Ci sono soltanto due registi che negli ultimi vent'anni siano stati in grado di dare un'impronta talmente originale alla loro filmografia da diventare immediatamente riconoscibili: Quentin Tarantino e Wes Anderson. Esattamente come accade nei film del regista di 'Pulp Fiction', così in quelli di Wes sono sufficienti un paio di inquadrature e qualche battuta per non avere dubbi su quale sia la loro provenienza. Se, però, nelle opere di Tarantino si è dichiaratamente dinanzi a un trionfo del citazionismo e della pura narrazione e difficilmente si richiede allo spettatore uno sforzo interpretativo ulteriore, in quelle di Anderson l'originalità dello stile e della confezione è sempre stata funzionale a un contenuto nascosto in maniera molto sofisticata dietro alla perfezione formale e alla precisione millimetrica dei dettagli. Ho amato alla follia lavori come 'I Tenenbaum' e 'Il Treno per il Darjeeling' proprio per la loro costante tensione malinconica che accompagna ogni passaggio e per lo sfumato disagio esistenziale dei personaggi più stilizzati e surreali. Mi sembra che questo miracoloso connubio tra invenzioni visive e profondità stia gradualmente esaurendosi nel cinema del regista texano: già in 'Moonrise Kingdom' la quantità di carineria prevaleva su quella della sostanza, malgrado l'indubbia efficacia di alcune invenzioni registiche. Ora, con 'The Grand Budapest Hotel' temo che la "polpa" sia definitivamente scomparsa: aumenta il numero di personaggi eccentrici, aumentano le sfarzosità delle scenografie e la vivacità dei colori, sembra sempre più maniacale la ricerca geometrica dell'"inquadratura perfetta", eppure svaniscono clamorosamente ogni traccia di caratterizzazione umana e di poesia. Sia chiaro: non mancano momenti divertenti e geniali (non saremmo altrimenti in un film di Wes Anderson), ma non è possibile evitare di constatare un generale senso di delusione per quello che è a tutti gli effetti nient'altro che un divertissement sterile e fine a se stesso, un po' compiaciuto e, alla lunga, ripetitivo. Diventato ormai regista noto anche alle masse e abbandonata l'etichetta di autore chic e snob, la paura è quella che il buon Wes segua la strada che ha portato al fallimento artistico di Tim Burton: quella dell'opera cinematografica prefabbricata, richiesta ad uso e consumo da un pubblico sempre più propenso a divertirsi per le stramberie e per le cazzatine ma sempre meno in grado di vivere un'esperienza cinematografica consistente e davvero emozionante. Il numero spaventoso e, forse, eccessivo di attori eccellenti presente in 'The Grand Budapest Hotel' sembra essere quasi una giustificazione per soccombere alla mancanza di idee ed un pretesto per proporre agli spettatori il gioco di chi ne riconosce di più, distraendosi dalla sostanziale inutilità dell'intreccio narrativo. Col rischio di sembrare un cinico con la puzza sotto il naso, preferisco prendere le distanze da un film fighetto e modaiolo, malgrado il suo autore sia uno dei più amati dal sottoscritto. Dopotutto, soltanto una linea sottile separa la bellezza dalla vacuità, e la mancanza di ogni tipo di amarezza sarà sempre motivo di grande noia e di disinteresse.
Emiliano Dal Toso
Emiliano Dal Toso
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