sabato 27 settembre 2014

I Magnifici Sette: Luglio - Settembre 2014

Apes Revolution - Il Pianeta Delle Scimmie - Matt Reeves: eccezionale blockbuster adulto, che pone quesiti per niente scontati come l'illusorietà di una tolleranza permanente tra razze diverse e la fragilità del concetto di pace e di uguaglianza. Superiore per intensità, cupezza e allegoria politica alle precedenti versioni di Schaffner e di Burton (e anche al prequel con James Franco), regala all'immaginario cinematografico una nuova icona assoluta, quella della scimmia Cesare, capopopolo saggio e diplomatico, coraggioso e rivoluzionario.

Mud - Jeff Nichols: Jeff Nichols si conferma il nuovo cantore dell'America di provincia, quella dei fuorilegge e degli sceriffi codardi, delle badlands e degli innamorati non corrisposti . Dopo l'ottimo Take Shelter, firma un indimenticabile omaggio alla letteratura di Twain e di McCarthy, raccontando l'amicizia tra un quattordicenne e lo scapestrato Mud, che vive nascosto su una barca in attesa di fuggire per sempre con la donna della sua vita. Illusioni e delusioni nel passaggio dall'adolescenza all'età adulta, osservando e partecipando al destino dei propri eroi, romantici e controversi.

Under The Skin - Jonathan Glazer: ambiziosa riflessione sul corpo altro, privo di empatia e di partecipazione, spogliata di intellettualismi, imperfetta ma debordante di stimolazione visiva e sensoriale. Glazer si disinteressa completamente della solidità dell'intreccio narrativo e si abbandona al graduale processo di umanizzazione di un alieno attraverso la forza immaginifica di sequenze potenti, difficili da dimenticare. Perfetta e meravigliosa Scarlett Johannsson, strumento di predazione prima, e poi vittima della sua diversità e della sua attrazione.

Il Fuoco Della Vendetta - Scott Cooper: thriller proletario, ambientato tra i monti Appalachi e le acciaierie della Pennsylvania, nel quale l'alternativa a lavorare in fabbrica è quella di farsi ammazzare e venire seppelliti in mezzo al bosco. Avvincente e un po' retorico, si avvale di un quartetto d'archi in grande spolvero: Casey Affleck, reduce di guerra incapace di rigare dritto; Sam Shepard, nuovo volto tutelare degli zii d'America; Woody Harrelson, cattivo psicopatico senza freni; Christian Bale, nel "suo" ruolo, quello dell'operaio pervaso dai sensi di colpa e in cerca di redenzione.

Frances Ha - Noah Baumbach: ritratto femminile indimenticabile di Noah Baumbach, quello di una romantica ventisettenne aspirante ballerina, all'alba della maturità individuale, abbandonata da tutte le certezze, dalla migliore amica e decisamente "infidanzabile". Un piccolo grande film di un autore sensibile e anticonvenzionale, leggero e agrodolce, che deve molto alla grazia della bravissima Greta Gerwig, attrice dotata di autoironia e di una invidiabile vis comica, che corre spensierata verso le incognite della vita sulle note di Modern Love di David Bowie.

Anime Nere - Francesco Munzi: sconvolgente storia di "malavita", tesa, tetra, durissima. Si parla di 'ndrangheta, si parla di Calabria, ma si parla soprattutto dell'inevitabilità della violenza e del Male. Munzi riflette sull'impossibilità di fuggire dalle proprie radici, dimostrando una tensione narrativa lucida e rigorosa, che è davvero rara per il cinema italiano. Non ci sono scorciatoie, non ci sono moralismi né consolazioni: lo spettatore può finalmente godere soltanto di un Noir, crudo e spietato, nient'altro. Avrebbe meritato senz'altro un premio importante all'ultima Mostra di Venezia.

Delivery Man - Ken Scott: io voglio davvero tanto bene a Vince Vaughn, un attore in grado di rendermi felice per il solo fatto di esserci, malgrado la sua carriera non sia certamente costellata di grandi capolavori. Anche in questo remake millimetrico del simpatico 'Starbuck', la presenza di Vince mi ha messo di buon umore. Nessuno meglio di lui può interpretare un quarantenne immaturo, che vent'anni prima è stato un donatore biologico per una banca del seme, ed ora si ritrova centinaia di figli sparsi per l'America che vogliono conoscere la sua identità. Nessuno meglio di lui.




venerdì 26 settembre 2014

Italy in a Day

Una volta c’era Rino Gaetano ed era lui a cantare con poesia ed ironia dell’energia che instancabilmente continua ad alimentare questa variopinta e dissestata vita italiana. 'Italy in a Day' potrebbe rappresentare un tacito tributo alla canzone 'Ma il cielo è sempre più blu'. Nello specifico, si tratta del cielo del  26 ottobre 2013. In questo giorno 44 mila e 197 italiani si sono svegliati, hanno preso una telecamera in mano ed hanno condiviso con il mondo la loro piccola grande giornata. Che cos'è successo in Italia il 26 ottobre 2013? Niente di più e niente di meno di quello che succede tutti i giorni, si compie il miracolo della vita. Anzi, tanti piccoli miracoli della vita che ne vanno a formare uno più grande. 'Italy in a Day' ci porta in alto, in questo cielo sempre più blu tutto italiano, e poi ci cala in mezzo agli uomini e alle donne di questo Paese, al punto da poter cogliere perfettamente la prospettiva dell’altro, per renderci conto che non differisce poi tanto dalla nostra. Niente di più e niente di meno di quello che succede tutti i giorni: i bambini sono nati, gli innamorati si sono baciati, chi ha salvato una vita, chi si è buttato dal paracadute, chi ha abbracciato suo nonno, chi si è sporcato con il grana grattugiato, qualcuno è arrivato in classe correndo, giusto in tempo, al suono della campanella; c’è chi è rimasto da solo, chi è rimasto col gatto, chi è rimasto a casa a curare il bambino ammalato, chi a farlo giocare, chi lo porta fuori in bicicletta, la nonna ha preparato le lasagne, il nipote lontano con il frigo vuoto si è accontentato di un uovo al tegamino. Un luogo comune sull’italianità al 100%, insomma, ma nel senso più buono che possa esserci di questo termine. 

L’Italia diventa, in effetti, un luogo comune. Ci si riconosce subito, simili, con paure comuni, speranze comuni. Chi è abituato a cogliere la bellezza della vita, nascosta dietro le piccole e grandi cose che fanno parte della nostra quotidianità, non si stupirà dell'emozione. E se un domani, chissà come e chissà perché, tale quotidianità dovesse sparire, rimarranno testimonianze inestimabili come 'Italy in a Day' di Salvatores e 'Ma il cielo è sempre più blu' di Rino Gaetano per aiutare i nostri posteri a respirare qualche boccata di vita made in Italy.


Linda Grazia Pola


giovedì 25 settembre 2014

Venezia 2014 - Seconda Parte: Le Dernier Coup De Marteau, La Rançon De La Gloire, Good Kill, Birdman

Il cinema francese contemporaneo si conferma di un livello medio altissimo. Basta prendere in considerazione due delle pellicole che sono state presentate in Concorso all'ultima Mostra del Cinema di Venezia. La prima è 'Le Dernier Coup De Marteau' (voto 9) di Alix Delaporte, che ha consentito al giovane Romain Paul di vincere il Premio Marcello Mastroianni come miglior attore emergente. Alla sua seconda prova dietro la macchina da presa, la regista racconta un frangente della vita del quattordicenne Victor, che vive in una roulotte con la madre malata di cancro ed è in procinto di trasferirsi a casa dei nonni, per quanto sia concreta la possibilità di essere prelevato dalle giovanili di calcio del Montpellier. In questo cruciale e drammatico passaggio della sua crescita, avrà modo di venire a conoscenza del padre, un direttore d'orchestra che gli darà la possibilità di avvicinarsi alla musica classica. "L'ultimo colpo di martello" fa riferimento a una scelta compositiva di Mahler nella sua sesta sinfonia e si rivela meravigliosamente commovente l'aggancio narrativo che lega le dolorose vicende del protagonista al titolo del film. Per quanto potesse rivelarsi facile la tentazione di cadere nel ricatto emotivo, la Delaporte compie il miracolo di indovinare un tono leggero, affettuoso, che si rivela struggente soltanto grazie ai piccoli gesti, ad un attenzione particolare ai singoli episodi, alle sfumature che caratterizzano l'universo di Victor. Avvicinandosi al cinema dei Dardenne, e forse superandolo a livello narrativo, il risultato è un groppo in gola delicato ma autentico. Molto sorprendente l'opera di Xavier Beauvois 'La Rançon De La Gloire' (voto 8), che arriva nella filmografia del regista dopo il drammatico e impegnativo 'Uomini di Dio'. Beauvois adotta un tono spesso scanzonato, che omaggia dichiaratamente Charlie Chaplin all'interno della trama e che lo cita nelle singole sequenze. Partendo da un fatto di cronaca del 1977, pone una lente di ingrandimento su una umanità di perdenti, di esclusi, disposta a tutto pur di raggiungere un pezzetto di dignità sociale e di autosufficienza economica. Trascinato dall'interpretazione del mattatore Benoit Poelvoorde, è un altro esempio di cinema in grado di cogliere un equilibrio eccezionale tra dramma e ironia, tra durezza di racconto e lievità di sguardo. Molto più netta la presa di posizione stilistica di Andrew Niccol nel contestatissimo 'Good Kill' (voto 8). Eccoci, finalmente, di fronte al classico film che innervosisce il lettore benpensante medio di 'Repubblica'. Si potrà discutere l'ideologia di base, ma si tratta comunque di un thriller bellico tesissimo, palpitante, confezionato magnificamente e recitato da un Ethan Hawke in stato di grazia, che gradualmente trascina lo spettatore nella spirale infernale di un pilota di droni in piena crisi di coscienza. Personalmente, non ho mai amato il regista neozelandese, eppure questo 'Good Kill' mi è sembrato l'esempio più compiuto della sua poetica sull'inevitabilità dell'evoluzione tecnologica e sulle sue contraddizioni. Chiudiamo, infine, con l'unica grande delusione, 'Birdman' (voto 5) di Alejandro Gonzalez Inarritu. Niente da fare, anche stavolta l'impressione è che il regista messicano sia talmente innamorato del suo talento registico da non dare respiro neanche a qualche spiraglio narrativo interessante. Il desiderio di compiere un componimento cinematografico jazzistico, composto da lunghissimi ed estenuanti piani sequenza, si rivela soltanto l'ennesima dimostrazione di un autocompiacimento fine a se stesso, che utilizza soltanto come pretesto il tema della crisi d'attore senza svilupparlo, e cercando esclusivamente la scena o la battuta ad effetto. Resto sempre più convinto che il magnifico esordio 'Amores Perros' rimarrà un episodio isolato nella carriera di uno degli autori più sopravvalutati del nuovo millennio.


Emiliano Dal Toso


venerdì 19 settembre 2014

Venezia 2014 - Prima Parte: Ritorno a L'Avana, Jackie And Ryan, Sivas, Anime Nere

Mai come quest'anno mi sembra che la proposta cinematografica veneziana, della quale la rassegna milanese 'Le vie del cinema' presenta soltanto una parte, si sia concentrata soprattutto su opere che ambiscano ad essere la fotografia, il racconto di un Paese o di un luogo, ancor prima che una semplice narrazione di eventi. A cominciare dal ritorno di Laurent Cantet dietro la macchina da presa, cineasta acclamato per la Palma d'Oro 'La Classe', che nel suo 'Ritorno a L'Avana' (voto 8) riunisce cinque amici di vecchia data su una terrazza della capitale cubana, e attraverso i loro dialoghi fa emergere il ritratto di un popolo costretto a fare i conti con l'amarezza e con la disillusione, dovuti alle speranze infrante di una generazione che ha sognato di poter costruire un mondo migliore. Il regista francese evita di delineare un gruppo di cinquantenni che si limita a rimembrare il passato e ad illudersi che niente sia cambiato. Anzi, i rancori e le scelte dolorose dei protagonisti e, soprattutto, la consapevolezza delle loro sconfitte sono la cartina tornasole attraverso la quale lo spettatore può assistere alla radiografia degli umori di Cuba, a quello che poteva essere ma che non è stato. Affrontare una vicenda privata per porre una lente di ingrandimento su una realtà sociale è anche il desiderio della statunitense Ani Canaan Mann, che in 'Jackie And Ryan' (voto 5) affronta l'affidamento dei minori. Se la descrizione di un Paese nel quale nemmeno gli affetti possono fare a meno di avere un valore economico appare lampante, in questo caso non convince lo stile troppo invaso da ruffianerie folk e da un'atmosfera indie che si fa sedurre troppo facilmente dalle soluzioni più melense e concilianti. La Mann non trova mai il guizzo narrativo per coinvolgere e non viene aiutata dalle interpretazioni dei ben poco carismatici Ben Barnes e Katherine Heigl, quest'ultima decisamente preferibile nella versione brillante dei film di Judd Apatow. Non sono riuscito a innamorarmi neppure del Premio della Giuria 'Sivas' (voto 5) del debuttante Kaan Mujdeci, a differenza del Presidente Alexandre Desplat. Il giovane regista turco ambienta la storia del legame che si sviluppa tra un ragazzino di undici anni ed un cane da combattimento in un villaggio rurale dell'Anatolia, evidenziando soprattutto la brutalità delle battaglie tra Kanglar, la magnifica razza canina che viene vergognosamente trasformata in uno strumento di guerra. Se non fosse per la magistrale interpretazione dello stesso meraviglioso cane che porta il nome del film (di gran lunga migliore degli attori impiegati), 'Sivas' risulterebbe gravemente insufficiente, sia per le insicure riprese con la camera a mano pseudo-autoriali, sia per alcuni clamorosi buchi di sceneggiatura. Piuttosto violente le scene dei combattimenti, che mi fanno sconsigliare la visione non solo ai cinefili ma anche ai cinofili. Di ben altra fattura, e suona strano dirlo, l'italiano 'Anime Nere' (voto 9) di Francesco Munzi, un indimenticabile e sconvolgente racconto di "malavita", teso, tetro, durissimo. Si parla di 'ndrangheta, si parla di Calabria, ma si parla soprattutto dell'inevitabilità della violenza e del Male. Munzi non è interessato all'opera di denuncia e nemmeno al documento sociologico, quanto piuttosto a riflettere sull'impossibilità di fuggire dalle proprie radici, dimostrando un'abilità narrativa e una tensione lucida e rigorosa, che sono merce rara per il cinema nostrano. Non ci sono scorciatoie, non ci sono moralismi nè consolazioni: lo spettatore può godere finalmente soltanto di un Noir, crudo e spietato, nient'altro.

Emiliano Dal Toso




lunedì 1 settembre 2014

Genealogia Di Una Passione

La mia passione per Fernando Torres nasce dall'innamoramento per una ragazza spagnola, Macarena, che mi chiese se sapevo chi fosse. Su di lei mi aveva anticipato un mio amico, Federico, che avevo conosciuto in Inghilterra a Ramsgate, uno di quei brutti paesini sul mare dove vanno gli adolescenti in estate per imparare l'inglese. Federico doveva tornare a Milano una settimana prima di me e temeva l'arrivo di un gruppo di ragazzi di Valenza, dall'elevatissimo tasso tamarro, ma in fondo bonaccioni. <<Questi valenzani fanno un po' troppo gli splendidi. Mi raccomando, Emi, curamela.>> Federico era del tutto ignaro del fatto che i sentimenti che provavo per la mora Macarena erano gli stessi che provava lui. In realtà, Macarena non filava di striscio la compagnia di Valenza e, una volta partito Federico, mi si appiccicò. Passai una settimana indimenticabile e terribile, di vero struggimento, in tensione costante tra il desiderio di baciarla e lo spettro del tradimento nei confronti dell'amico. Maca era davvero eccezionale, bellissima, simpatica, con una marea di interessi, ed era tifosissima dell'Atletico Madrid. Una sera le chiesi se era innamorata di Federico e lei mi rispose che l'unico ragazzo che amava si chiamava Fernando Torres. Io rimasi piuttosto sorpreso, era la prima volta che, nel dialogo con una ragazza, non fossi io ad introdurre la questione "calcio". <<Do you know Fernando Torres?>> Le dissi che Torres lo conoscevo perchè il Milan stava per acquistarlo due anni prima ma poi aveva preferito comprare Kakà. A dire il vero, non lo avevo mai visto giocare, il Torres, perchè all'epoca l'Atletico era una squadra che navigava a malapena a metà classifica e guardare la Liga spagnola mi annoiava terribilmente. Alla fine, con Macarena non ci fu nient'altro che un fugace bacio d'addio. Mi congedai da lei con un melodrammatico 'I won't forget you', non ti dimenticherò. Fece una smorfia strana. Il giorno dopo, durante il viaggio di ritorno, mi tormentai, perchè mi resi conto del fatto che probabilmente aveva capito 'I want forget you', ovvero voglio dimenticarti.

Una volta tornato a Milano, nell'illusione di tenere vivo una sorta di contatto virtuale con Macarena, mi buttai a capofitto sulla Liga spagnola e sull'Atletico Madrid. Cominciai a guardare quasi tutte le partite dei colchoneros. Ovviamente, i miei occhi erano puntati soprattutto su Fernando Torres, l'unica persona al mondo in grado di conquistare il cuore di Maca. Correva la stagione calcistica 2005-2006 e l'Atletico Madrid era Fernando Torres detto "El Nino" di Fuenlabrada, comune della comunità autonoma madrilena, anni ventuno, perdutamente innamorato della maglia e dei suoi tifosi, e indubbiamente ricambiato. Quella stagione consacrò definitivamente Torres tra i top player mondiali, ed "El Nino" fu l'uomo di punta della spedizione spagnola ai Mondiali in Germania, eliminata però agli ottavi dalla Francia finalista. L'anno successivo, Torres si confermò e venne acclamato dalla stampa come uno dei centravanti spagnoli più forti di sempre. Nel 2007, il Liverpool acquista Torres dall'Atletico per 26 milioni e mezzo di sterline, decisamente ben spesi. "El Nino" fa letteralmente impazzire di gioia i tifosi della Kop, segna sempre. E fa quasi sempre gol bellissimi. Rimane Red per tre anni e mezzo, durante i quali colleziona in Premier League un centinaio di presenze e mette a segno la bellezza di 65 reti. Paradossalmente, Torres nel Liverpool non vince niente. E' il fuoriclasse di una squadra di onesti, buoni giocatori, mai eccelsi. Nel periodo migliore della sua carriera, tra i 23 e i 26 anni, nel suo palmares c'è soltanto l'Europeo vinto con la Spagna, deciso tra l'altro da un suo gol nella finale contro la Germania. Dopo una serie di infortuni nella prima parte del 2010, che gli impediscono di essere protagonista nel Mondiale vinto dalla Spagna in Sudafrica, parte col botto nella stagione successiva, segnando 11 volte in meno di tre mesi. Nel gennaio del 2011, il Chelsea di Roman Abramovich lo acquista per il corrispettivo di 58 milioni e mezzo di euro, il trasferimento più costoso nella storia del calcio inglese. E smette di segnare. Nei sei mesi da gennaio a giugno, va in rete una volta sola, contro il West Ham, in 18 partite. Sembrerebbe che il blocco sia dovuto solo allo shock per aver abbandonato la maglia del Liverpool ed i tifosi che lo adoravano. E invece no. Dal 2011 al 2014, lo score di Torres è di 20 gol in 110 partite di Premier League. Una miseria. La stampa che lo acclamava si fionda contro di lui, lui entra in un circolo vizioso, più cerca il gol e più sbaglia clamorosamente. Non è soltanto la "pochezza" di reti il vero problema, ma il fatto che sembra di vedere il fratello scarso del Torres di Liverpool: lento, impreciso, svogliato. Il termine che viene maggiormente utilizzato è quello di "paracarro". Il destino è beffardo e nel Chelsea il palmares si arricchisce: una Champions League, un Europa League e una Coppa D'Inghilterra. La vera stranezza, però, è che 2 gol siano decisivi: uno nella semifinale di ritorno di Champions contro il Barcellona, l'altro nella finale di Europa League contro il Benfica. Nel 2012, inoltre, si riconferma campione d'Europa con la Spagna, in una Nazionale che ha come uomini chiave Xavi, Iniesta, Fabregas, Pedro, Xabi Alonso. Lui serve più che altro a raggiungere il numero minimo di ventitré calciatori necessari da convocare per una manifestazione come l'Europeo.

Per il sottoscritto, Fernando Torres è stato il centravanti più forte e completo degli Anni Duemila. Potente, veloce, tecnico. Un numero 9 fisico, che sa essere soffice come un numero 10, quand'è necessario. Non è un caso che il giocatore che lo abbia fatto avvicinare al calcio e ad innamorarsi del mestiere del centravanti si chiamasse Marco Van Basten. Quando era all'Atletico, dichiarò che non avrebbe mai abbandonato i Colchoneros per trasferirsi in un'altra squadra spagnola e che le uniche due squadre europee per le quali avrebbe potuto sacrificare il suo amore per la maglia sarebbero state il Liverpool e il Milan. La prima per la Kop: lascio l'Atletico soltanto per la tifoseria più calda, appassionata, commovente che possa esistere. La seconda per Van Basten, appunto: lascio l'Atletico solo per il club del campione che avrei voluto essere.

Eppure, non sono puramente calcistiche le ragioni per cui Fernando Torres non è un calciatore come gli altri. Si può cominciare dal suo soprannome, "El Nino", il bambino, all'apparenza non troppo originale, dovuto al fatto di essersi affacciato dall'Atletico Madrid nel calcio spagnolo da giovanissimo, a diciassette anni. E malgrado l'avanzare dell'età, Fernando Torres è rimasto e rimarrà sempre "El Nino". Per i tratti somatici gentili, innanzitutto, che lo fanno sembrare un adolescente anche a 30 anni. Il suo volto non sembra quello di un calciatore, ma piuttosto quello di un cantante di una boy-band americana, oppure quello di un protagonista belloccio di un college movie della Disney. Per il fatto che i feticci della sua adolescenza se li sia voluti tatuare sulle braccia: sul sinistro, il suo nome in tengwar, la lingua parlata dagli Elfi ne 'Il Signore Degli Anelli', il libro del cuore della sua infanzia; sul destro, la data del suo primo bacio, con la sua prima fidanzata Olalla, la donna della sua vita, diventata poi sua moglie e madre dei suoi bambini.

Durante questi anni, ho seguito il calcio e ho sempre tifato per Fernando Torres. Conversando con gli amici, mi si illuminano gli occhi e mi sorge un sorriso spontaneo, inevitabile, quando parliamo della sua carriera, delle sue prodezze e della sua caduta. E' passato nella Storia degli orrori del calcio un suo errore con il Chelsea a porta vuota, dopo aver superato il portiere, con il pallone finito a un paio di metri di distanza dallo specchio. Riguardandolo, mi rendo conto che davvero chiunque avrebbe calciato in rete, anche i miei nonni, anche il compagno di classe delle elementari più scarso e brocco che si possa trovare. Mi piace pensare che sia stato l'errore romantico di un ribelle buono, di un calciatore che è stato meraviglioso e non ha vinto niente, o quasi, e che, invece, ha cominciato a vincere tutto quando, strapagato, è stato il peggiore in campo.

Durante questi anni, ho avuto modo di dimenticare in fretta la vicenda di Macarena e Federico e di innamorarmi di una ragazza almeno un altro paio di volte per poi dimenticarmene nuovamente. La mia passione per "El Nino" è sempre rimasta intatta, sullo sfondo, sia quando dopo aver segnato correva verso la Kop a braccia aperte e si buttava sull'erba, sia quando veniva fischiato a Stamford Bridge dopo gli errori a porta vuota. Ora, a 30 anni, Fernando Torres approda al Milan, sperando di chiudere il periodo più buio della sua carriera e di tornare lo strepitoso centravanti di Madrid e di Liverpool. Cercherò di evitare la banalità secondo cui il Milan in crisi potrebbe essere il luogo ideale per rilanciarsi, senza illudersi ovviamente che possa tornare quello di un tempo. Voglio illudermi. Se dovesse essere così, significherebbe che saremmo davvero di fronte alla trama di un libro fantasy, o alla sceneggiatura di un film della Disney, quelli nei quali niente è impossibile ed i buoni vincono perchè loro sono i romantici, perchè loro sono gli eroi. Se non dovesse essere così, per quanto mi riguarda, saremmo comunque di fronte a un lieto fine.

Emiliano Dal Toso