Da un parte, Cuba. Luogo dell'anima, romantica e desolata, umana e poverissima, abbandonata a se stessa, pervasa da una sensazione di perdita e di separazione. Rovinata dall'esaurimento del sogno castrista, soffocata e umiliata dalle ombre dell'America e del controllo imperialista. Dall'altra, le storie degli innamorati Alex ed Edith, della vedova Milagros, dei piccoli Alain e Frank. Relazioni e frammenti di un presente destinato a interrompersi, di un passato che non si sradica, di un futuro proiettato in un altrove che per ora si può soltanto fantasticare.
E il film mantiene piena fede al suo bellissimo titolo, sconfinato e malinconico, popolato di moltitudine e nostalgia, misurando i metri di distanza interiori che ci separano dalle persone che amiamo. L'incapacità di immortalare la condivisione del sentimento. L'impossibilità di fermare il tempo. Il distacco, la mancanza, l'abbandono. Il tormento per la fine delle cose che non siamo in grado di lasciare indietro. La certezza che la vita ci costringe a prendere direzioni diverse.
Ed ecco allora il cinema, le immagini, le parole, la fotografia, la musica, il teatro, l'arte. Uno spettacolo di burattini. Ma anche lo sport: a Cuba è il baseball. Catartici e fondamentali per mettere ordine al nostro caos, per dare testimonianza dei nostri struggimenti. Per provare che questa vita, questo mondo, questi spazi, li stiamo occupando ed esistendo. Che le nostre lontananze possono essere ridotte. Che le nostre scelte possono essere perdonate. Che gli addii e forse gli errori, in quel momento, erano inevitabili. Nonostante i dolori, nonostante le assenze.
Potrei parlare di riferimenti come Lav Diaz, Alfonso Cuaron, Miguel Gomes, Pawel Pawlikowski, di cinema d'osservazione e di ricerca, di etnografia e antropologia, di finzione e cinema del reale, ma m'interessa il giusto. Lo facciano altri. Mi limito a consigliare a chiunque un film che fino alla fine dei miei giorni non potrò dimenticare.
Emiliano Dal Toso