lunedì 28 settembre 2015

Il Pagellino: Concorso Venezia 72

Sangue del mio sangue - Marco Bellocchio 9 (Premio FIPRESCI)
Perché è il Bellocchio più sincero e personale, e anche il più divertente e onirico.

A Bigger Splash - Luca Guadagnino 9
Per lo sfregio punk e iconoclasta, e per i riferimenti colti ed eleganti nascosti dietro ai riff dei Rolling Stones.

Anomalisa - Charlie Kaufman, Duke Johnson 8 (Gran Premio della Giuria)
Per Girls Just Wanna Have Fun e per il genio profondo e finalmente autogestito di Charlie Kaufman.

Remember - Atom Egoyan 8 
Per la vendetta perversa all'interno di una narrazione coinvolgente e popolare, e per il volto di Christopher Plummer.

Abluka (Frenzy) - Amin Elper 7 (Premio della Giuria)
Per la riflessione un po' sconclusionata su Stato e individuo, come in una versione turca dei fratelli Coen.

Per amor vostro - Giuseppe M. Gaudino 7 (Coppa Volpi a Valeria Golino)
Per Valeria Golino.

Beasts of No Nation - Cary Fukunaga 7 (Premio Marcello Mastroianni ad Abraham Attah)
Perché è il film impeccabile ma senza cuore di un regista con un talento impressionante.

Francofonia - Aleksandr Sokurov 7 
Per ribadire l'importanza di un'identità europea, come nelle lezioni un po' noiose di un professore di Storia.

L'Attesa - Piero Messina 5
Perché l'eccesso di un virtuosismo poco funzionale al contenuto è un peccato da estirpare.

The Danish Girl - Tom Hooper 5
Perché nell'ultima mezz'ora naufraga in una melensaggine insostenibile, malgrado Alicia Vikander.

Desde Allà - Lorenzo Vigas 5 (Leone d'oro)
Perché è un dramma coraggioso, se fossimo stati al Festival del Cinema Africano, d'Asia e America Latina.

The Endless River - Oliver Hermanus 5
Per i tre atti ambiziosi ma in realtà troppo convenzionali e insipidi.

Marguerite - Xavier Giannoli 5
Perché Catherine Frot è incantevole in un filmetto programmaticamente aspro per signore.

11 Minutes - Jerzy Skolimowski 4
Perché è un irritante esercizio di stile.

Equals - Drake Doremus 4
Perché non è niente, se non uno young adult con pretese da grandi.

Heart of a Dog - Laurie Anderson 4
Perché "Laurie Anderson ha sbagliato Biennale" (cit.). Ma non solo.

L'Hermine - Christian Vincent 4 (Coppa Volpi a Fabrice Luchini e Premio per la sceneggiatura)
Perché è una regia televisiva, anonima, che comporta un film totalmente privo di interesse.

NON VISTI

Behemoth - Zhao Liang

El Clan - Pablo Trapero (Leone d'argento per la miglior regia)

Looking for Grace - Sue Brooks

Rabin, The Last Day - Amos Gitai


Emiliano Dal Toso












martedì 22 settembre 2015

Sicario

Sicario fa paura. Presentato lo scorso maggio in Concorso all'ultimo Festival di Cannes, prima della sua proiezione il film di Denis Villeneuve era considerato dai bookmakers tra i favoriti per la vittoria finale. Nella sua carriera, il regista canadese è riuscito a ottenere un notevole numero di estimatori, diventando uno degli autori del nuovo millennio più apprezzati dalla buona cinefilia: da La donna che canta fino a Enemy, passando per Prisoners, il suo cinema teso e palpitante è caratterizzato da un'attenzione particolare alle dinamiche psicologiche dei personaggi, sottilissime, rivelando una sensibilità inedita per il cinema di genere a cui si è abituati, dai toni solitamente meno sfumati e raffinati. Sicario rappresenta una parziale inversione di rotta: scompaiono completamente intellettualismi, citazioni colte e riflessioni esistenziali, per far posto a un cinema più duro e violento, diretto, radicale. Un poliziesco "classico", che potrebbe essere stretto parente dei film dell'ispettore Callaghan per quanto riguarda la raffigurazione di un mondo di squadre speciali composto da esercito militare, CIA e agenti della FBI, che non concede mezze misure, disposto a superare i limiti della legalità per raggiungere i propri obiettivi. A tal proposito, la protagonista Emily Blunt è l'unica donna in un mucchio selvaggio, dapprima confusa e spaesata, poi fragile e inerme, nonostante il suo desiderio di rispettare i protocolli, di appellarsi alle buone maniere. Ma "questo è un mondo di lupi" le ribadisce Benicio Del Toro, nei panni di un mercenario senza scrupoli, disposto a tutto pur di vendicarsi dell'uomo che gli ha sterminato la famiglia. Risulta, così, piuttosto palese la contrapposizione tra la brutalità dell'atteggiamento maschile, totalmente privo di scrupoli, e quello femminile, pavido e inevitabilmente schiacciato dai meccanismi di un'umanità animalesca e glaciale. E dev'essere stata proprio la totale mancanza di riabilitazione del personaggio della Blunt a spiazzare la benpensante compagine critica di Cannes: per la sua cupezza e drasticità, Sicario è il terzo tassello di un'operazione di riabilitazione del poliziesco nella sua dimensione più disperata e pessimista, ideale proseguimento di The Counselor di Ridley Scott e della seconda stagione di True Detective. Finalmente, ecco il cinema che ci meritiamo.

Emiliano Dal Toso



giovedì 17 settembre 2015

I Magnifici Sette: Luglio - Settembre 2015

Giovani si diventa - Noah Baumbach: dopo Frances Ha, Baumbach mette in contrasto due generazioni agli antipodi. Da una parte, il quarantenne che si serve del progresso tecnologico per paura di non essere al passo coi tempi; dall'altra, il venticinquenne che lo rifiuta, per ribadire la propria mondanità vintage, modaiola e pseudo-alternativa. Un'impietosa descrizione dell'universo hipster, viziato e figlio del benessere economico, abituato a costruire la forma prima del contenuto, schiavo delle pose e del trend estetico del momento.

Taxi Teheran - Jafar Panahi: accusato di propaganda contro il sistema e condannato a sei anni di prigione con il divieto di fare film e uscire dall'Iran per vent'anni, Panahi utilizza il cinema per abbattere le barriere della legge e delle imposizioni istituzionali, ribadendo la sua natura di arte libera e illimitata, impossibile da tenere a bada. Alternando momenti di comicità liberatoria e di tensione quotidiana, il regista si tramuta nel protagonista di una ribellione, componendo un inno alle opportunità.

Dove eravamo rimasti - Jonathan Demme: una Meryl Streep inarrivabile nei panni di una rockeuse di provincia, repubblicana, mamma confusa e inaffidabile, ma in grado di esprimere sul palco tutto l'amore che c'è. Demme si disinteressa di dare una soluzione ai rapporti interpersonali, che restano in sospeso e irrisolti, e si concentra soltanto sulla musica, capace di unire e ricompattare, di rendere materia emozioni, rimorsi e rimpianti. Dagi U2 a Bruce Springsteen, ci si commuove pensando alla devastante forza riconciliatrice del rock.

Sangue del mio sangue - Marco Bellocchio: uno dei film più personali e potenti del regista bobbiese, una summa delle sue magnifiche ossessioni. C'è tutto Bellocchio: famiglia, religione, sogno, vecchio borgo antico, con uno sguardo a metà tra l'incredulo e l'onirico. Enorme Roberto Herlitzka, emblema del "vampiro" dei giorni nostri, ma in decadenza; imperdibile il duetto in uno studio dentistico con il grande Toni Bertorelli, mentre il Paese non soltanto si rifiuta di apprendere dalla propria Storia ma, imperterrito, sorridendo peggiora, confuso e mostruoso.

Sicario - Denis Villeneuve: prosegue il processo di rivisitazione del poliziesco, in chiave nera, disperata, senza nessuna via d'uscita. Si pensi anche a The Counselor e alla seconda stagione di True Detective: questo è il mondo che ci meritiamo, ed è un mondo di lupi, dove chi si illude di rispettare i protocolli e la legge rimane inevitabilmente sconfitto. Potrebbe irritare moralisti e femministi, ma questo è il cinema scomodo di cui abbiamo bisogno: nella guerra tra il vendicativo Benicio Del Toro e la fragile Emily Blunt, vince il primo.

Ritorno alla vita - Wim Wenders: lascia spaesati, meravigliati, incantati questa sinfonica, dolorosa riflessione di Wenders su colpa ed espiazione. Un cinema ancora desideroso di sperimentare, ricercare e riflettere sulle potenzialità inesplorate della Settima Arte. Un 3D apparentemente innocuo, in realtà fondamentale per penetrare nell'anima persa di James Franco, scrittore in crisi d'ispirazione. Un'opera raffinatissima, nella quale la fotografia plumbea e innevata possiede la stessa importanza dell'intensità delle interpretazioni.

Un mondo fragile - César Augusto Acevedo: un ritratto intimo di una famiglia contadina, asciutto e rigoroso ma mai ricattatorio, privo di ruffianerie consolatorie. Duro e sincero nella descrizione delle condizioni di vita dei suoi protagonisti, però affettuoso ed emozionante quando indaga nelle dinamiche psicologiche tra esseri umani. Sotto la lente di ingrandimento di Acevedo, un'America latina lontana da tentazioni cartolinesche in un lavoro esteticamente perfetto, che getta una luce dolorosa su un mondo ai margini della sopravvivenza.



domenica 6 settembre 2015

Venezia 72 - #Day5: A Bigger Splash

Quello che porta A Bigger Splash di Luca Guadagnino su un livello di opera geniale e iconoclasta è Corrado Guzzanti. Onde evitare qualsiasi tipo di spoiler, mi limiterò a dire che la sua entrata in scena è uno sfregio a tutto quello che la meravigliosa cura estetica del regista di Io sono l'amore costruisce per più di metà. Prendere o lasciare. Per più di un'ora e mezza, il film non è soltanto il remake de La piscina con Alain Delon ma, in qualche modo, anche del film precedente di Guadagnino: uno stile lussureggiante, al limite del kitsch, sequenze eleganti e semplicemente "belle da vedere", la descrizione di un ambiente sociale e famigliare esemplare, supportata da uno sguardo registico un po' snob ma di indubbio fascino. Insomma, nessuna sorpresa, se aggiungiamo anche l'inevitabile gioco perverso e psicologico che si instaura nel quadrato sentimentale composto da Tilda Swinton, Matthias Schoenaerts, Dakota Johnson e Ralph Fiennes. La tensione cresce poco a poco, tra squarci di Pantelleria un po' cartolineschi e una colonna sonora degli Stones che violenta la pulizia formale dell'immagine. E poi, la scelta clamorosa di spiazzare lo spettatore che fino a quel momento ha potuto godere di uno spettacolo formalmente magistrale ma senza particolari sussulti. Fin dai titoli di testa, risulta evidente che Guadagnino sia consapevole di avere un talento incredibile, di saper calibrare umori, immagini, raffinatezze tecniche con una scioltezza che ha davvero pochi eguali nel cinema contemporaneo. Puro cinema, funzionale soltanto "alla bellezza del gesto", niente di più e niente di meno. Questa volta, però, non siamo di fronte a sontuoso affresco viscontiano dell'alta borghesia milanese, ma alla contrapposizione tra un nucleo umano di rockstar viziate e di produttori fighetti che vivono la superficie, "la schiuma dei giorni", e un Paese, l'Italia, che continua ostinatamente ad autoflagellarsi nella sua mediocrità che lo tiene in vita. Rimanendo sempre in bilico sulla linea sottile che separa sublime e ridicolo, A Bigger Splash sarà oggetto di discussione, tra parole di indignazione e post-ripensamenti: la verità è che in Italia un cinema come quello di Luca Guadagnino non lo fa proprio nessuno, in grado di avere un respiro universale che parte dalla negazione del postmoderno e arriva con prepotenza a rifiutare ogni ricatto di conformismo intellettuale.

Emiliano Dal Toso



sabato 5 settembre 2015

Venezia 72 - #Day4: The Childhood of a Leader

Doveva essere la giornata di Kristen Stewart e Robert Pattinson al Lido insieme, per due film diversi ma accomunati da un forte tocco di autorialità: il distopico Equals di Drake Doremus in Concorso e l'ambizioso The Childhood of a Leader di Brady Corbet nella sezione Orizzonti. Se Kristen si è presentata in gran forma in conferenza stampa e sul red carpet, rispondendo con brillantezza alle domande dei giornalisti malgrado le numerose critiche al film, di Robert Pattinson nessuna traccia. L'adattamento dell'esordiente Corbet dell'omonimo racconto di Jean-Paul Sartre ha spiazzato la platea: un lavoro di chiara impostazione teatrale, accompagnato da scelte registiche imprevedibili, a volte interessanti e coraggiose, altre ingiustificate. Spesso, ad esempio, la macchina da presa è molto lontana dai protagonisti, alcune sequenze sono lunghissime e interminabili, e le battute sono recitate dagli attori con una lentezza quasi "ronconiana". Ma a parte il giudizio su un film senz'altro coraggioso e non immediatamente decifrabile, che attualmente rimane sospeso, bisogna far notare che l'assenza a Venezia di Pattinson forse è dovuta al fatto che in The Childhood of a Leader l'ex vampiro Edward Cullen non si vede per più di quindici minuti complessivi. Tutto gira intorno al piccolo Charles Marker, interpretato da Tim Sweet, bambino in perenne conflitto con una madre severa e apprensiva, una eccellente Bérénice Bejo. Va anche detto che Pattinson è ora alle prese con diversi set: Good Time dei fratelli Safdie, The Lost City of Z di James Gray e The Trap di Harmony Korine. La terza ipotesi è che invece non sia venuto in Laguna per evitare di incrociare proprio la Stewart. Quello che è certo è che alla fine dei chiacchieratissimi Equals e The Childhood of a Leader nessuno in sala si è alzato in piedi per gridare al capolavoro.
 
Emiliano Dal Toso


venerdì 4 settembre 2015

Venezia 72 - #Day3: Black Mass

Johnny Depp è tornato. Questa è la nota più lieta di Venezia 72 dopo le prime tre giornate. Nella sua quarta prova da gangster, dopo Donnie Brasco, Blow e Nemico pubblico, è possibile ammirare nuovamente la potenza espressiva di un attore fenomenale, che dopo lo Jack Sparrow de La maledizione della prima luna era diventato vittima del gigionismo dei suoi personaggi, quasi tutti eccessivamente caricati e macchiettistici (Dark Shadows, The Lone Ranger, Mortdecai, per citare solo alcuni esempi). Black Mass è un gangster movie alla vecchia maniera, classico, solido, supportato dalla regia elegante ed essenziale di Scott Cooper, e da enormi prove recitative: oltre a Depp, sarà difficile dimenticare il bellissimo personaggio di John Connolly, l'agente FBI amico d'infanzia di James "Whitey" Bulger, il capo della malavita di Boston, che regnò incontrastato nella capitale del Massachusetts tra gli anni Settanta e gli anni Novanta. Cooper evita le scorciatoie del biopic, portando lo spettatore direttamente dentro la banda di Bulger, all'interno dei controversi rapporti con i suoi uomini e i nemici, senza risparmiare i metodi crudi e violenti con i quali il boss regolava i conti. Il punto nevralgico del film è il rapporto tra Bulger e Connolly, entrambi provenienti dalla strada, portatori di un'etica criminale ma romantica, virile ma talvolta vulnerabile, per la quale la vigliaccheria e il tradimento sono gli unici veri peccati mortali. Proprio l'amicizia con Connolly permette a Bulger di operare sempre nell'ombra, di commettere le peggiori nefandezze quando nessuno può vederlo. Il regista, però, non ritrae un gangster dal cuore tenero, tutt'altro: a differenza dell'altrettanto indimenticabile John Dilinger di Nemico pubblico, "Whitey" Bulger è spietato, aspro, malvagio. Non empatizza con nessuno, non ha pupilli con i quali instaurare un rapporto paterno, non prova nessuna pietà nei confronti di chi potrebbe mettere a repentaglio il suo potere, il controllo del suo territorio. Siamo lontani da ogni pericolo di attrazione e fascinazione per il lato oscuro: in Black Mass, Johnny Depp è la maschera del Male, quel Male che forse non ha mai incarnato con tanta adesione.

Emiliano Dal Toso




giovedì 3 settembre 2015

Venezia 72 - #Day2: Beasts of No Nation

L'ingrediente segreto del sesso è l'amore. Questa è la grande scoperta della protagonista di Nymphomaniac, ma per molti il sesso nel film di Lars von Trier non è altro che la cartina al tornasole per parlare di una passione molto più insana: il cinema. E per quanto il cinema di Cary Fukunaga sia formalmente impeccabile, visionario e spesso travolgente, dopo aver visto Beasts of No Nation sorge il sospetto che sia proprio l'amore a mancare nel suo sguardo da puro esteta dell'animo umano. Le tenebre hanno caratterizzato la prima stagione di True Detective: in un prodotto seriale, per rendere immortale un'idea di mondo possono essere sufficienti l'eleganza visiva, la battuta a effetto, un protagonista nichilista, fortemente marcato, e una spalla meravigliosamente umana. E, soprattutto, una narrazione avvincente e trascinante (merito, in questo caso, dello showrunner Nic Pizzolatto). Ma il Cinema è un'altra cosa, non per forza migliore o peggiore: semplicemente, un incanto di circa un paio d'ore che si regge in piedi grazie a qualcosa che non può essere etichettato, e neanche ben compreso. I grandi film sono quelli che possiedono qualcosa di magico e inspiegabile, in grado di avvolgere un'intera pellicola che può essere scarna, sporca, imperfetta tecnicamente, eppure incantevole. Si riconosce l'abilità di Fukunaga in diverse sequenze di Beasts of No Nation: dalle brutalità che il piccolo Agu è costretto a commettere per assecondare il rude comandante (Idris Elba) del gruppo di combattenti in cui è stato arruolato, riprese con una macchina da presa che volteggia in aria ad "altezza bambino", fino a un fenomenale piano sequenza che ricorda molto da vicino quello sontuoso, palpitante, del quarto episodio di True Detective, comincia a essere lampante la forte impronta del regista, la cura dei dettagli, l'importanza che viene assegnata alle location e alla fotografia. Ciononostante, l'originalità e la forza di questi aspetti non va di pari passo con una scrittura altrettanto potente. Il film è tratto dal libro Bestie senza una patria di Iweala Uzodinma ma l'originalità del soggetto originale rischia di invadere e schiacciare lo spazio che dovrebbe essere lasciato al coinvolgimento emotivo. Risultano chiaramente debitori di Terrence Malick (La sottile linea rossa, The New World) e di Apocalypse Now anche i passaggi più riflessivi, a cominciare dai flussi di coscienza fuori campo del giovane protagonista, che appaiono non così autentici, più di forma che di sostanza. E in un racconto di formazione talmente ambizioso, il peccato di artificiosità non può essere ignorato.

Emiliano Dal Toso


mercoledì 2 settembre 2015

Venezia 72 - #Day1: Everest

Il senso di Baltasar per la neve è quello della grande sfida impossibile, dai risvolti imprevedibili e tragici. Un po' come il sontuoso Ron Howard di Apollo 13, il regista di Cani sciolti sembra interessato, inizialmente, alla dimensione umana e famigliare dei suoi protagonisti: su tutti, s'innalza un ottimo Jason Clarke, dal cuore travolto per una Keira Knightley a casa in apnea, mentre il compagno è bloccato nel gelo, nel punto di contatto tra la vita e il paradiso. Non è un problema di altitudine, ma di attitudine, suggerisce il personaggio di Jake Gyllenhaal, e le sue parole dovrebbero suggellare la convinzione che Everest utilizzi la catastrofe come pretesto per mettere in scena un raffinato conflitto tra individui e personalità opposte. Un po' come Rush, nuovo punto di riferimento del cinema di "scontri tra uomini". Purtroppo, l'impressione conclusiva è che l'impeto della natura sovrasti e devasti tutte quelle dinamiche e quegli scontri psicologici che fino a un certo punto Kormákur aveva costruito con sagacia e intelligenza. Arriva la bufera, e si cancellano le inimicizie, spariscono le insicurezze e le incertezze, e Everest abbandona la sua umanità, anche per giustificare la presenza di una tridimensionalità di cui il cinema contemporaneo d'avventura non può ancora fare a meno. La cronaca di una morte annunciata si esprime corretta, compatta, organizzata. Con tutte le convenzioni del caso: chi è a casa o nei rifugi si muove e s'anima, col pensiero e il trasporto emotivo di chi vive in funzione di qualcun altro; chi aspira, invece, alla vetta più alta del mondo non può nemmeno preoccuparsi della propria sopravvivenza, perchè non è altro che un corpo raggelato, un respiro destinato gradualmente a spegnersi. E così la moltitudine di piccoli personaggi non sufficientemente approfonditi appare in parte giustificata dal fatto che l'unico vero protagonista del film sia la montagna. Come se di fronte all'enormità della natura, dinanzi a tutto ciò che non è stato l'Uomo a creare, si ribadisse che una parata di star hollywoodiane rimane inosservata, anonima, attonita e travolta dalle conseguenze, da ciò che l'ineluttabilità del fato e l'insensatezza del cataclisma comportano. Baltasar Kormákur si limita a raccontare, a mettere in scena, a riprendere. Il suo sguardo è privo di una presa di posizione autentica e personale, di una rilettura originale degli eventi. Ciononostante, il suo (non) film da red carpet spiazza e inquieta proprio nell'assenza dichiarata ed esplicita di autorialità. Un cinema abbandonato al suo destino, forse per scelta, forse per ammissione di inferiorità del genere umano.

Emiliano Dal Toso