mercoledì 31 ottobre 2012

Billy WIlder Gallery: Testimone D'Accusa

C'è chi dice che questo sia il miglior film di Billy Wilder. Detto in tutta onestà, io non so se sarei capace di indicare un singolo titolo su tutti del regista austro-ungarico (anche se la città in cui è nato, oggi, è in Polonia), ma sicuramente Testimone d'accusa è uno dei cinque tra i quali dovrei scegliere se avessi la famosa “pistola puntata alla testa”. Per chi non lo sapesse, la pellicola è l'adattamento per il cinema di un testo di Agatha Christie, la cui opinione è che questo sia il miglior film tratto da qualcosa di suo. Siamo nel 1957 e Testimone d'accusa è il film che apre il triennio mirabilis di Billy Wilder (nel '59 e '60 usciranno A qualcuno piace caldo e L'appartamento), si tratta di un film molto singolare, in cui si alternano e si confondono la commedia e il giallo giudiziario; i punti di forza su cui è costruita questa duplicità di genere sono sostanzialmente due: una perfetta sceneggiatura (firmata dal nostro Billy) e, nella messa in scena, un'attenzione particolare agli (e degli) attori. La sceneggiatura, il testo in particolare, è lo strumento -preciso ed efficace- con cui si costruisce il tema del giallo: sin dalle prime scene siamo nel vivo della questione, senza fastidiose sotto-trame fuorvianti o introduttive, il film inizia e finisce con la storia di cui ci vuole parlare; non ci sono punti morti, perché l'intrigo del tema portante è talmente completo ed esaustivo che basta a se stesso. Le uniche concessioni che Wilder si permette fuori dell'intreccio principale sono, come dicevamo, le sfumature della commedia che si sovrappongono al rigoroso linguaggio del giallo giuridico. Questo elemento si gioca però nel modo, non nel contenuto: sono la fisicità degli attori e i loro atteggiamenti spesso (apparentemente) assurdi a condurre il gioco in questo senso: strepitoso, quanto a fisicità e adeguatezza nel ruolo, è per esempio Charles Laughton (nella versione italiana aiutato da un meraviglioso Giorgio Capecchi -quello del padre di Caio ne La spada nella roccia-) nei panni dell'avvocato vizioso, ma anche il buon Tyrone Power, teatrale nel dramma forzato dell'interrogatorio e totalmente sopra le righe durante le prime fasi del film. Oltre, ovviamente, a Merlene Dietrich, da sottolineare anche la badante dell'avvocato (Elsa Lanchester), che i più attenti avranno sicuramente visto anche in 'Mary Poppins' in una parte simile (è la governante che si licenzia all'inizio). Insomma, uno dei capolavori di un maestro assoluto. Film da non perdere e, secondo me, da rivedere (è uno di quelli che alla seconda visione sono più belli).
 
Giancarlo Mazzetti


Risate e Morte: 50 e 50

Omaggio alle festività di Ognissanti e alla giornata di commemorazione dei defunti.
- Lo disse Foscolo, lo ribadisco: della vita il fulcro è il sepolcro - Elio e Le Storie Tese

"Hai il cinquanta per cento di possibilità di salvarti! Sei stato molto fortunato... al Casino ne avresti molte meno." Con queste parole l'amico del cuore Seth Rogen reagisce alla notizia della grave malattia di Joseph Gordon-Levitt e con battute di questo tipo, lievi e amarognole, lo sceneggiatore Will Reiser ha scritto un racconto autobiografico in perfetto equilibrio tra dramma e commedia, semplice ma mai semplicistico, tanto profondo ed emozionante quanto ironico e divertente. Il tema del rapporto con la morte è uno dei più inflazionati del cinema americano degli ultimi anni se solo pensiamo all'Eastwood di 'Hereafter' o al Van Sant di 'Restless'. Jonathan Levine con '50 e 50' offre il miglior esempio possibile di cinema americano indipendente: reale, naturale, genuino. Perchè anche nel momento del dramma la vita può essere estremamente comica, come nelle scene in cui i malati di cancro si ritrovano a consumare erba e a prendersi in giro con solidarietà e autoironia. E nelle frivolezze si può rivelare drammatica, per esempio nelle relazioni sentimentali, con il protagonista deluso e abbattuto dopo il tradimento della sua fidanzata, interpretata da una brava e stronza Bryce Dallas Howard. Ma è nella descrizione dei rapporti umani che il film vince la sua sfida a pieni voti. Innanzitutto, '50 e 50' è anche un film sulla morte ma è soprattutto un film sull'amicizia e sull'amore. Amicizia che viene esemplificata dal bellissimo personaggio di Seth Rogen, apparentemente frivolo e scurrile, eppure il primo ad andare incontro con lunatica sensibilità alle necessità dell'amico. Anna Kendrick, invece, piccola e deliziosa, rappresenta quello che dovrebbe/potrebbe significare l'amore, ovvero una nuova possibilità, un'alternativa, un cambio di rotta. Vorrei che tu fossi la mia ragazza le confessa un grande Joseph Gordon-Levitt al telefono, la notte prima degli esami, dopo aver lesionato la sua ugola. Quest'ultimo predomina con la sua simpatia naturale, con le sue inquietudini incredibilmente tendenti all'identificazione, come già era riuscito nelle sue precedenti e indimenticabili interpretazioni di 'Mysterious Skin' e ' 500 giorni insieme'. Un piccolo grande film, con un paio di momenti deliziosamente demenziali: il tentativo di approccio in discoteca presentandosi come "malato di cancro", il taglio di capelli con il rasoio solitamente utilizzato per le parti intime da Seth Rogen, genio comico totale.


Emiliano Dal Toso



sabato 27 ottobre 2012

Billy Wilder Gallery: Viale Del Tramonto

Aprendo un mio ipotetico libro sui dieci capolavori del cinema, trovereste sicuramente 'Viale del Tramonto' di Billy Wilder. Il Maestro non si è limitato, però, a creare un solo capolavoro, ma ha scritto pagine intere di Storia del Cinema: 'L’appartamento', 'La fiamma del peccato' e 'A qualcuno piace caldo' sono solo alcune delle sue opere d’arte . 'Sunset Boulevard' è uno di quei film capaci di emozionarmi e di sorprendermi ogni volta che lo guardo. Un giovane e disoccupato sceneggiatore, braccato dall’assicurazione per i pagamenti arretrati, decide di recarsi in auto alla Paramount Picture per proporre la sua ultima scadente sceneggiatura, ma sulla strada del ritorno incrocia gli odiati assicuratori. A causa di una foratura, si nasconde nel garage di una vecchia casa sul Sunset Boulevard. Da questo momento, inizierà una lenta discesa agli inferi. Questo dramma ha come caratteristiche principali, per quanto riguarda lo stile, una voce fuori campo (che mostra e descrive le azioni e i pensieri del protagonista), un bianco e nero travolgente e una straordinaria fotografia. La forza di questo immenso capolavoro consiste, però, in quelle idee che stanno dietro ad una grande sceneggiatura. Infatti, ci viene mostrato il netto contrasto tra un modo di fare e di intendere il cinema, risalente al periodo del muto, e un altro modo, giovane e nuovo, che si stava affermando. Il cinema muto è  rappresentato dalla figura della protagonista Norma Desmond (Gloria Swanson, regina del cinema pre 1929, mette in questa interpretazione tutta la sua storia personale), una diva che vive nei ricordi, di quello che è stato, del suo splendore e della sua fama. Questo suo essere ancorata al passato si nota anche dalle lettere che numerosi fan le mandano, dalla vecchia casa arredata con uno stile démodé e dall’automobile ormai da antiquariato. Oltre a ciò, si circonda di amici, anch'essi decaduti, come Buster Keaton, Hedda Hopper, Anna Q. Nilsson, mentre nella parte del maggiordomo Max troviamo Erich Von Stroheim, famosissimo regista che fece un controverso film con Gloria Swanson, mai terminato. Sintomatica di questa situazione la scena in cui Max, con tono nostalgico, elenca al giovane scrittore i tre maggiori registi del muto: Cecil B. De Mille, D. W. Griffith e, appunto, Erich Von Stroheim. Il personaggio dello scrittore disoccupato (William Holden), invece, è la metafora della voglia del nuovo cinema di uscire allo scoperto, di superare i fantasmi del passato. Nel mezzo, troviamo Cecil B. De Mille (ha diretto numerosi film con Gloria Swanson), nel ruolo di se stesso, metafora di un cinema che fu, ma che ha avuto però la lungimiranza di capire che il sonoro sarebbe stato il futuro e, quindi, di rimettersi completamente in gioco. Tutto, in questa pellicola, concorre a rappresentare un manifesto della grandezza del cinema hollywoodiano e della sua Storia. Il titolo in inglese si riferisce a una delle vie più lunghe e famose di tutta Los Angeles, dove vivono alcuni tra gli attori più famosi, mentre il titolo in italiano fa riferimento ai divi che furono, quelli del cinema muto.


Luca Recordati



venerdì 26 ottobre 2012

Le Belve (voto 3)

Quando vado al bagno ogni mattina, amo portare con me una copia del 'Corriere della Sera' o di 'Repubblica', per leggere le recensioni di critici come Maurizio Porro o Paolo D'Agostini. Di rado, capita di trovarmi d'accordo con le loro opinioni. Non è certamente stato il caso di 'Amour', dal momento che entrambi hanno osannato il film per la sua "pesantezza". Stamattina, è successo, però, che riprendessi in mano la copia di 'Repubblica' di ieri e leggessi il pezzo che ha scritto D'Agostini sull'ultimo lavoro di Oliver Stone, 'Le belve', visto ieri sera. Incredibile, la sua stroncatura traduceva in maniera civile quello che ho pensato alla fine del film. Scrive D'Agostini: "Regista prolifico e spesso in sintonia con il suo tempo, di affascinante qui Oliver Stone non presenta proprio niente. Il film è un collage di luoghi comuni ed è un prodotto di serie B... La sua estetica è semplicemente quella di aumentare le dosi in maniera parossistica. Ma senza la più lontana ombra dell'ironia parodistica dei maestri di questa pratica, da Leone a Tarantino. Sostanzialmente ci comunica, come se fossimo dentro il cinema ingenuamente razzista uscito dalle fucine hollywoodiane di sessanta o settant'anni fa, che sopra il Rio Bravo c'è l'indiscussa civiltà e sotto il Rio Bravo c'è un branco di scimmie senza valori." Ancora più efficace l'analisi dello stimato Mauro Gervasini: "Per Stone, il sesso è una plasticosa combinazione di attori insapori e incolori... Per come il regista si è immaginato le situazioni hard pare di giochicchiare con una Barbie e due Ken. Non è un'eccezione all'interno di un film che parla d'altro (la guerra tra due spacciatori bianchi e un cartello di messicani), perchè si tratta della cifra stilistica di un cineasta che è da tempo la parodia di se stesso. Privo di una precisa idea di narrazione, chiude con un doppio finale e ogni sequenza pare concepita per convincere che non siamo di fronte a un fumetto o a un pulp movie, ma al film di un grande autore. E invece, l'impressione è che si tratti solo di una violenta e patinata soap opera, senza alcun appeal." Ho preferito utilizzare le parole di altri per descrivere quello che è forse il più brutto film degli ultimi anni. Probabilmente, mi sarei fatto trasportare dall'esagerazione e avrei scritto cose brutte e anticostituzionali. Ciononostante, i motivi per cui 'Le belve' (titolo che sarebbe stato più adatto a un cinepanettone di Massimo Boldi) non merita il voto più basso in pagella ma addirittura 3 sono, appunto, tre: 1) la scena in cui Salma Hayek si strappa il parucchino fa molto ridere; 2) Emile Hirsch è uno dei miei attori emergenti preferiti e, benchè relegato in un ruolo di secondo piano, è l'unico che tenta perlomeno di recitare; 3) pensare alle belve di oliver stone sarà un'ottima alternativa alla lettura del 'Corriere' o di 'Repubblica', quando vado al bagno ogni mattina.

Emiliano Dal Toso
 


giovedì 25 ottobre 2012

Bidoni D'Autore: Amour (voto 5)

Nella recensione di 'Amour', il critico cinematografico di 'Repubblica' Paolo D'Agostini elogia l'austriaco Michael Haneke, perchè è uno dei pochissimi registi che continua a "fare un cinema pesante". Ecco perchè, secondo me, 'Repubblica' non andrebbe letta. In poche righe, D'Agostini inquadra perfettamente la stupidità intellettuale di chi pensa, a priori, che il cinema europeo sia per forza migliore di quello americano, che i film lenti abbiano per forza più significati di quelli d'azione, che gli sbadigli siano per forza sinonimo di qualità. Tutto quello contro cui cerco di "combattere", nel mio piccolissimo, col mio umile blog. Certo, i fratelli Dardenne sono degli autori, Ken Loach è un grande autore, Mike Leigh e Laurent Cantet sono degli autori, ma lo sono anche Michael Mann, Darren Aronofsky, Quentin Tarantino. No, "fare un cinema pesante" significa fare un cinema noioso e basta, non significa fare un buon cinema. E tutto ciò che annoia, che non emoziona, che non percuote, non è interessante. Haneke ha girato bei film, alcuni per nulla noiosi come 'Funny Games', altri più ostici ma affascinanti come 'Niente da nascondere'. Ha girato un grandissimo film, lento sì ma ipnotizzante, come 'Il nastro bianco', ed effettivamente intriso di significato. Nel nuovo 'Amour', il tocco di Michael Haneke è immediatamente percepibile: salotti borghesi, grande eleganza stilistica, un sottile senso di fastidio pronto ad esplodere in tragedia. Se nei precedenti lavori, però, il centro del discorso era smascherare le ipocrisie, provocare i suoi personaggi affinchè emergesse il loro lato peggiore, talvolta mostruoso, occultato dai formalismi derivanti dalla loro educazione e dal loro status sociale, con 'Amour' il dramma conturbante non è più la conseguenza degli eventi ma il presupposto dal quale, poi, tratteggiare i comportamenti dei protagonisti. I pur bravi Jean-Louis Trintignant e Emmanuelle Riva sono due ottantenni e potrebbero essere benissimo gli stessi personaggi, un po' cresciuti, di 'Funny Games' o di 'Niente da nascondere': rispetto ai film precedenti, Haneke ribalta la prospettiva, e offre una descrizione meravigliosamente umana del modo con cui il primo si prende cura della moglie malata. Il senso di pietas come unica possibile rappresentazione dell'amore, autentico, immacolato. Peccato che per giungere a questa conclusione, Haneke ci impieghi due ore e un quarto lunghissime, interminabili, nelle quali non succede praticamente niente. Noia totale, per una conclusione che non ha davvero niente di originale. Non ci sorprendiamo che un radical-chic come Nanni Moretti si sia entusiasmato di fronte ad 'Amour', attribuendogli la Palma D'Oro all'ultimo Festival di Cannes. I film di Nanni, però, sono indubbiamente più inventivi, più profondi, più vivi di questa versione intellettualoide di 'Autumn in New York', indigeribile anche per chi è abituato ai ritmi dell'ospizio.

Emiliano Dal Toso



lunedì 22 ottobre 2012

Cartoon Record: Gladiatori Di Roma (voto 6)

Da oggi nasce una nuova rubrica, dedicata all'animazione e curata da una delle nostre firme, Luca Recordati. Record utilizzerà gli occhi e il cuore del bambino, uniti alla competenza dell'esperto, per parlare di un genere ormai fondamentale per interpretare le evoluzioni del cinema contemporaneo.
        
 
Il piccolo Timo, rimasto orfano dopo la terribile eruzione di Pompei, viene adottato dal generale Chirone per essere cresciuto all’accademia di gladiatori più famosa di tutta Roma. Cercherà di riconquistare il cuore di Lucilla, figlia di Chirone, anche grazie all’aiuto degli amici Ciccius e Mauritius e della personal trainer Diana.
'Gladiatori di Roma 3D' è realizzato da Iginio Straffi, già creatore del cult per i più piccoli, 'Winx Club'. Dobbiamo essere fieri di Straffi poiché, insieme all’aiuto di un valido team di oltre quattrocento persone, ha messo in piedi gli studi della Rainbow C.G.I., che si occupano di animazione tridimensionale e di pubblicità, oltre a ricerche nel settore del 3D. Questo cartone non ha la forza di un Miyazaki, della Disney o della Dreamworks, poiché l’intento è di catturare soprattutto i bambini più piccoli; ed un tempo era anche la prerogativa dei cartoni della Disney. Se paragonato ad essi, 'Gladiatori di Roma 3D' soccombe di fronte agli indiscussi maestri americani. Quello che lo rende un prodotto fruibile da tutti i bambini è la semplicità della storia, dell'intreccio, infarcito di insegnamenti sulla vita: uno su tutti, quello di non arrendersi subito alle  prime difficoltà, perchè tutto si può conquistare con la fatica e con il sudore. Questo è il significato di questo cartone. Inoltre, la descrizione dell’antica Roma può aiutare i bambini a comprendere meglio quel preciso periodo storico. I personaggi sono ben definiti e, come vogliono le favole, c’è un buono, c'è un cattivo e c'è anche una strega, oltre ad animali simpatici, come una tigre, un orso ed un cavallo. Il doppiaggio è di buon livello e vede Luca Argentero dar la voce a Timo, la bella Laura Chiatti a Lucilla e la bellissima Belen Rodriguez a Diana. Nulla da eccepire per quanto riguarda il 3D. La colonna sonora è di Bruno Zambrini, uno dei compositori italiani con maggiore esperienza. Ha scritto 'La Fisarmonica' per Gianni Morandi, 'Bambola' per Patty Pravo, oltre a tante colonne sonore, tra cui spiccano quelle di 'Notte prima degli esami' e, soprattutto, quelle della celebre saga di Fantozzi. Se analizziamo questa pellicola da un punto di vista meramente filmico, meriterebbe un voto non troppo alto. Se la analizziamo con gli occhi e la mente di un bambino, ci divertiamo, impariamo e ridiamo. Ai più grandi che non sono genitori, zie o baby sitter, consiglio di virare su un film di Miyazaki.

Luca "Skywalker" Recordati


    

 



lunedì 15 ottobre 2012

Un Giorno Speciale (voto 5)

Cristina Comencini è uno dei grossi mali del cinema italiano. Da 'Va dove ti porta il cuore' a 'Quando la notte', passando per 'Bianco e nero' e 'La bestia nel cuore' (veramente orribile), la regista romana non è mai stata in grado di girare un lavoro perlomeno dignitoso. Figlia del grande autore di 'Pane, amore e fantasia' e di 'A cavallo della tigre', è una delle principali rappresentanti di quello pseudo-intellettualismo retorico e cerchiobottista, che si indigna di fronte ai successi dei cinepanettoni ma che dietro la facciata finto-impegnata nasconde un banalissimo e stucchevole contenuto. Nel suo cinema: soltanto personaggi benestanti, soltanto drammi famigliari, soltanto problemi sentimentali. Ha una sorella un po' più giovane, Francesca, autrice di teatro e documentarista, che cinque o sei anni fa ha girato un film molto bello, 'A casa nostra', che descriveva impietosamente che città dimmerda sia diventata Milano negli ultimi dieci anni. Attenti, dunque, a non confondere Francesca con Cristina. Francesca è anche la regista di 'Un giorno speciale', presentato all'ultimo Festival di Venezia in Concorso. Purtroppo, 'Un giorno speciale' assomiglia troppo a un film della sorella Cristina e non è lontano, per banalizzazioni e approssimazioni, alla descrizione degli adolescenti/giovani adulti dei libri di Moccia. La diciannovenne Gina si sta preparando a un incontro con un parlamentare, che le dovrebbe garantire un posto sicuro in televisione. Ad accompagnarla all'appuntamento è Marco, suo coetaneo e autista al primo giorno di lavoro. L'incontro viene rimandato a sera, a causa degli appuntamenti del parlamentare. Durante la mattina e il pomeriggio, però, i due baldi giovani avranno modo di approfondire la loro conoscenza, di confidarsi e di confrontarsi, forse di innamorarsi. Molto avviene all'interno dell'auto blu guidata da Marco, manco fossimo nell'ultimo di Cronenberg. Dopo una partenza interessante e simpatica, 'Un giorno speciale' si perde in dialoghi pressochè imbarazzanti e in una caratterizzazione dei personaggi iper-stereotipata. Tanto la regista era riuscita a individuare il marcio che invade banchieri e politicanti in 'A casa nostra', quanto non risulta assolutamente in grado di percepire i reali sentimenti e pensieri di due ventenni, costretti a inseguire i sogni che vengono loro imposti dalla società dell'apparire e della superficie. I riferimenti al velinismo e al berlusconismo sono di una sciatteria senza pudore. Se il risultato finale non è penoso come i film di Cristina, lo dobbiamo ai protagonisti. Filippo Scicchitano è di una simpatia naturale, immediata e, dopo 'Scialla', si tratta di una bella conferma. Giulia Valentini non è soltanto un gran bel biscottino. In fondo, 'Cosmopolis' è ancora più brutto.

Emiliano Dal Toso


 



sabato 13 ottobre 2012

On The Road (voto 7)

Nessuno sa quel che succederà di nessun altro se non il desolato stillicidio del diventar vecchi.
 

Ha lavorato otto anni ininterrottamente Walter Salles per trasportare sul grande schermo il romanzo di Jack Kerouac 'Sulla strada'. Il regista brasiliano de 'I diari della motocicletta' ha terminato un'impresa che altri registi sono stati costretti sempre ad abbandonare, a causa della grandissima difficoltà di trasformare in immagini le parole del libro. Stiamo parlando di progetti che vedevano Godard dietro la macchina da presa con Marlon Brando protagonista oppure di Francis Ford Coppola regista con Brad Pitt in prima linea. Salles, invece, ha scelto per i ruoli principali due attori poco conosciuti, Garrett Hedlund nei panni di Dean Moriarty e Sam Riley in quelli dell'alter-ego di Kerouac, Sal Paradise. Quest'ultimo lo ricordiamo, però, per un altro ruolo maledetto, quello di Ian Curtis nell'ottimo 'Control' di Anton Corbijn. 'Sulla strada' è sicuramente uno dei libri più belli che abbia mai letto nella vita. Come tanti altri, la grande attesa di vedere la traduzione cinematografica di uno dei propri libri più amati non può che comportare enormi delusioni. Oltretutto, quando si tratta di un capolavoro letterario riconosciuto all'unanimità (e in questo caso, sinceramente, i bastian contrari sono dei cretini). Non stiamo certamente parlando de 'La solitudine dei numeri primi'. Ad ogni modo, l' 'On the road' di Walter Salles è un buon film. Chi ama veramente il cinema, non può non riconoscere la grandissima precisione del lavoro di Salles, sotto ogni punto di vista: ricostruzione storica, ambienti interni ed esterni, musiche, paesaggistica, vestiti, tutto viene riportato in maniera semplicemente magnifica. Ottima anche la scelta del casting, non solo Hedlund e Riley sono indovinati ma soprattutto una favolosa Kristen Stewart/Mary Lou e un simpaticissimo Tom Sturridge/Carlo Marx. Belle anche le brevi apparizioni di Viggo Mortensen e Steve Buscemi. E' probabilmente questa straordinaria precisione formale a essere, nello stesso tempo, il maggior pregio e il maggior difetto del film. Se, da una parte, il risultato è quello di un'operazione impeccabile, dall'altra proprio questo sapore così vintage, così patinato, appare essere quasi un tradimento all'anarchia e alla potenza dello spirito di Kerouac. Questo è l'appunto principale da fare all'opera di Salles. Per il resto, il film scivola via benissimo, e nel finale riesce anche ad emozionare (bellissima, in modo particolare, la parte messicana). Ciononostante, va detto che si esce dal cinema con l'amaro in bocca, ma la colpa non è del regista. Si esce dal cinema con l'idea che si sia assistito alla storia di due ragazzi, di due amici troppo lontani e distanti, ormai. Si è assistito a una storia, a un racconto, a un'utopia che non esistono più. Oggi, 'Sulla strada' è un documento storico, un capolavoro letterario del Novecento. Ma è un'illusione pensare che parli ancora di quelli come noi. Tanto di cappello, comunque, a Walter Salles, che dopo aver affondato il colpo nelle radici del Che, conferma di non aver paura a rincorrere e ad aggredire il Mito.
 
Emiliano Dal Toso



venerdì 12 ottobre 2012

Billy Wilder Gallery: A Qualcuno Piace Caldo

Capostipite del Cinema giocato sul travestimento, pietra miliare della Commedia e saggio impeccabile di regia e recitazione. Non si esagera mai quando si danno queste definizioni a un film come 'A qualcuno piace caldo'. La commedia più rappresentativa e, forse, più celebre di Billy Wilder. Siamo nel 1959 e partendo da un fatto di cronaca realmente accaduto, il regista austriaco naturalizzato statunitense, tesse una vicenda che pone le basi nel fenomeno del travestismo. Con sapiente maestria, rovescia tutti gli stereotipi sessuali dell'epoca e crea qualcosa di assolutamente unico. Non una semplice commedia, ma una farsa geniale dai risvolti picareschi e in certi casi noir. Sorretta da un ritmo infallibile, riesce a trattare di Amore e Morte con una leggerezza, ma anche con un'intelligenza così grande, da lasciare estasiati. Jerry e Joe, protagonisti, loro malgrado, di tutta la vicenda, saranno risucchiati dalla spirale della sessualità, diventando donne per necessità, impossibilitati a esprimere la loro virilità. Per salvare la pelle, dovranno insomma cambiare la loro pelle. Dimostrandosi sempre a suo agio nel genere comico, qui Wilder mette in mostra tutta la sua modernità. Non a caso, un anno dopo l'uscita del film (1960), Alfred Hitchcock fece uscire 'Psyco', facendoci capire come sarebbe stata la pellicola di Wilder in salsa thriller. Fu il film preferito da Freddie Mercury, diede origine al musical 'Sugar', e molti riferimenti si possono trovare anche in 'Priscilla-La regina del deserto', film cult degli anni 90. Insomma, se la battuta finale ci ricorda come nessuno di noi sia perfetto, "A qualcuno piace caldo" ci fa intravedere da vicino cosa voglia dire la perfezione quando si parla di Cinema comico.
Alvise Wollner



mercoledì 10 ottobre 2012

Un Sapore Di Ruggine E Ossa (voto 10) IL FILM DEL MESE

- Baby you're a firework, come on, show'em what you're worth - Katy Perry

- Siamo carne e fiato - Gianna Nannini

 

E' così che vanno fatti i film. Jacques Audiard è un regista che parla della vita per quella che è, senza intellettualismi, senza fronzoli. Racconta di uomini e di donne sempre al limite, ai margini, che si affannano e che sono disperatamente alla ricerca di un appoggio per poter stare nel mondo, a loro modo. Questo accadeva nei strepitosi lavori precedenti ('Sulle mie labbra', 'Tutti i battiti del mio cuore', 'Il profeta'), questo accade nel nuovo 'Un sapore di ruggine e ossa'. Sa parlare di persone, sa raccontare la sconfitta e il riscatto, la sensualità e il dolore. Senti i sospiri, le lacrime, la rabbia dei suoi protagonisti. Glieli senti addosso. Senti i magoni, i batticuori. I graffi, sulla pelle, nell'anima. Stringere i denti, e poi ripartire. 'Un sapore di ruggine e ossa' parla di corpi, come unica risora quando tutto sembra perduto. Per Ali, l'utilizzo del corpo è l'unico modo per sopravvivere, sfruttandolo nei più disparati lavori, da quello di buttafuori a quello di vigilante, fino a quello di pugile di strada. Se non fosse per i suoi muscoli, per la sua prestanza fisica, non sarebbe nessuno. Non avrebbe niente. Per Stephanie, invece, recuperare il proprio corpo, riappropiarsene, restituirne una dignità significa tornare a vivere, tornare a sentire. Entrambi sono due solitudini, che per necessità, per solidarietà, si trovano indissolubilmente legate, strette per la vita, per i fianchi, per i sessi. Entrambi sono spigolosi, irrequieti, non riconciliati. Lui è tanto brutale e inadeguato (nel ruolo di padre, di amante, di fratello), quanto inconsapevolmente capace di attenzione. Lei ha pochissimi affetti personali, una volta era la femmina che amava essere inseguita e guardata, che amava sedurre e abbandonare. E' bellissima e, fino ad ora, è sempre stata consapevole di esserlo. Lei è Marion Cotillard, che offre l'interpretazione della sua carriera, che allunga gli arti verso il cielo, verso l'alto, quando riscopre il piacere che può offrire un'esistenza, seppur dimezzata. Lui, invece, è Matthias Schoenaerts, che respinge la possibilità di provare sentimenti ed emozioni, fino a quando non porta all'estremo la propria forza, le proprie ossa, per salvare tutto quel poco di buono che è presente nella sua vita. Jacques Audiard è un cineasta che ti stringe per il collo e ti molla solo quando hai raggiunto il limite. E' un regista pieno, che non dimentica che il cinema è anche genere, azione, intreccio narrativo, tensione. Ma è, soprattutto, un tripudio di esperienza vissuta. All'ultimo Festival di Cannes, la giuria fighetta di Nanni Moretti ha preferito il pietismo senile di Haneke. Eppure, il regista francese è uno dei pochi autori che hanno dimostrato nel nuovo millennio di saper coniugare l'espediente della finzione, dell'intrattenimento, con quello della rappresentazione della realtà (gli altri sono Paul Thomas Anderson, Darren Aronofsky, Park Chan-Wook, altri straordinari "controversi"). La "sua" macchina da presa è una donna che hai sempre amato ma che sai di non poter avere. A sbattere la fronte contro il muro, gli altri riprenderebbero il sangue sulla fronte, lui riprende quello sul muro. Bello e impossibile.

Emiliano Dal Toso




venerdì 5 ottobre 2012

Billy Wilder Gallery: La Fiamma Del Peccato

Qui parliamo di due fottuti geni. Billy Wilder, il regista celebrato nello speciale che Emiliano ha scelto per questo mese, e Raymond Chandler, semplicemente lo scrittore divenuto padre del Noir mondiale, con buona pace dei francesi. Wilder e Chandler hanno scritto insieme la sceneggiatura de "La fiamma del peccato" (1944). È piuttosto evidente che l'impronta principale sulla pellicola sia di Ray. Chi ha letto i suoi libri può ritrovare nelle battute del film la stessa ironia alcalinica, corrosiva. C'è il marcio che abbraccia le vite degli uomini. Però non solo. Un intempestivo senso morale emerge alla fine, quando è troppo tardi, talmente tardi che l'unica cosa che resta da fare è morire. Los Angeles 1938, che già solo questo basterebbe. Un assicuratore, Neff, stanco del suo lavoro, si fa convincere da una bella e ricca signora, mrs. Dietrichson, ad uccidere il consorte di lei, inscenando un'infortunio in circostanze inconsuete, in modo da riscuotere l'indennità doppia prevista in quei casi (il titolo originale è "Double indemnity"). L'assicuratore, che nel frattempo si zompetta mrs Dietrichson, assicura il cornuto, poi organizza e svolge l'omicidio a dovere. Sa il fatto suo perchè con quelle cose ci lavora. Frega anche l'investigatore privato Keyes, suo amico, che viene pagato dalla società di assicurazioni per indagare sui casi di indennizzo sospetti. Però poi non regge. Perchè l'azzardo di quella morte così assurda, quasi improbabile, perlomeno strana? Così tutto puzza di più sotto al naso dei segugi. Neff ha voluto il doppio, non avrà nulla. Si infila di notte nell'ufficio deserto del detective e racconta tutto al registratore. Se la cosa non lo redime, perlomeno gli dà sollievo. Un sollievo limitato, perchè nella clavicola c'ha un proiettile ammaccato, e perchè ha perso sangue, parecchio. Il film inizia così, quasi dalla fine. È qui che dalla porta laterale entra Wilder e mescola alle idee di Chandler le proprie. Tutta la torbida vicenda è raccontata da Neff in prima persona, il che se da un lato toglie qualcosa alla suspence, dall'altro permette al regista di lasciar andare Ray a briglia sciolta coi testi della voce fuori campo, di sfruttarlo appieno, di fargli plasmare una sorta di videolibro. Chandler plasma, Wilder resta intelligentemente lì a fianco, un po' in disparte, con una regia dimessa, perfetta per il genere. E gira un capolavoro del cinema noir. Occhio, fare un film di genere non significa limitarsi. Il noir è profondo come una coltellata, ma bisogna saper guardare nella ferita. Non mi piacciono quelli che considerano i film (o i libri) di genere delle opere minori. Un noir, per esempio, può dire di più sull'animo umano, o sulla società, di cinquemila preti e tremila antropologi. Ripeto, bisogna saperlo guardare. E poi, cazzo, in questo film ci sono certe gemme obiettivamente fantastiche, anche se prese da sole, senza concetti, senza sottotesti. Ness ci ha appena provato in maniera abbastanza sbrigativa con la signora Dietrichson, durante il loro primo incontro, e lei sbotta. D: «C'è un limite di velocità, signor Neff, 45 miglia.» N: «A quanto andavo, brigadiere?» D: «Attorno ai 90.» N: «Supponiamo che mi fermiate per arrestarmi». D: «Supponiamo che vi lasci andare... per questa volta». N: «Supponiamo che sia recidivo». D: «Supponiamo che io vi picchi sulle mani». N: «Supponiamo che io mi metta a piangere sulla vostra spalla». D: «E supponiamo che la spalla sia quella di mio marito». Figata.

Ivan Brentari

mercoledì 3 ottobre 2012

Billy Wilder Gallery: L'Appartamento

Fa' le carte e poi ridimmelo.


Billy Wilder non ha mai considerato 'L'appartamento' una commedia ma, a mio modesto parere, 'L'appartamento' è la commedia per eccellenza: perfetto equilibrio tra critica sociale e storia d'amore, magnifica descrizione della contemporaneità, straordinari chiaroscuri scavati sui visi dei protagonisti. Che cosa conta nel cinema? Che cosa cerchiamo? Intrattenimento, riflessione. Il giusto mix tra relax e stimolo intellettuale. Forse. Io, personalmente, mi considero un romantico, e il cinema è il miglior mezzo per saziare gli appettiti dei sognatori e di tutti coloro che amano il lato platonico dell'amore. Guardi 'L'appartamento' alla Mostra del Cinema di Venezia del 1960 e ti innamori di Fran Kubelik, il personaggio dell'"addetta agli ascensori" interpretato da una sublime Shirley MacLaine. Magari, lo riguardi 52 anni dopo su uno di quei canali via digitale, in una serata d'autunno, mangiando distrattamente una coscia di pollo sul divano, e ti rinnamorerai nuovamente di Fran Kubelik. Perchè il grande cinema (così come il vero amore) è destinato a durare per sempre, a non morire mai, ed i suoi protagonisti sono incarnati da quegli attori che hanno la capacità di dare vita a qualcosa che è istantaneo ed eterno allo stesso istante, particolare ed universale. Nel 2000, Kevin Spacey vinse l'Oscar per miglior attore protagonista per 'American Beauty' e il suo primo pensiero andò a Jack Lemmon, ringraziandolo per l'interpretazione indimenticabile di CC Baxter ne 'L'appartamento'. Qualche anno fa, Silvio Orlando ha dichiarato che non avrebbe mai deciso di tentare la carriera di attore se non avesse visto 'L'appartamento' e se Jack Lemmon non avesse incarnato tutto quello che avrebbe voluto essere, rappresentare, interpretare. Non esistono confini territoriali nel grande cinema. 'L'appartamento' è culturalmente americano, irrimediabilmente americano, nei ritmi, nelle caratterizzazioni, nei contenuti (per detta dello stesso Wilder, è un film sulla "tipica solitudine americana prefabbricata"); detto ciò, racconta una storia che potrebbe essere ambientata ovunque, a Berlino, a Londra, ad Amburgo, a Tokyo, anche a Gallarate volendo (citata genialmente nell'incipit dalla voce fuori campo); ha una sensibilità, un modo di descrivere i rapporti umani ed i sentimenti che è globale. Credo che il cinema non debba essere considerato semplicemente un'arte. E' di più: un mezzo in grado di unire, di influenzare, di creare una cultura condivisa (come ha spiegato ottimamente Massimiliano Gavinelli). Insieme alla musica, è l'unico strumento artistico che può essere compreso e vissuto da chiunque, senza distinzioni di razza, religione ed estrazione sociale. Questo miracolo il cinema (e il cinema americano, in particolare) lo ha compiuto, almeno fino agli anni 70. Billy Wilder ne è stato uno dei principali fautori. Per Jack Lemmon e Shirley MacLaine, invece, è stato sufficiente recuperare una partita di carte non conclusa per fare in modo che non venga mai posta la parola fine a un Sogno.

Emiliano Dal Toso




martedì 2 ottobre 2012

The Five-Year Engagement (voto 6)

Jason Segel è, dopo Seth Rogen, indubbiamente il miglior attore brillante americano emergente. Conosciuto in Italia per la serie televisiva 'How I met your mother', l'ho maggiormente apprezzato per i film girati da Nicholas Stoller e prodotti da Judd Apatow, il divertente 'Forgetting Sarah Marshall' e l'ottimo 'I love you, Man'. 'The Five-Year Engagement' è il terzo episodio di questo triangolo (la sceneggiatura è dello stesso Segel, mentre la regia e la produzione sono sempre, rispettivamente, di Stoller e di Apatow). L'impressione che ho degli ultimissimi film provenienti dall'universo Apatow è che si sia assunta una notevole maturità narrativa ma si sia un po' perso il genio anarchico. 'Le amiche della sposa' si è rivelato un grandissimo successo ma ha cominciato a darmi questa sensazione, che viene ora confermata da questo 'The Five-Year Engagement'. Segel ed Emily Blunt (gradevole) sono una giovane coppia di San Francisco che decide di rimandare il matrimonio quando lei ha l'opportunità di fare carriera in una prestigiosa università nel Minnesota. Ovvero, dall'altra parte dell'America. Lui la ama al punto da rinunciare alla sua di carriera (da chef) e la segue ma, al contempo, si trova costretto a racimolare lavoretti da fast-food. Lei, invece, entra nelle grazie di un prestigioso professore (il sempre grande Rhys Ifans) e tentenna addirittura un tradimento. Lui è infelice e frustrato. Si lasciano. Lui torna a San Francisco. Se il film finisse in questo modo, si tratterebbe di una deliziosa commedia dolceamara, ottimamente scritta, capace di inquadrare perfettamente le dinamiche di una coppia di innamorati alle prese con l'imprevedibilità e la precarietà dei tempi. Purtroppo, il finale tradisce le aspettative e si mantiene lontano dai toni malinconici, tristi ma reali. Così, 'The Five-Year Engagement' rimane a metà strada tra le scorrettezze, la comicità stralunata dei lavori precedenti e la commedia sentimentale adulta e rappresentativa della Vita. Una via di mezzo tra i fratelli Farrelly e Woody Allen, senza però accontentare completamente chi cerca la risata liberatoria e chi, invece, la riflessione intellettuale e profonda. A tal proposito, mi è inevitabile un confronto con un magnifico film che ho avuto la fortuna di vedere un mese e mezzo fa, 'Take This Waltz' di Sarah Polley (http://ilbelloilbruttoeilcattivo.blogspot.it/2012/08/anteprima-take-this-waltz-voto-9.html). Se in quest'ultimo il matrimonio è descritto come un punto di partenza, un'incognita ancora tutta da costruire, nel film di Stoller il matrimonio è un punto d'arrivo, l'incoronamento di un percorso difficile che però certifica la robustezza di un rapporto. Questa filosofia un po' cattolica è sempre stata presente nei film targati Apatow, a dir la verità, ma veniva compensata dal gusto anticonformista delle battute e delle situazioni, sempre oltre la barriera borghese del politicamente corretto. Nel momento in cui si decide di crescere e di sacrificare la parte più "maleducata", allora ci si dovrebbe anche assumere la responsabilità di essere completamente portatori di un'idea di cinema come specchio dell'esistenza. 'The Five-Year Engagement' lo è soltanto a metà.

Emiliano Dal Toso




lunedì 1 ottobre 2012

Retrospective: A qualcuno piace Billy

Questo mese parleremo di Billy Wilder.
Ci siamo presi il permesso di chiedere a un wilderiano doc come Massimiliano Gavinelli (filmmaker, appassionato esperto ed esperto appassionato della Settima Arte) di scrivere per noi. Affetto, cuore, competenza, passione. Grazie Ga'.



Approfitto di questo spazio concessomi dal mio amico Emiliano per elogiare un regista a me molto caro; e voglio partire in modo ardito, senza ulteriori esitazioni: l’influenza di Billy Wilder non si limita al suo mestiere di regista, e nemmeno a quello di scrittore di grandi sceneggiature. Prima di tutto ciò, o meglio insieme a tutto ciò, Billy Wilder ha creato una cultura condivisa, contaminando non solo tutto il Cinema di lì a venire, ma anche quella che oggi è universalmente definita “cultura occidentale”. Esagero? Secondo me, no. Dopo le riforme del New Deal, destinate a risollevare l’economia degli Stati Uniti in seguito alla grande crisi del ’29, si sentiva il bisogno di risollevare l’umore dell’America e forgiare, inculcare nella mente delle persone lo spirito del sogno americano che ha reso possibile l’esplosione degli Usa. In questo processo di aspirazione alla grandezza, Hollywood è stata non solo fondamentale, ma necessaria. Il cinema americano è considerato il “più bello del mondo” da allora, da quando questo connubio tra stile ed ottimismo è stato, non a caso, esportato anche fuori dagli Usa, dove l’umore sociale non era certo elevatissimo, dando vita ad una cultura transatlantica condivisa che sopravvive tutt’oggi. I più importanti esponenti di questa esplosione di ottimismo sociale sono stati gli americanissimi John Ford e Howard Hawks, ma forse più di loro è stato un austriaco a “far sognare” gli americani, e il suo nome è appunto Samuel Wilder, passato alla storia come Billy Wilder: questi ha saputo calarsi nella cultura della rinascita americana inizialmente in punta di piedi, da sceneggiatore di commedie (anche se è già del 1939 la sua prima candidatura all’Oscar per lo script di 'Ninotchka', diretto dal suo maestro Ernst Lubitsch) ed in seguito come motore principale di questa stessa rinascita culturale. Il resto è storia: 29 lungometraggi, decine di sceneggiature (spesso scritte a più mani con alcuni tra i più grandi autori di sceneggiature di sempre come “Izzy” Diamond e Charles Brackett), 21 nominations agli Oscar (con 6 statuette vinte), per non parlare dei numerosi premi e riconoscimenti assegnatigli nelle più grandi manifestazioni cinematografiche del mondo (Bafta, Cannes, Venezia, David di Donatello, Golden Globe). Questi però sono soltanto numeri; ciò che ci fa amare Wilder e che lo terrà sempre nel cuore di tutti gli appassionati di Cinema sono le sue facce, i suoi lati. Billy ha due facce: una è la faccia delle sue commedie, l’altra è quella più oscura, imprescindibilmente tinta di noir. Spesso però questa faccia è una sola, formata da questi due profili differenti e distanti che molto spesso Billy ha saputo condensare in una sola, splendida espressione cinica. Per essere più specifici, Billy ha un lato brillante che tanto bene ha rinfrescato gli animi del pubblico e dei produttori: pellicole rassicuranti, maliziose ma educative, in cui il male serve solo a godere meglio del bene, i personaggi indossano una “maschera” (in senso lato) a fin di bene, ma soprattutto ci fanno ridere, e ridere tanto. Alcuni titoli indicativi sono 'A qualcuno piace caldo', 'Baciami stupido', 'Uno, Due, Tre', 'Non per soldi..ma per denaro'. Un altro lato è quello delle pellicole ciniche, in bilico tra malignità e farsa, nelle quali Billy si diverte come un bambino a giocare con l’ago della bilancia che pesa il sorriso e la smorfia maligna, il sollievo e l’ambiguità. Eccoci quindi a 'Testimone d’accusa', 'Stalag 17' e 'L’asso nella manica', per fare qualche esempio. Infine, pellicole di maggior spessore emozionale, siano esse noir “tradizionali” (Billy non le avrebbe chiamate certamente così, perché la tradizione del noir è proprio quella che lui stesso stava costruendo, parallelamente ad altri registi come Hawks, Lang e scrittori come Chandler), commedie sentimentali tinte di dolente romanticismo, o mélo-noir: rispettivamente 'La fiamma del peccato', 'L’appartamento' e 'Viale del Tramonto'. E’ sufficiente scegliere tra queste facce, tra questi lati ammalianti. E non si rimarrà certamente delusi. E’ estremamente difficile trovare la stessa brillantezza, varietà, qualità nel cinema odierno, spesso troppo convulso e tristemente impersonale.
Sarà l’autore di questo blog a farvi respirare nello specifico la magia di alcuni dei capolavori di Wilder. Personalmente voglio concludere questo piccolo ed incompleto ritratto citando un breve passo di un libro che mi sento di consigliare a tutti coloro che sentono la voglia e la curiosità di entrare nell’universo di questo straordinario artista, scritto da un suo grande fan, il regista Cameron Crowe (non per caso uno dei pochi registi che siano riusciti a mantenere un equilibrio comico-intellettuale di indubbia brillantezza), dal titolo 'Conversazioni con Billy Wilder', una lunga intervista mai noiosa e piena di spunti interessanti sulla vita e le opere di Wilder.
L’opera di Billy Wilder è un prezioso scrigno di creature straordinariamente vive create da un mago che possedeva il mestiere del comico e l’occhio infallibile del grande ritrattista; gli aspetti migliori della vita, le cose tristi e quelle frivole, l’ironia e lo strazio hanno uguale peso nella sua opera. Così, anche a distanza di anni, le opere di Billy Wilder, meglio di quelle degli altri registi suoi contemporanei, continuano a rappresentare gli esseri umani per quello che veramente sono.
Grazie di cuore, grande Billy.

Massimiliano Marco Gavinelli