lunedì 28 aprile 2014

Riflessioni Spiazzanti: La Provocazione

I registi tradiscono. Wes Anderson ha tradito la propria proposta cinematografica di un universo stilizzato di perdenti caratterizzato dalla malinconia e dall'ironia, scegliendo di costruire un impeccabile prodotto preconfezionato rivolto ad un pubblico che si accontenta del citazionismo, del formalismo ed è ormai incapace di confrontarsi con un cinema che che abbia a che fare con temi e sfumature anche solo vicini alla vita reale. Lo stesso percorso è stato intrapreso da Tim Burton, che è passato in pochi anni dal meraviglioso 'Big Fish' per approdare al riprovevole immaginario di plastica di un film pattumiera come 'Dark Shadows'. Ma, in fondo, il trionfo dell'estetica incapace di andare oltre, di significare qualcosa d'altro, è un po' ciò che accomuna i bidoni recenti che sono stati spacciati come capolavori: da 'Avatar' a Nicolas Winding Refn, da 'La Grande Bellezza' a '12 anni schiavo'. Questo non-sentimento dei tempi è stato perfettamente inquadrato da Harmony Korine in 'Spring Breakers': il regista americano ha avuto il merito di prenderne consapevolezza e di proporre un'opera complessa che si presenta come futile ma che è esattamente l'opposto. Si potrebbe dire che 'Spring Breakers' intraprende la direzione opposta degli Anderson e dei Burton, ex grandi "autori" che sono convenientemente passati dalla sostanza all'inconsistenza. Ma il coraggio di un cinema alternativo in grado di smascherare il vuoto pneumatico della fotografia e delle belle immagini fini a se stesse non è rimasto isolato. Lars von Trier con 'Nymphomaniac' ha creato un evento mediatico, utilizzando la principale arma commerciale che unisce i popoli di tutto il mondo: il sesso. Quello che ne è venuto fuori è, però, il film più doloroso, audace, denso di sfumature, di immagini vive, pulsanti, autentiche degli anni Duemila. Certo, mettersi in relazione con il succo del discorso di 'Nymphomaniac' potrebbe non essere il desiderio di chi va al cinema per distrarsi e rilassarsi. A loro lasciamo volentieri 'Grand Budapest Hotel'. Allo stesso modo, mi tengo strette le scopate liberatorie di 'La Vita Di Adele' e non l'hipsterismo piagnucolone di 'Her', mi tengo stretto la parabola grottesca e distruttiva di 'The Wolf Of Wall Street' e non le lezioncine da sussidiario delle elementari di 'Lincoln'. Più vado avanti e guardo film, più mi rendo conto che dietro a tutto ciò che appare provocatorio c'è molta più sensibilità: dietro a 'Nymphomaniac' e a 'La Vita Di Adele' ci sono due commoventi storie d'amore, dietro a 'The Wolf Of Wall Street' e a 'Spring Breakers' ci sono le cause e gli effetti del delirio collettivo della contemporaneità. Ma non mi illudo: so che per chi whatsappa agli amici le foto corrette su Instagram o per chi tiene ad aggiornare il proprio stato sentimentale su Facebook questo possa essere difficile da capire.

Emiliano Dal Toso



martedì 8 aprile 2014

The Grand Budapest Hotel

Ci sono soltanto due registi che negli ultimi vent'anni siano stati in grado di dare un'impronta talmente originale alla loro filmografia da diventare immediatamente riconoscibili: Quentin Tarantino e Wes Anderson. Esattamente come accade nei film del regista di 'Pulp Fiction', così in quelli di Wes sono sufficienti un paio di inquadrature e qualche battuta per non avere dubbi su quale sia la loro provenienza. Se, però, nelle opere di Tarantino si è dichiaratamente dinanzi a un trionfo del citazionismo e della pura narrazione e difficilmente si richiede allo spettatore uno sforzo interpretativo ulteriore, in quelle di Anderson l'originalità dello stile e della confezione è sempre stata funzionale a un contenuto nascosto in maniera molto sofisticata dietro alla perfezione formale e alla precisione millimetrica dei dettagli. Ho amato alla follia lavori come 'I Tenenbaum' e 'Il Treno per il Darjeeling' proprio per la loro costante tensione malinconica che accompagna ogni passaggio e per lo sfumato disagio esistenziale dei personaggi più stilizzati e surreali. Mi sembra che questo miracoloso connubio tra invenzioni visive e profondità stia gradualmente esaurendosi nel cinema del regista texano: già in 'Moonrise Kingdom' la quantità di carineria prevaleva su quella della sostanza, malgrado l'indubbia efficacia di alcune invenzioni registiche. Ora, con 'The Grand Budapest Hotel' temo che la "polpa" sia definitivamente scomparsa: aumenta il numero di personaggi eccentrici, aumentano le sfarzosità delle scenografie e la vivacità dei colori, sembra sempre più maniacale la ricerca geometrica dell'"inquadratura perfetta", eppure svaniscono clamorosamente ogni traccia di caratterizzazione umana e di poesia. Sia chiaro: non mancano momenti divertenti e geniali (non saremmo altrimenti in un film di Wes Anderson), ma non è possibile evitare di constatare un generale senso di delusione per quello che è a tutti gli effetti nient'altro che un divertissement sterile e fine a se stesso, un po' compiaciuto e, alla lunga, ripetitivo. Diventato ormai regista noto anche alle masse e abbandonata l'etichetta di autore chic e snob, la paura è quella che il buon Wes segua la strada che ha portato al fallimento artistico di Tim Burton: quella dell'opera cinematografica prefabbricata, richiesta ad uso e consumo da un pubblico sempre più propenso a divertirsi per le stramberie e per le cazzatine ma sempre meno in grado di vivere un'esperienza cinematografica consistente e davvero emozionante. Il numero spaventoso e, forse, eccessivo di attori eccellenti presente in 'The Grand Budapest Hotel' sembra essere quasi una giustificazione per soccombere alla mancanza di idee ed un pretesto per proporre agli spettatori il gioco di chi ne riconosce di più, distraendosi dalla sostanziale inutilità dell'intreccio narrativo. Col rischio di sembrare un cinico con la puzza sotto il naso, preferisco prendere le distanze da un film fighetto e modaiolo, malgrado il suo autore sia uno dei più amati dal sottoscritto. Dopotutto, soltanto una linea sottile separa la bellezza dalla vacuità, e la mancanza di ogni tipo di amarezza sarà sempre motivo di grande noia e di disinteresse.

Emiliano Dal Toso