giovedì 29 novembre 2012

Il Sospetto - The Hunt (voto 7)

Presentato all'ultimo Festival di Cannes, 'Il sospetto' di Thomas Vinterberg racconta il dramma di un uomo, un brav'uomo, un uomo comune, che viene accusato ingiustamente di pedofilia. La vicenda si svolge in una piccola comunità danese, nella quale tutti conoscono tutti e tutti sanno tutto di tutti. Ciò significa che venire etichettati in una determinata maniera equivale alla morte sociale. Questo è il sunto del film del regista danese, uno dei fondatori del Dogma 95, insieme a Lars Von Trier. 'Il sospetto' ha sia pregi sia difetti. Il fatto che lo spettatore sappia immediatamente che il protagonista è innocente significa schierarsi dalla sua parte, stabilire subito chi sia il buono e quali siano i cattivi. Caratteristica narrativa certamente non presente in un giallo o in un thriller. Siamo, dunque, di fronte a un dramma, coinvolgente, in grado di scuotere. Va anche detto che lavorare su un registro così definito è più semplice, perchè può essere rincarata la dose. Lo spettatore segue le ingiustizie subìte dal protagonista, di pari passo, soffre con lui e si indigna per la graduale escalation di torti e di umiliazioni che gli vengono inflitte. Il coinvolgimento emotivo è enorme ma, da un certo punto di vista, disonesto. La sensazione che ho avuto alla fine di 'Il sospetto' è stata la stessa di 'Festen', il lavoro più famoso di Vinterberg nonchè il Dogma #1: quella di un cinema ricattatorio, che non dà troppo spazio alla elaborazione e alla interpretazione autonoma. Quello che non fa, ad esempio, un regista come Lars Von Trier, o che almeno non fa più. Ciononostante, 'Il sospetto' merita di essere visto se non che per la grande interpretazione di Mads Mikkelsen, premiato con la Palma. Ed è, comunque, sempre meglio un cinema che prende una posizione, che si pone l'obiettivo di turbare, rispetto a quel cinema neutrale, democratico, che vuole piacere a tutti i costi. Meglio anche il titolo inglese 'The Hunt', la caccia, per distinguersi dal capolavoro hitchcockiano.

Emiliano Dal Toso

Il sospetto

lunedì 26 novembre 2012

East Ghost: Sukhodol - The Dry Valley

Aleksandra Strelyanaya è una timida ragazza russa di 34 anni, ma ne dimostra la metà. Ha girato un film meraviglioso che si chiama 'Sukhodol', tratto dal libro omonimo di Ivan Bunin del 1912. La storia ci parla di un mondo lontano, nel tempo e nello spazio. Una casa padronale immersa nella feroce campagna russa. Il tempo scorre lento, i gesti sono immutabili. Natalia, un'orfana divenuta fedele serva, è innamorata del padrone. Da lui viene accusata di furto e mandata in esilio per un anno in un casolare lontano. Quando torna deve sottostare ai voleri capricciosi della sorella del ricco possidente, invasata, posseduta da un demone oscuro. Viene stuprata da un viandante, perde il bambino. L'amato padrone muore incenerito da un fulmine. Tutta la vicenda è attraversata dal fremito sottile del misticismo russo. Una superstizione violenta, come violenta, senza compromessi, è la bellezza della Russia. Aleksandra è riuscita a dare al suo lavoro lo spessore di un capolavoro letterario, e questo è difficilissimo da fare, perché spesso le immagini sono bugiarde, prendono la via breve, e raramente sanno andare in profondità. Invece qui la perfezione tecnica diventa fondamentale per la resa lirica della storia. Il linguaggio si trasforma in contenuto. La grazia delle immagini ci restituisce l'impressione perfetta della grandezza letteraria dell'opera. Non esagero se dico che la potenza evocativa delle inquadrature della Strelyanaya io l'ho vista soltanto in Antonioni e in pochi altri. Ed è solo il suo primo lungometraggio. Se non ci credete, cercate su Youtube il trailer di 'The dry valley', il titolo inglese del film. Inoltre il film è recitato (benissimo) da attori non professionisti, emersi proprio da quel mondo nascosto che il film ci disvela, e i suoni vengono dalla presa diretta, portandosi dietro la magia dei luoghi e delle persone. Come dicevo anche ad Aleksandra, il limite più grande è che questo film può essere purtroppo capito appieno solo da chi conosce bene la cultura e la vita russe. Tradizioni, suggestioni, emozioni. "Piangi, scema, se no la felicità non viene."

Ivan "Ivanovich" Brentari



mercoledì 14 novembre 2012

Ballata Dell'Odio E Dell'Amore (voto 9) IL FILM DEL MESE

Attenzione, questa recensione contiene un linguaggio osceno. Il tono è volutamente eccessivo e sopra le righe (come, d'altronde, il bellissimo film di cui si parla). Se prendete tutto sul serio, non leggetela e andate su MyMovies.

'Ballata dell'odio e dell'amore' è una furia. E' un film intriso di violenza, che sporca gli occhi e invade la Storia. Presentato al Festival del Cinema di Venezia del 2010, venne attribuito del Leone D'Argento da un entusiasta Quentin Tarantino. Tra i giurati, c'era anche Gabriele Salvatores che dichiarò che dopo la visione del film di Alex De La Iglesia gli tornò immediatamente la voglia di girare e di fare cinema, ma quello con i coltelli che parla di bastardi e di figli di puttana, e la scelta è ricaduta sulla traduzione cinematografica del best seller 'Educazione Siberiana'. Il settimo lavoro del regista spagnolo aggredisce lo spettatore, visivamente, emotivamente, e lo spoglia di ogni pretesa intellettualistica. Il Cinema, la Politica, la Vita non hanno mezze misure, sono pagliacci tristi e pagliacci scemi. Quello che conta sono le bombe, gli attentati. Quello che rimane sono le sconfitte, i traumi, le delusioni. L'amore è stupido, forse è un desiderio di rivalsa, certamente non muove il sole e le altre stelle. Forse, è solo la mancanza di una scopata. 'Ballata dell'odio e dell'amore' ci insegna che la verità non sta mai nel mezzo. Nelle cose, c'è sempre un giusto e uno sbagliato, un felice e un infelice, un buono e un cattivo, una vittima e un carnefice. La diplomazia, la democrazia, il contraddittorio vanno lasciati a chi se li può permettere, a chi non ha mai sofferto abbastanza, a chi se ne può andare affanculo. Noi vogliamo il sangue, noi vogliamo lo schermo che si sporca di rosso, vogliamo i terroristi, vogliamo il grand guignol, vogliamo il porno, vogliamo il cazzo duro e vogliamo la figa bagnata. Cuore e amore fanno rima con dolore. 'Ballata dell'odio e dell'amore' attraversa quarant'anni di Spagna, all'insegna della dittatura, della frustrazione, della sottomissione. Averle subite non porta desiderio di pace, porta sete di vendetta. La razionalità è una illusione. Questo sta alla base di tutto ciò che dovrebbe essere punk, anarchico, questo sta alla base del significato di quel cinema che pretende di essere cinema dell'orrore, cinema di guerra, cinema di battaglia. Chi non è d'accordo, ha sempre un divano su cui appassionarsi alle primarie del centrosinistra.

Emiliano Dal Toso



giovedì 8 novembre 2012

Tutti i Santi Giorni (voto 7)

'Tutti i santi giorni' è un film che si colloca pienamente nello stile di Paolo Virzì, accompagnato da quei pregi e da quei difetti che spesso si controbilanciano nella filmografia del regista livornese: qualche volta è successo che i primi prevalessero nettamente sui secondi ('Ovosodo', 'My name is Tanino', 'Tutta la vita davanti'), mentre non più di un paio questi ultimi hanno preso il sopravvento ('Caterina va in città', il sopravvalutato 'La prima cosa bella'). Quello che convince quasi sempre di Virzì è la capacità di descrivere perfettamente gli umori e le contraddizioni del nostro Paese, con grande ironia e leggerezza e senza alcuna retorica. Il suo tocco registico è genuino e ruspante, non dà mai l'impressione di essere programmatico o ruffiano. Ciononostante, alcuni passaggi (anche quelli dei suoi migliori film) danno l'impressione di esagerare con le carinerie, con il rischio di apparire buonisti o troppo politicamente corretti. Quest'ultimo lavoro, infatti, è grazioso, pregevole, preciso ma a tratti pecca di un sentimentalismo che filtra pericolosamente con il familismo. Lo spunto narrativo di 'Tutti i santi giorni' non è certamente tra i più originali, anzi, è ormai un topos dei vari manuali d'amore o delle commedie americane degli ultimi anni: una coppia di trentenni vuole avere un figlio ma non ci riesce. Anche l'intreccio non è solidissimo: i tentativi portano allo sfinimento i due protagonisti, al punto da mettere in discussione il rapporto. Ciononostante, è nelle piccolezze, nelle caratterizzazioni dei personaggi che Virzì convince. Il personaggio maschile, interpretato dal bravo Luca Marinelli (quello de 'La solitudine dei numeri primi') è un ritratto fenomenale, tenero e indovinatissimo di una specie ormai in via d'estinzione, quella delle brave persone, per di più colte, istruite e intellettuali ma per niente radical-chic. La figura femminile, invece, è un po' più convenzionale, ma pur sempre credibile ed è incarnata dalla debuttante Thony, che fa la cantante, sia nella finzione che nella realtà. Nel complesso, il film ha numerose trovate divertenti ed è pervaso da un ottimismo contagioso. In alcuni dettagli, il regista poteva essere più feroce, dal momento che la storia è comunque quella di due individui sottostimati dalla società, che per tirare a campare sono costretti a sacrificare i propri talenti e la propria cultura per dedicarsi a lavori che certamente non rispecchiano i loro desideri. Sullo sfondo, poi, c'è una Roma molto poco ospitale, rozza e abbastanza violenta. Insomma, Virzì si conferma l'unico vero erede della "commedia all'italiana", malgrado qualche dolcificante di troppo. Il suo cinema non è adatto a festival internazionali e nemmeno a partecipare alle selezioni degli Oscar per il miglior film straniero (come è erroneamente accaduto con 'La prima cosa bella'). Però è dignitoso, semplice, a volte emozionante.

Emiliano Dal Toso

 




martedì 6 novembre 2012

Skyfall (voto 7)

La recensione del Bondiano
Basta con azione frenetica e poco cervello, basta con attori tronchi d’albero (Pierce Brosnan in testa), ma soprattutto basta con il quartier generale dei servizi segreti londinesi, rivogliamo quella stanza vecchia e calda a cui si accede dall’ufficio di Miss Moneypenny. E' riuscito Sam Mendes a esaudire i nostri desideri? In parte. La prima cosa che salta agli occhi dei puristi è l’aver abbandonato l’amato Martini per una Heineken. Si passa dalla rinomata eleganza di un eroe indistruttibile (sia Connery che Moore non avevano mai la giacca sporca) a un Bond grezzo, che mostra i segni del tempo. La seconda novità è la quasi totale eliminazione delle scene di tensione erotica che sottolineavano l'abilità seduttiva dell'agente segreto, per rendere il personaggio più umano e meno impossibile. La terza è il ritorno ad una location storica come Macao. La quarta è il ritorno ad un cattivo davvero entusiasmante, interpretato dal bravissimo Javier Bardem (notevolmente più carismatico di Mathieu Amalric), che vuole distruggere Bond e la MI6, e conquistare il Mondo. Quello che, però, traspare maggiormente in questo 23simo episodio, oltre a certe atmosfere che si erano perse con gli anni, è la cura dei dettagli, soprattutto nella descrizione di James, molto più criptico, in chiaroscuro e vulnerabile. Si fa notare il giovane Ben Whishaw, nei panni del nuovo Q. Bravissimo anche Ralph Fiennes: benvenuto nel club. 'Skyfall' non deluderà i fan più accaniti: è cosi che vogliamo l’agente 007 più famoso del cinema. L.R.

La recensione del Non Bondiano
Non sono certamente un amante della saga di James Bond ma, a dir la verità, non sono proprio un amante dei film di spionaggio. Non perchè sia prevenuto o quant'altro, ma perchè ciascuno di noi ha quel genere cinematografico che non riesce proprio a farsi piacere: per alcuni è l'horror, per altri la fantascienza, per me sono le spy story. Tra tutti i film di 007 che ho visto quello che mi è piaciuto di più è il violentissimo 'Vendetta privata' con Timothy Dalton, credo l'attore meno amato dai bondiani. Detto ciò, sono andato a vedere il nuovo 'Skyfall', 23simo episodio della serie, per una ragione molto semplice: dietro la macchina da presa non c'è il solito mestierante ma Sam Mendes, uno che ha dimostrato di saperci fare. Devo ammettere di essermi divertito per due ore abbondanti. Chi ama il cinema, non può non riconoscere che dietro questo 'Skyfall' ci sia un lavoro tecnico pazzesco (in primis, la fotografia di Roger Deakins). Difficile anche non godersela di fronte a dialoghi brillanti e spumeggianti, con più o meno volontari riferimenti all'attualità (si ripropone, più volte, il tema della "rottamazione"). Ad ogni modo, anche se il risultato finale non fosse stato di ottima fattura, stroncare un film di 007 sarebbe completamente inutile. E' grazie a personaggi popolari come James Bond che il Cinema ha significato di esistere: senza gli 007, senza le Guerre Stellari, senza i Rocky Balboa, la Settima Arte non sarebbe altro che un'elucubrazione mentale, non adatta a tutti. Quando a un certo punto di 'Skyfall', James rispolvera la sua amata Aston Martin, da una parte del pubblico presente in sala si è alzato un boato: vivaddio se il Cinema non debba essere vissuto in questo modo. E.D.T.

 


domenica 4 novembre 2012

The Irish Side: The Commitments

Gli irlandesi sono i più negri d'Europa, i dublinesi sono i più negri d'Irlanda, e noi di periferia siamo i più negri di Dublino.


Nel 1988 lo scrittore irlandese Roddy Doyle pubblicò 'The Commitments', il primo dei romanzi che formano la "trilogia di Barrytown", immaginario quartiere operaio di Dublino. Gli altri due sono 'The Snapper' e 'Due sulla strada'. Tutti i libri della trilogia hanno la loro versione cinematografica. Questi ultimi sono stati portati sullo schermo da Stephen Frears, regista abituato a storie di proletariato, mentre fu Alan Parker, il regista di successi come 'Saranno famosi' o 'The Wall', a portare al cinema 'The Commitments' nel 1991. Perchè Parker? Perchè 'The Commitments' è un film musicale, materia che il regista londinese conosce alla grande. Quello che non ci si poteva aspettare è che Parker descrivesse Dublino e la sua gente meglio di un irlandese, ne inquadrasse magistralmente lo spirito, le aspettative, l'ironia, la sconfitta, l'anima. E' la storia di un gruppo di persone (alcuni più giovani, ma soprattutto musicisti disoccupati o ubriaconi perdigiorno) che mette in moto il sogno di formare un gruppo soul e di sfondare, di diventare la terza stella del firmamento musicale irlandese dopo gli U2 e Sinead O'Connor. Perchè il soul? Perchè è una musica sincera, onesta, semplice ma che ha il ritmo della fabbrica e del sesso. Il loro nome è The Commitments, che significa "gli impegni, le promesse." I ragazzi ci sanno fare, sono musicisti e cantanti eccezionali. Dopo i primissimi concerti nelle parrocchie e nei centri sociali, appena si comincia a intravedere uno spiraglio di possibile successo, cominciano a sbranarsi, pian piano il gruppo si sfalda, nessuno sopporta più nessuno. E il sogno si sgonfia subito, tutti prenderanno strade differenti. 'The Commitments' è esattamente come il soul: racconta la vita per quella che è, con i suoi tanti frammenti, avara di sogni destinati a realizzarsi. Si concentra sulla passione, sul tragitto, sul percorso: arrivare al traguardo è irrilevante. E' un film che sta dichiaratamente dalla parte degli sconfitti, di chi è incapace a disciplinarsi. Ne fa risplendere la poesia, il talento che è quasi sempre in contraddizione con la capacità di fare pace con se stessi. Parla dell'Irlanda, degli irlandesi, di un popolo che non gliene frega un cazzo delle occasioni sprecate o dei progetti a lungo termine. Quello che conta sono le mani sulle cosce, e sia le mani, sia le cosce possono essere di chiunque. Tutti gli interpreti (fenomenali) di 'The Commitments' erano completamente sconosciuti prima delle riprese e vennero scelti soltanto per le loro capacità musicali. Nessuno di loro ha proseguito la carriera da attore.
 
Emiliano Dal Toso

 




giovedì 1 novembre 2012

The Irish Side: Hunger

Questo mese parleremo di cosa significhi essere irlandesi e cattolici.

Steve McQueen è un regista di corpi, oltre che di film. Poche volte al Cinema, prima di lui, si era vista una tale capacità nel riuscire a far comunicare il fisico umano, sia esso deperito o dirompente, più delle parole. Lo ha potuto fare grazie a un attore come Michael Fassbender, straordinario nel regalare emozioni senza mai finire nell'eccesso o nel grottesco. La sua opera prima, "Hunger" è un esordio folgorante, su un tema spinoso che ancora oggi troppa gente conosce a malapena: la lotta per l'indipendenza dell'Irlanda del Nord. Il regista di "Shame" ci mostra la sua visione su quello spaccato di Storia.
Le proteste nelle strade o le lotte davanti ai palazzi del potere non gli interessano. Decide quindi di raccontare la sua storia in un luogo dove uomini-zombie camminano emaciati in strade senza nome. E' la prigione di Maze, durante i giorni dello "sciopero della coperta" e di quello dell'igiene. Tra i detenuti ce n'è uno in particolare, Bobby Sands, leader del movimento dell'IRA. Uomo affamato di giustizia, disposto a tutto pur di difendere i suoi ideali. Il regista struttura la narrazione creando due piccoli film semi-muti, intervallati da un piano sequenza centrale di chiara matrice teatrale. Il silenzio dei corpi viene rotto dalla parola che però anticipa, a sua volta, un successivo silenzio. Quello della Morte. Non ci sono mezze misure, l'orrore è sbattuto dritto negli occhi di chi guarda. Nessuna mediazione, nessuna volontà di nascondere un crimine così grande, rimasto sconosciuto già per troppo tempo. Lady Thatcher è solo una voce metallica che pronuncia fredde parole senza speranza. C'è solo un modo per contrastarla: iniziare uno sciopero della fame. E poco importa se ciò significherà morire, almeno lo si sarà fatto senza mai tradire se stessi. Questa è Storia, niente è costruito. Tortutre e sevizie, che avremmo immaginato in tempi da medioevo, sono successe a uomini come noi, trent'anni fa, in quel freddo dicembre del 1981. La storia di Bobby, che a 27 anni muore diventando lo scheletro di se stesso, per vedere libero il suo Paese, ci diche che la coerenza è il valore più grande su cui costruire le nostre vite. Penso che ogni nazione dovrebbe avere il suo Bobby Sands, ma mi guardo intorno e vedo solo il nulla del menefreghismo.

Alvise Wollner