Il senso di Baltasar per la neve è quello della grande sfida
impossibile, dai risvolti imprevedibili e tragici. Un po' come il
sontuoso Ron Howard di Apollo 13, il regista di Cani sciolti sembra
interessato, inizialmente, alla dimensione umana e famigliare dei suoi
protagonisti: su tutti, s'innalza un ottimo Jason Clarke, dal cuore
travolto per una Keira Knightley a casa in apnea, mentre il compagno è
bloccato nel gelo, nel punto di contatto tra la vita e il paradiso. Non è
un problema di altitudine, ma di attitudine, suggerisce il personaggio
di Jake Gyllenhaal, e le sue parole dovrebbero suggellare la convinzione
che Everest utilizzi la catastrofe come pretesto per mettere
in scena un raffinato conflitto tra individui e personalità opposte. Un
po' come Rush, nuovo punto di riferimento del cinema di
"scontri tra uomini". Purtroppo, l'impressione conclusiva è che l'impeto
della natura sovrasti e devasti tutte quelle dinamiche e quegli scontri
psicologici che fino a un certo punto Kormákur aveva costruito con
sagacia e intelligenza. Arriva la bufera, e si cancellano le inimicizie,
spariscono le insicurezze e le incertezze, e Everest abbandona
la sua umanità, anche per giustificare la presenza di una
tridimensionalità di cui il cinema contemporaneo d'avventura non può
ancora fare a meno. La cronaca di una morte annunciata si esprime
corretta, compatta, organizzata. Con tutte le convenzioni del caso: chi è
a casa o nei rifugi si muove e s'anima, col pensiero e il trasporto
emotivo di chi vive in funzione di qualcun altro; chi aspira, invece,
alla vetta più alta del mondo non può nemmeno preoccuparsi della propria
sopravvivenza, perchè non è altro che un corpo raggelato, un respiro
destinato gradualmente a spegnersi. E così la moltitudine di piccoli
personaggi non sufficientemente approfonditi appare in parte
giustificata dal fatto che l'unico vero protagonista del film sia la
montagna. Come se di fronte all'enormità della natura, dinanzi a tutto
ciò che non è stato l'Uomo a creare, si ribadisse che una parata di star
hollywoodiane rimane inosservata, anonima, attonita e travolta dalle
conseguenze, da ciò che l'ineluttabilità del fato e l'insensatezza del
cataclisma comportano. Baltasar Kormákur si limita a raccontare, a
mettere in scena, a riprendere. Il suo sguardo è privo di una presa di
posizione autentica e personale, di una rilettura originale degli
eventi. Ciononostante, il suo (non) film da red carpet spiazza e
inquieta proprio nell'assenza dichiarata ed esplicita di autorialità. Un
cinema abbandonato al suo destino, forse per scelta, forse per
ammissione di inferiorità del genere umano.
Emiliano Dal Toso
Emiliano Dal Toso
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