente una caratteristica del film, che si rifugia in trovate da action movie di bassa lega. Niccol non ha proprio grandi guizzi, la sua regia è convenzionale e, per essere così ambiziosa, con poca personalità. Non dispiace, tutto sommato, Justin Timberlake, alla sua terza prova convincente dopo lo Sean Parker di Fincher e il ruolo da trombamico di Mila Kunis. Fa simpatia il fatto che un plurimiliardario come lui interpreti un operaio ma va detto che JT si adopera alla causa con grinta e carisma. Poco incisiva Amanda Seyfried e troppo sopra le righe Cilian Murphy nell'ennesimo ruolo da cattivo. Un'ultima stoccata finale: in teoria, tutti i personaggi non dovrebbero invecchiare fisicamente oltre i venticinque anni ma è piuttosto inverosimile crederci per davvero, tra rughe, calvizie e doppi menti.

Emiliano Dal Toso




























domenica 4 marzo 2012

East Ghost: 4 Mesi, 3 Settimane, 2 Giorni

Con i fantasmi dell'Est inauguriamo la nuova rubrica di approfondimento. Ogni mese un filo conduttore differente terrà legati alcuni di quei film che costituiscono la nostra passione.
Romania, 1987. Nel regime di Ceauşescu l'aborto è illegale da ormai ventun anni, da quando un decreto, inserito nella politica di incentivazioni della nascite, lo proibisce esplicitamente (insieme, tra l'altro, ad ogni tipo di contraccezione). Il mercato nero è ormai all'ordine del giorno; alla Casa dello Studente, si “spacciano” Tic-tac, gomme da masticare e Marlboro. Le Kent sono quasi introvabili. In questo regime agli sgoccioli, anche l'aborto appartiene al monopolio del mercato nero; il rischio del carcere non è sufficiente ad inibire la totalità dei medici dal praticare l'interruzione di gravidanza illegalmente: alcuni lo fanno perché ne sentono il dovere morale, altri, senza scrupoli, soltanto per soldi (e parecchi). La storia che Cristian Mungiu ci racconta - sua anche la sceneggiatura - è la vicenda di una studentessa ingenua e impreparata che, incinta da 4 mesi, 3 settimane e 2 giorni, si trova ad avere a che fare con questo mondo duro e spietato, l'unico che, pur costringendola all'illegalità, le consente di tradurre in atto la sua scelta di non portare a temine la gravidanza. Al suo fianco un'amica solo un'amica. Il film è straordinario innanzitutto per la forza che riesce a trasmettere, anche senza la necessità di un'azione troppo pronunciata. Le riprese degli interni sono lunghe e statiche, i dialoghi (ottimi) sembrano procedere lentamente e inesorabilmente verso l'inevitabile mancanza di una via d'uscita. Non c'è scelta. La mancanza di una soluzione legale al problema costringe la ragazza a mettersi nelle mani di un individuo che è in grado di dettare le regole del gioco, dalla prima all'ultima («siete voi ad avermi chiesto aiuto, non io»),con tutto l'imbarazzo di una ragazza per bene che entra nei meccanismi e nei giochi perversi di un criminale con il coltello dalla parte del manico. Il momento chiave della narrazione è rappresentato da è quello che avviene nella stanza d'albergo prenotata per effettuare l'operazione. In quella stanza il gioco del regista è magistrale e la soggettività delle inquadrature - mi pare di intuire che il film sia girato totalmente con una telecamera a mano – ci aiuta a stare vicino all'individuo, a non giudicare, ad accettare gli errori (o presunti tali) come un semplice fatto umano irrevocabile, di cui ora si stanno pagando tutte le conseguenze, e anche di più. Troppo di più. Molto interessante, dal punto di vista stilistico, la scena della cena; un tocco di commedia lontano, lontanissimo da quella stanza d'albergo. In questo film c'è molto del cinema romeno, infinitamente debitore dell'opera di Kieślowsky e, contemporaneamente, vicino alla scuola francese.

Giancarlo Mazzetti