Discussa, criticata, offesa. Inadatta al pubblico serializzato e standardizzato che trova la sua ragion d'essere nello storytelling. La seconda stagione di True Detective ha disatteso le aspettative di chi desiderava un remake della prima stagione, o perlomeno qualcosa di molto simile; non ha convinto, dunque, gli amanti delle serie tv, rinunciando ad assumere identità modaiole e a nascondersi dietro pose; lo showrunner Nic Pizzolatto ha voluto abbondare in tutto e per tutto: più personaggi, più marciume, più mal di vivere. La trama a volte si perde, confusa, senza saper bene dove si stia andando a parare. Verso il quarto e il quinto episodio la sensazione è di grande spaesamento: non sono sufficienti la messa in scena sontuosa e la prova magnifica di tutti gli attori per levarsi di dosso questo smarrimento narrativo. Un mio caro amico scrittore mi ha rivelato che c'è tanto, troppo Ellroy nella penna di Pizzolatto (L.A. Confidential, Il grande nulla), ai limiti del plagio. Io ci ho visto molto Vivere e morire a Los Angeles, oltre a un pessimismo cosmico a cui ho abbinato il miglior cinema americano di sempre, quello tra gli anni Settanta e Ottanta. Molte cose vengono lasciate sospese, non tutto si chiude, non tutto torna. E va bene. Mi sembra, però, che l'operazione di vivisezionare episodio per episodio, senza avere uno sguardo d'insieme, non si sia mai rivelata tanto sbagliata come questa volta; mai nella vita ho visto un prodotto televisivo così complesso, sfumato, così cinematograficamente denso. Senz'altro imperfetto, ma nel senso cinematografico del termine, non in quello televisivo. Qualcosa di archetipico e maestoso, classico e disperato: personaggi neri, oscuri e autodistruttivi come Ray Velcoro, Ani Bezzerides, Paul Woodrugh e Frank Semyon si portano dietro una pesantezza esistenziale che ha poco a che fare con il prime time, con il mainstream, con l'audience, con i social network. E anche con lo storytelling. Ancor più che nella prima stagione, un senso globale di malattia pervade ogni sequenza: non c'è spazio per la battuta che smorza, e nemmeno per le dinamiche tipiche da buddy movie che caratterizzavano Cohle e Hart, seppur in chiave nichilista, per le paludi della Louisiana e non per le strade delle grandi metropoli. Non si ride proprio mai, malgrado la presenza di Vince Vaughn. A volte ci si annoia. Ma la seconda stagione di True Detective è un capolavoro, come hanno scritto Marco Imarisio su 'Corriere della sera' e Gabriele Romagnoli su 'Repubblica': è la volontà di andare oltre, di rifuggire da ogni carineria, di raccontare i demoni dell'Uomo con ancor più veemenza e dannazione. Ponendo al centro il rapporto tra genitori e figli, perché da quello non si può scappare. Ribadendo l'impossibilità di fuggire ai conti con se stessi, alle proprie dipendenze, e rispondendo alle conseguenze delle proprie azioni. E compiendo sempre un ultimo romantico gesto, prima di andare incontro a un destino già scritto.
Emiliano Dal Toso
Emiliano Dal Toso