lunedì 26 dicembre 2011

Pearl Jam Twenty (voto 8)

Parlare dei Pearl Jam per il sottoscritto è parlare di uno dei grandi amori della propria vita. La mia passione per il rock è nata ascoltando per la prima volta quel famoso capolavoro grunge che porta il nome di 'Nevermind' all'età di quattordici anni, comprato in un negozietto milanese che ora non esiste più. L'ascolto dell'album più entusiasmante dei Nirvana è stato un evento fondamentale che mi ha portato conseguentemente a conoscere i cuginetti di Seattle, ai quali il biondino suicida non ha mai riservato troppa simpatia se non nelle ultime fasi della sua vita. Alcune sue dichiarazioni e molto altro vengono riportate nel bellissimo documentario di Cameron Crowe 'Pearl Jam Twenty', il quale ripercorre dalla fine degli anni 80 a oggi le vicissitudini della più grande rock-band degli ultimi vent'anni, appunto. Crowe è un cineasta che ama raccontare la provincia americana e i suoi sogni come pochi altri, riuscendo nei suoi film sempre a cogliere quello spicchio springsteeniano di realtà ma anche di ottimismo. Ha regalato a Tom Cruise forse le più belle interpretazioni della sua carriera ('Jerry Maguire', 'Vanilla Sky'), si è messo a nudo in quel delizioso spaccato seventies che è 'Quasi famosi', ha dato a Orlando Bloom un motivo per continuare a recitare dopo i vari signori degli anelli (l'altrettanto delizioso 'Elizabethtown'). Un documentario sui Pearl Jam è, dunque, grasso che cola per uno come lui. E il risultato è meravigliosamente coinvolgente. Viene utilizzato diverso materiale storico di repertorio dei primi anni 90 che rende onore a quello che è stato il grunge, uno status esistenziale, una concezione di vita più che un genere musicale. Si parte dai Mother Love Bone e dalla morte del cantante Andy Wood, dal loro scioglimento e dalla costituzione dei Pearl Jam con il giovane Eddie Vedder, passando per la magica collaborazione con Chris Cornell nei Temple Of The Dog, per la causa contro Ticketmaster per l'eccessivo prezzo dei biglietti dei concerti, per la drammatica morte di nove fan durante il concerto di Roskilde nel 2000, e si arriva all'ultima tournèe di 'Backspacer'. La grandissima forza di questa operazione è quella di raccontare la nascita, l'affermazione e la sopravvivenza di un gruppo completamente autentico nonchè forse l'unico che sia stato in grado a durare nel tempo dopo la morte di Cobain. Il senso di fratellanza, di amicizia e di unione che ha portato a creare il debutto di 'Ten' dopo la morte di Wood viene grandiosamente reso con testimonianze emozionanti ed emozionate e con immagini di grandissima potenza. E poi, ovviamente, ci sono le canzoni e le esibizioni. 'Pearl Jam Twenty' ha tutto questo, un documento storico per nulla agiografico, anzi, è un inno alla realizzazione di un sogno che mostra entrambi i lati della medaglia, con rispetto ma, in particolar modo, con passione. Quella passione che porta ad innamorarsi dei Pearl Jam e ai Pearl Jam di continuare a esserci negli anni.

Emiliano Dal Toso

Le Idi Di Marzo (voto 8)

Uno degli attori americani su cui gli spettatori nostrani hanno delle opinioni a dir poco discordanti è sicuramente George Clooney. Secondo le sue fan più agguerrite è l'uomo più bello del Pianeta, alcuni non lo possono proprio sopportare, altri ancora non riescono a capacitarsi come sia potuto stare insieme alla stessa donna di Bobo Vieri per così tanto tempo. Tutti pareri condivisibili o meno. Nessuno di questi riguarda però la professione di George Clooney. Il suo esordio come regista risale ai primi anni del Duemila con il film "Confessioni di una mente pericolosa", il quale ottiene un discreto successo di critica e lo spinge a continuare la sua carriera dietro la macchina da presa. Oscillando tra cinema d'autore ("Good night and good luck") e flop inguardabili (" In amore niente regole") quest'anno a Clooney è stato affidato l'onore e l'onere di aprire la Mostra del Cinema di Venezia. Il risultato è stato tutt'altro che deludente, anzi, è stato quasi sorprendente. "Le Idi di Marzo" è un film come quelli che si facevano una volta. Partendo dal testo teatrale "Farraguth North" di Beau Willimon, la storia concentra la sua attenzione sulla figura di Stephen Myers, giovane pieno di buoni propositi che si dedica a seguire come addetto stampa la campagna per le primarie del governatore democratico dell'Ohio, Mike Morris. Nel suo percorso di formazione scoprirà che il mondo che lo circonda è pieno di squali, sciacalli e iene pronti a elevarlo ai massimi livelli ma anche a distruggerlo con la stessa facilità. Sembra banale ma il merito di quest'opera sta quasi tutto in una sceneggiatura solidissima, senza sbavature, e nel suo cast stellare che va da Marisa Tomei, passando per Paul Giamatti e Philip Seymour Hoffman, fino a Evan Rachel Wood, e culmina in un Ryan Gosling magnetico, doppiogiochista e impeccabile nella sua performance. Clooney ha fatto un film perfetto quindi? Decisamente no. Mettere a nudo la corruzione politica descrivendola come un Mondo spietato e crudele è originale quanto dire di aver scoperto l'acqua calda, il regista non si prende nessun rischio tecnico-professionale, non osa e mantiene tutto sotto controllo trasformando il film in un ingranaggio dai movimenti perfetti, quasi mai fuori luogo. "Le idi di Marzo" non è certamente un'opera sperimentale ma in fondo cosa c'è di sbagliato nello rispolverare le vecchie tradizioni? Il divo americano è  riuscito a mescolare in modo intelligente il mondo della finzione con il mondo della realtà, in un film che potrete apprezzare lasciandovi affascinare dalla magia che solo il buio della sala è in grado di ricreare.

Alvise Wollner



sabato 24 dicembre 2011

Finalmente la felicità (voto 5)

Partiamo da un presupposto: "Finalmente la felicità" non è di certo un film di alto livello. Non è nemmeno una commedia così riuscita o coinvolgente come i lavori che hanno segnato gli esordi di Pieraccioni. E' un film che possiede, e a sua volta provoca, una serie di sindromi. La prima sindrome che salta all'occhio dello spettatore ordinario è la cosiddetta: "Sindrome di Benigni", ovvero l'attore che con il suo nome può fare incasso al botteghino continua a far recitare gente incapace nei suoi film (come Nicoletta Braschi). I film di Pieraccioni sono, quasi sempre, recitati male e "Finalmente la felicità" non fa eccezione, anzi, è uno dei peggiori sotto questo punto di vista. La seconda sindrome riscontrabile nel film è la classica "Sindrome di Peter Pan". Il regista/attore aveva promesso di evolvere il suo personaggio con il passare degli anni, ma nell'ultimo film non c'è proprio niente di nuovo, Leonardo è il solito quarantenne single che non vuole crescere e si innamora di una sorella adottata a distanza, di vent'anni più giovane di lui (sic!). Terza sindrome è un effetto che riguarda non il film in sè, ma il giudizio che gli altri ne esprimono. La chiameremo "Sindrome di stroncatura". Ogni Natale, nel marasma di commedie fatte con lo stampo che escono nelle sale, ci deve essere almeno un film che viene stroncato più degli altri dalla critica. L'anno scorso era successo a "Natale in Sudafrica", distrutto per dare risalto a film come "Qualunquemente" e "La banda dei babbi natale" che lasciavano molto a desiderare sul loro livello qualitativo. Quest'anno sembra essere toccato a Pieraccioni finire sul banco degli imputati della critica. Si sono lette su di lui stroncature impietose e a volte anche cattive. Non mi sembra il caso di essere così accaniti, in fondo il film strappa delle risate in diversi momenti, non è una comicità intelligente ma piuttosto volgare; però, scenette come quella della mamma uccisa da Barbara Bouchet sono veramente ben riuscite. La "Sindrome Pieraccioni" riassume le tre sindromi precedenti, le ingloba e produce commedie perennemente simili le une con le altre con una colonna sonora di servizio, belle ragazze e il super modello di turno per accontentare il pubblico maschile e femminile, personaggi stereotipati e macchiettistici (Rocco Papaleo troppo esagerato e quasi mostruoso nel suo ruolo), una storia prevedibile con il lieto fine mieloso e ottimistico. La diagnosi finale è: un'altra stupida commedia italiana. Certo, se volete passare un'ora e mezza spensierata andate a vederla ma attenzione: il Cinema degno di questo nome è tutta un'altra cosa.

Alvise Wollner

giovedì 22 dicembre 2011

Christmas Movie: Una Poltrona Per Due

"Pensavi che mi fossi dimenticato la gratifica natalizia? Eccoti cinque dollari." "Grazie, con questi ci vado al cinema. Da solo."
Vaffanculo al Natale. Vaffanculo a Mediaset e alla sua programmazione televisiva che ogni anno ripropone in prima serata spacciandola come una commedia "per tutta la famiglia" uno dei film più fieramente rossi che siano mai stati girati da un regista americano nonchè uno dei miei dieci capolavori preferiti di ogni tempo. 'Una poltrona per due' è rosso ma di quel rosso profondo che ha a che fare con i colori della rivoluzione, dell'anticapitalismo e dell'anticlassismo piuttosto che con quello babbonatalizio delle palline da mettere sull'albero. Il compagno John Landis gira col pugno alzato dalla prima all'ultima sequenza, innevando ogni gag, ogni invenzione comica di un sottotesto politico decisamente schierato. Il fatto che 'Una poltrona per due' abbia la leggerezza e la grazia della miglior tradizione della commedia americana non fa altro che testimoniare il genio e l'abilità narrativa di un regista strepitoso. Ecco chi era John Landis. L'uomo che ha lanciato nell'olimpo degli dei della comicità John Belushi e che ha rivelato la forza dirompente di un caratterista come Eddie Murphy. L'attore afroamericano non ha mai ritrovato nella sua carriera un ruolo così meravigliosamente congegnato e trascinante come quello del senzatetto che diventa un genio della finanza. Così come Dan Aykroyd si ricorda soprattutto per 'The Blues Brothers' e per questo personaggio teneramente ingenuo e inconsapevole, molto di più che per 'Ghostbusters' nel quale Bill Murray avrebbe rubato la scena anche a Marlon Brando. 'Una poltrona per due' rappresenta il graffio punk di un raffinato umorista nei confronti del sistema economico occidentale e va contestualizzato in una America nella quale il partito repubblicano di Ronald Reagan ha appena sbaragliato i democratici di Jimmy Carter. Quel conservatorismo che ha fatto sì che i ricchi diventassero sempre più ricchi e i poveri sempre più poveri, che le differenze sociali acquisissero distanze abissali viene completamente abbattuto e devastato all'interno di una sceneggiatura clamorosa nella quale i banchieri sono sodomizzati da gorilla e un maggiordomo, una prostituta e un homeless ribaltano i meccanismi del sadismo sociopolitico. Non c'è miglior vendetta del finale in cui le due marionette si ritrovano al posto dei burattinai e l'unica fine possibile per i due fratelli capitalisti non può che essere impietosa e fatale. La lievità, la forza popolare della comicità contenitrice di contenuti rivoluzionari e beffardi sono la spina dorsale di un capolavoro degno di essere posto al fianco delle filmografie di Frank Capra, Billy Wilder e Peter Bogdanovich. L'irrefrenabile continuità dei numeri comici sedimentati su motivi classisti e razziali appare ancora oggi senza eguali, in equilibrio miracoloso tra demenzialità e sarcasmo. Ecco chi era John Landis e Buon Natale a tutti quanti.

Emiliano Dal Toso

martedì 20 dicembre 2011

Christmas Movie: L'Ultimo Capodanno

Quando ero più giovane, l'abuso di droghe leggere non aveva ancora iniziato a provocarmi crisi di panico, anzi, esaltava la mia euforia. In quel periodo, un paio di sere, intorno alle cinque del mattino, mi è capitato di vedere questo film. Oggi lo rivedo per poterne inserire una recensione più o meno ragionata in questa rubrica natalizia. Il film racconta storie diverse che si intrecciano all'interno dello stesso edificio durante la notte di capodanno. Persone diversissime con storie altrettanto diverse e indipendenti tra di loro, sommano le piccole e grandi complicazioni delle loro piccole vite in una escalation irreversibile di caos e distruzione in cui tutti finiscono per trovarsi coinvolti. Una famigliola felice, tre ladri, due giovani scapestrati a caccia di emozioni nuove, una coppia che scoppia e altre strane situazioni. Tanto strane quando paradossalmente verosimili. Marco Risi (sì, suo padre si chiama Dino) raccoglie attorno a sé un cast lunghissimo; attingendo dal sottobosco cinematografico italiano che sta sul confine tra fiction e cinema vero, riesce a selezionarne gli elementi migliori, creando una piccola opera corale e grottesca. Consigliatissimo agli amanti del genere, piacevole per tutti gli altri. Finale assurdo.

Giancarlo Mazzetti


lunedì 19 dicembre 2011

Christmas Movie: Mamma Ho Perso L'Aereo

Il Natale si sta avvicinando, inesorabile e magico come ogni anno. La neve ricopre strade, case e alberi. Le luci sono accese, sfavillanti, nella grande casa della famiglia McCallister a Chicago. Un vociare festoso e chiassoso pervade le stanze, domani tutti partiranno per Parigi, ma nella fretta si dimenticheranno a casa il piccolo Kevin, otto anni. Nel frattempo due malviventi da strapazzo proveranno a svaligiare la bianca villetta, ma se ne pentiranno amaramente. Una delle commedie cult degli anni Novanta parte da uno spunto narrativo molto semplice, o meglio, parte da una sensazione. Una sensazione che tutti noi abbiamo provato almeno una volta nella vita: quella di aver dimenticato qualcosa dopo essere partiti per un lungo viaggio. Chi di noi non ha mai detto: "Ho come la sensazione di essermi dimenticato qualcosa, ma non ricordo cosa." Certo se si lascia a casa lo spazzolino è un conto, ma lasciare solo durante le vacanze di Natale il proprio figlio di otto anni è tutta un'altra storia. "Mamma ho perso l'aereo" si basa sulla pura impossibilità di quello che lo spettatore vede sullo schermo. Tutte le azioni che i protagonisti compiono durante il corso del film, non potranno mai succedere nella vita reale. Lo si capisce nel folgorante dialogo che Kevin ha con il direttore e la cassiera del supermercato in cui va a fare la spesa. Davanti alla raffica di domande che i due gli pongono lui risponde pacato: "Oh andiamo signori, ho otto anni come posso essere venuto fin qui da solo??" Quando il film uscì nelle sale cinematografiche, vent'anni fà, nessuno aveva previsto il successo mondiale che la pellicola avrebbe riscosso e ancora oggi gli esperti USA stanno cercandone le ragioni. Un po' come successe in Italia con "Il ciclone" di Leonardo Pieraccioni. La forza di questa strepitosa commedia non è da ricercare nel suo miscuglio di buffoneria violenta, nella farsa slapstick o nel saccarosio tipico della commedia familiare. Quello che la rende speciale è l'aver reso realistica una storia assolumente impossibile, capace di far rimanere lo spettatore incollato alla sedia per un'ora e quaranta. Il film fu scritto dal produttore John Hughes e diretto, con indiscutibile mestiere, dal veterano Chris Columbus. I tempi comici sono perfetti, le battute brillanti e folgoranti, il cast è superlativo e su tutti emerge il fenomeno Macaulay Culkin, il biondo bambino prodigio che verrà travolto da un successo troppo grande per la sua giovane età. Ne venne quasi subito fatto un sequel, girato a New York, di discreta fattura, e ancora oggi i due film sono un classico della programmazione televisiva durante le vacanze di Natale. Un film insomma da vedere e rivedere, in famiglia o con gli amici, per la sua capacità di non passare mai di moda. "Mamma ho perso l'aereo" è una commedia per famiglie senza la famiglia e  ci dice che la vita va affrontata con il sorriso e con la spiazzante semplicità che solo i bambini riescono ad avere. Forse è proprio questa la chiave del suo successo.

Alvise Wollner

sabato 17 dicembre 2011

Christmas Movie: Vacanze Di Natale 95

Sono contento che Emiliano mi abbia chiesto di scrivere di Vacanze Di Natale '95, in primo luogo perchè sono un appassionato del genere, e poi perchè voglio bene a Emi e so che il film in questione è uno dei suoi preferiti della serie. Stringiamo sulla trama. Siamo ad Aspen, Colorado, la Cortina U.S.A., coi i suoi arricchiti e i suoi troioni. Christian vuole riconquistare la moglie americana che lo ha piantato perchè esasperata dalla sua passione per il gioco d'azzardo. Nel tentativo, ovviamente si fa perdonare, ma poi si sputtana tutti i soldi con un certo Paolone, il quale è disposto ad annullargli il debito se il nostro gli concederà sua moglie. Massimo è in vacanza con la figlia, Cristiana Capotondi versione superteen, che lo ha trascinato ad Aspen nella speranza di incontrare Luke Perry, in questo frangente nel ruolo di se stesso, all'epoca grande idolo sexy delle ormonose di tutto il mondo per il suo personaggio Dylan nella serie Beverly Hills, che noi tutti ricordiamo. Oggi verosimilmente trenta chili di più, il fegato di un'oca francese e le narici bruciate. Vabè. Comunque, come al solito le due storie si intrecciano e arrivano le fantastiche gags che tutti sappiamo ("Tutte troie, tutte troie", "Sto a cercà mi moje ch'è 'n pezzo de fica e ho trovato te che sei 'n frocio chi'i baffi", and much more). 1995. Il periodo storico è quello di un'Italia non ancora consapevolmente berlusconiana, semmai post-craxiana, che poi è qualcosa di tanto simile, in realtà. Un periodo che tra alcuni anni la storiografia accrediterà come uno dei più difficili del secolo scorso per questo Paese. Però echi di quella attualità non ce ne sono nel film, al massimo ancora un vago senso di anni Ottanta, che però sono andati da mò. Da questo punto di vista si può dire che VdN95 non ha bisogno di ancoraggi al presente, è buono sempre; molte delle cagate che fanno Max e Christan fanno ridere oggi e faranno ridere anche tra quarant'anni, in maniera universale. Ecco perchè il film, e tutto il filone, sono decontestualizzabili e destrutturabili. Quanti di noi vanno su youtube a vedere singole scene e si spanciano... E quelle scene sono validissime anche da sole, anche senza conoscere l'anno di uscita del film, o il resto della trama. Il clan degli sceneggiatori e del regista pesca nella commedia latina classica col tema dello scambio (lo "scangio" direbbe il maestro Camilleri) e con gli equivoci, come spesso fatto prima e dopo questo film. E qui bisogna dire che in altri titoli l'operazione è riuscita meglio (capolavoro assoluto in tal senso: Natale a Rio). Comunque, nella circostanza specifica, grandissimo Christian e grandissimo Massimo, alla pari. Mai capite le critiche a questo cinema. Due riflessioni. 1) Il perchè del successo di questo film e degli altri della serie. Non credo che questi film avrebbero successo in Francia. Non credo che gli italiani siano più stupidi dei francesi. Semplicemente gli italiani sono dotati di una autoironia granitica, che quella non la tiri giù neanche a picconate. Ci piace vederci presi in giro, rielaboriamo, ci ridiamo su, serenamente. E questo è molto bello, e questo cinema fa tutto questo. 2) I cinepanettoni (mi fermo a Rio, gli ultimi fanno obiettivamente schifo) sono film onesti, non hanno pretese, fanno quello per cui sono stati fatti e basta. Zero interpretazioni, quello che c'è te lo prendi; e d'altra parte sei andato a vederli apposta. Ripeto, mai capite le critiche a questi film. Non si legge Fabio Volo per poi dire: «Certo che però Dostoevskij era meglio». Dopo essere stato con una puttana non le si dice: «Maccàzzo, vuoi essere pagata?!»

Ivan Brentari

venerdì 16 dicembre 2011

Midnight in Paris (voto 7)

Con questa recensione iniziano una serie di collaborazioni da parte di alcune delle più grandi menti della mia generazione.

Alcuni studiosi di filosofia sostengono che, effettuate le dovute riduzioni, la storia del pensiero si potrebbe sostanzialmente ridurre alla contrapposizione tra chi è platonico e chi è aristotelico; questi sarebbero due modi fondamentali di concepire il mondo a cui nessuno può sottrarsi. Allo stesso modo, io (più modestamente) credo che il mondo del cinema si divida tra le persone a cui piace Woody Allen e quelli a cui non fa alcun effetto. Per quanto mi riguarda, appartengo sicuramente al primo gruppo, ma con moderazione: non ho mai trovato spiacevole un film di Allen, ma non ho mai gridato al capolavoro (anche se con Match Point ci sono andato vicino); diciamo che la scala all'interno del quale lo colloco è tra il carino e il molto carino, con tutte le sfumature intermedie. In quest'ottica, Midnight in Paris è piuttosto carino. Parlando degli utimi suoi lavori, meglio di Scoop e Vicky Cristina Barcelona, ma meno bello di Sogni e delitti. Il film contiene un solo vero grande concetto (e del resto quando si ha una media di 1,17 film all'anno negli ultimi ventinove anni, non è che se ne possano mettere molti di più), che è la seguente domanda: quando crediamo che potremmo vivere un'esistenza migliore se vivessimo in un altro luogo, o in un altro tempo, ci illudiamo? La risposta del cineasta è incerta, perché incerto è il vagare dell'uomo in questo mondo. Se Adriana (Marion Cotillard) sceglie di inseguire l'illusione, l'uomo contemporaneo sa che non cambierà nulla e deve rinunciare al cambiamento radicale. Tuttavia egli, Gil (Owen Wilson), non può accettare di rinunciare completamente al tentativo e finisce, pur restando nel suo tempo, col rimanere a Parigi. In Gil convivono il pessimismo più radicale della teoria razionale (che emerge nella sua reazione alla decisione di Adriana) e il sottile ottimismo latente dell'agire umano, che in fondo non è in grado di rinunciare del tutto alla speranza. Il finale, apparentemente lieto, si rivela a mio avviso come il segnale di un circolo vizioso al quale siamo condannati: speranza nell'amore, delusione nella vita, diperazione, di nuovo speranza e così' via. Bravo Wilson, bella Marion Cotillard. Bruttissima Carla Bruni.

Giancarlo Mazzetti



mercoledì 14 dicembre 2011

I Film Dell'Anno Degli Amici e Lettori

Potremmo essere noi quello sbaglio.
Per un soffio, il film preferito dagli amici e lettori risulta essere Melancholia (bella rivincita dopo l'esclusione, sofferta, dalla Superclassifica), che con 5 voti prevale su The Artist e Midnight in Paris (4 preferenze). Con 3 voti troviamo The Tree Of Life e Il Cigno Nero, mentre con 2 ci sono Carnage, This Is England, Il Discorso Del Re, Habemus Papam e Faust. Seguono tredici film con 1 voto, ovvero le chicche, quelli che pochi fortunati hanno visto ma che valgono altrettanto.

Alvise Wollner

The Tree Of Life:
Universale
The Artist: Magistralmente Nostalgico
Una Separazione: Tremendamente Umano

Andrea De Poli
The Tree Of Life:
Unico e Inimitabile
The Artist: Coraggioso, Ben Ritmato e Frizzante
Melancholia: Prorompente

Angelica Gallo

Midnight In Paris:
Poetico
Melancholia: Pura Arte
Almanya: Inaspettato

Filippo Festuccia
Il Discorso Del Re:
da ogni punto di vista (trama, recitazione, comparto tecnico), il film migliore della stagione, Colin Firth immenso.
I Tre Moschettieri: così trash che scavalla e diventa strepitoso, a modo suo la perfetta sintesi di cosa è Hollywood (e la cultura pop) oggi.
Midnight In Paris: Allen colpisce ancora, non solo un gran film ma la fotografia di un'età d'oro.

Francesco Bagnoli
Il Cigno Nero:
una dose di Aronofsky in vena per incubi bellissimi.
Habemus Papam: umorismo surreale miscelato a drammi esistenziali e condito da cinismo. Abbiamo Nanni.
Warrior: vite parallele: i migliori gladiatori bevono Coca Cola. E questa è Sparta.

Jacopo Conti
Habemus Papam:
pungente, piacevole e corretto. L'ironia di Moretti è ai massimi livelli, perfettamente amalgamata ad una ricostruzione realizzata con precisione (sottolineata, tra l'altro, da esponenti del Vaticano stesso). Peccato per il finale in sospeso.
The Tree Of Life: molto pretenzioso, forse troppo. Finisce con l'essere un film doppio: una parte - quella legata al microcosmo familiare - bellissima, con un ottimo Brad Pitt; l'altra - quella riferita all'infinito, allo spazio e alla dimensione onirica - più potente dal punto di vista dell'immagine ma meno puntuale e, forse, eccessiva.
Carnage: il teatro dentro il cinema. Due coppie di genitori si incontrano per discutere di un litigio tra i rispettivi figli; dall'iniziale falsa formalità dei rapporti, gradualmente, ci si ritrova dentro una isterica e amaramente divertente lite vera e propria. Consigliato agli amanti dei dialoghi di qualità.

Juxhin Myzyri
Midnight In Paris:
Rinocerontesco
Enter The Void: Extra-Vagante
Il Cigno Nero: Sottocutaneo, Ossessionante

Linda Grazia Pola
Il Cigno Nero:
Terribilmente Profondo
This Is England: Agrodolce
Carnage: Geniale

Luca Recordati
The Artist:
Lo Splendore
Melancholia: L'Angoscia
Faust: La Cupezza

Martina Pattonieri

L'Ultimo Terrestre:
l'incapacità di comunicare dell'uomo moderno come tesi di partenza per un film imperfetto ma incredibilmente sincero, surreale e spiazzante. La rappresentazione della natura umana, anche e soprattutto quella brutta, gretta e borderline, porta lo spettatore a confrontarsi con se stesso e con la società marcia in cui vive. Alcune sequenze e dialoghi (grazie Herlitzka) puramente geniali.
Melancholia: cinema come terapia per le nostre innate fobie e ansie, Lars ci ha abituati così. E qui si soffre, ci si angoscia e ci si deprime per tutta la durata della pellicola. Un film che vale la pena d'essere visto anche solo per gli incredibili tableau vivant iniziali e per il finale apocalittico. Cinema puro e fragile, bello.
L'Amore Che Resta: la morte che attrae e repelle, una storia d'amore impossibile, breve quanto intensa, tra due adolescenti fuori dal comune. La riflessione di Gus Van Sant si concentra sul legame ancestrale di amore e morte, ed emerge attraverso un fitto intreccio di simboli e citazioni che percorrono immagini e parole. I dialoghi scarni e taglienti fendono le scene pulite, geometricamente perfette, sullo sfondo di un freddo autunno americano.

Massimiliano Gavinelli
The Artist:
Il Nuovo Paradigma Di "Gemma"
Ruggine: Impeccabilmente Perfetto
Melancholia: Le Visioni Di Un Folle Esteta

Marco Sereno Dal Toso
This Is England:
Anticonformista e Realistico
I Primi Della Lista: Fantasioso e Garbato
Il Ragazzo Con La Bicicletta: Duro e Commovente

Melis Rossi
Miracolo a Le Havre:
Essenziale
Non Lasciarmi: Disturbante
Il Discorso Del Re: Perseverante

Paolo Quaglia
Faust:
cinema ai livelli più alti con contaminazioni di poesia.
Che Bella Giornata: lo spaccato sociale in chiave ironica dei primi anni zero.
Midnight In Paris: La Malinconia




lunedì 12 dicembre 2011

La Superclassifica Dell'Anno - 2011

Non l'hai messo dentro finchè non l'hai messo dentro.
Il momento è arrivato. E' vero che deve ancora uscire Clooney ma io uno che ha condiviso la stessa donna con Bobo Vieri non posso che squalificarlo a priori, se va bene posso metterlo fuori concorso. Ovviamente, ci sono delle esclusioni dolorosissime ma l'annata è stata ottima.

12 - One Day/Zack And Miri Make A Porno - Lone Scherfig/Kevin Smith

I due lati della medaglia. Amore e amicizia nelle loro derive melodrammatiche e dementi. La forma è agli antipodi ma la sostanza, il cuore è solo uno. One love.

11 - L'Ultimo Terrestre - Gian Alfonso Pacinotti

Primo tempo da 10, secondo da 5. Il volto allucinato e alienato dell'incredibile Gabriele Spinelli è quello di un Paese sputtanato e collassante. Se ancora non mi ammazzo è grazie al cazzo.

10 - Midnight In Paris - Woody Allen
Un inaspettato colpo d'ala. Woody trova il suo miglior alter-ego di sempre e torna ad affondare la commedia con la lama. Nostalgico, consapevole, per nulla rassicurante. What A Wonderful World.

9 - L'Amore Che Resta - Gus Van Sant

Mal di pancia e batticuore. Gus conclude il suo discorso su adolescenza e morte con una grazia autunnale e malinconica, cupissima e tenera. I will follow you into the dark.

8 - Warrior - Gavin O'Connor

Botte, santi panettoni. L'opera lirica più adrenalinica, il cinema più classico, coinvolgente ed entusiasmante possibile. Tom Hardy è una forza della natura. Eat you alive.

7 - The Artist - Michael Hazanavicius

Dove tutto ebbe inizio. Una spallata alle noiosissime tre dimensioni, andava bene anche se non fosse stato un film così brillante e irresistibile. Ma lo è. One Step Beyond.

6 - Habemus Papam - Nanni Moretti
La grande fuga. Moretti è una spanna sopra, un'altra categoria. Visionario, profondo, esilarante. Sono il migliore, me lo dicono sempre tutti.

5 - Il Ragazzo Con La Bicicletta - Fratelli Dardenne
Solo contro tutti. I Fratelli Dardenne smussano la loro pesantezza e regalano cinema puro e incontaminato. Leggiadro, autentico, struggente. Somewhere I Belong.

4 - This Is England - Shane Meadows

Shane Meadows, uno di noi. Il racconto di chi siamo, da dove veniamo e a cosa non andiamo incontro. Il rumore punk della fratellanza e del rifiuto. Nel silenzio un urlo che stordisce.

3 - A Dangerous Method - David Cronenberg

Destabilizzante. Conosco più gente che ha rifiutato questo film di quanta abbia votato Berlusconi. Nevroticamente erotico e anticonvenzionale. Have you ever been hated or discriminated against? I Have.

2 - Miracolo a Le Havre - Aki Kaurismaki
Poesia allo stato brado. Kaurismaki si fa beffa dello schifo intorno e pugnala il cinismo con la gioia di vivere e il rock dell'uomo della strada. You Shook Me All Night Long.

1 - Il Cigno Nero - Darren Aronofsky

Fuori di testa. Darren Aronofsky è fuori di testa. La forza immaginifica del cinema sporcata e violentata sulle punte sanguinanti della donna più bella del mondo e dei suoi incubi e delle sue ossessioni e niente è più vero. Se la mia pelle è in fumo, la tua soffoca.

Attore Dell'Anno: Owen Wilson (Come lo Sai, Libera Uscita, Midnight In Paris)

Amabile. Un uomo amabile che suscita simpatia naturale, al quale vorresti raccontare le cazzate e le delusioni. Quando un sorriso racconta un mondo.

Attrice Dell'Anno: Natalie Portman (Il Cigno Nero)

Il corpo. La vittima sacrificale perfetta per il genio debordante di un pazzo strepitoso. La donna più bella del mondo e la sua interpretazione violenta, indelebile.







Le Delusioni Dell'Anno - 2011

E' tempo di relax, è tempo di Santori.
Anticipo un po' i tempi ma d'altronde forse questo è il principale motivo per cui ho aperto sto robo. Da qui a Natale mi sbizzarrisco con classifiche e film natalizi. E, inoltre, annuncio clamorosamente che ci saranno collaborazioni. Ripeto, collaborazioni. Cominciamo con le cacate.

3 - This Must Be The Place - Paolo Sorrentino
Sorrentino resta il miglior regista italiano oggi ma il suo debutto internazionale è troppo programmatico e paraculo. Che ci vuole ad andare in America e a parlare di rockstar depresse e di lobby ebraiche? Una descrizione della provincia americana già vista mille volte, un Sean Penn alquanto indigesto. Dai Paolo, la prossima volta andrà meglio, anche senza i Talking Heads.

2 - Ladri Di Cadaveri - John Landis
Il genio della comicità demenziale e caustica scoppiato, scoppiatissimo. Uno di quei casi nei quali l'imbarazzo prevale sulla onesta, semplice bruttezza. Gags e situazioni comiche fuori tempo massimo, anacronistiche, di chi si è perso completamente cosa sia successo da 'Tutti pazzi per Mary' in poi. Un commiato doloroso di uno dei più grandi registi di sempre.

1 - La Pelle Che Abito - Pedro Almodovar
Siamo alla farsa. Pedro prende l'insana decisione di parodiare il suo cinema e ogni passaggio, ogni frammento diventa involontariamente esilarante. L'indiscreto fascino per l'orrore di un meraviglioso autore sull'orlo di una crisi di nervi. Peccato davvero, anche perchè Elena Anaya è una chica niente male ma Banderas, invece, è aldilà del bene e del male.

Peggior Attore: Antonio Banderas (La Pelle Che Abito)
Aldilà del bene e del male. Una sola espressione in un film del tutto sbagliato e paradossale.

Peggior Attrice: Paola Cortellesi (Nessuno mi può giudicare)
Una delle grandi incomprensioni del cinema italiano. Una buona comica scambiata per la Julia Roberts de borgata.




giovedì 1 dicembre 2011

Miracolo a Le Havre (voto 10) IL FILM DEL MESE

Come d'incanto, il cinema torna prepotentemente a regalare opere grandiose, destinate a durare e a fare la Storia. Come d'incanto, assistiamo a qualcosa che in modo indelebile segnerà le nostre esistenze, qualcosa sulla quale tornerà la nostra memoria per riassaporare i colori, le suggestioni e le emozioni che incendiano l'ultimo lavoro del regista finlandese Aki Kaurismaki, 'Miracolo a Le Havre'. Siamo di fronte al terzo grande capolavoro del nuovo decennio, dopo 'The Social Network' e 'Il Cigno Nero'. Se questi due sono espressioni della realtà circostante, degli incubi e delle ossessioni, delle relazioni virtuali e ipotetiche che caratterizzano il nostro vivere odierno, il film di Kaurismaki rappresenta la realtà come vorremmo che fosse, nella nostra utopia con la quale siamo cresciuti e che ha formato i nostri sogni, i nostri amori, le nostre speranze ultime a morire. Sembra un mondo parallelo quello raccontato da Aki, un mondo costruito con i materiali nostri preferiti, la solidarietà, l'umanità, l'amicizia, l'amore. Un mondo, però, fortemente ancorato all'attualità e all'antropologia che costituiscono la spina dorsale della società capitalista e classista: l'immigrazione, l'emarginazione sociale, la povertà sono la base narrativa del cinema di Kaurismaki. Il fatto che Aki abbia smussato tutte le imperfezioni ermetiche e non sempre intelleggibili delle sue opere precedenti ('L'uomo senza passato', 'Le Luci Della Sera'), abbia sostituito la riflessione esistenzialista con quella utopistica (e non favolistica, come ho letto in diversi commenti) e si sia completamente abbandonato a un ideale assoluto, testimoniato dal cognome del protagonista, non è un caso. Non è un caso che nel momento storico della presa di consapevolezza dell'abbandono di ogni impegno socio-politico, nel momento storico in cui i punti di riferimento per un mondo migliore sono Obama e Steve Jobs, Kaurismaki si sia voluto rifiutare in maniera categorica di aderire anche solo narrativamente a un compromesso così demolente. 'Miracolo a Le Havre' è, sotto tutti i punti di vista, una vera opera rock, concepito così come lo urla Jack Black in 'School of Rock': la vendetta nei confronti del potente. E, infatti, sono meravigliosamente coerenti, vivi, energici, puri i cinque minuti abbondanti che il regista dedica per riprendere l'esibizione di Little Bob, un ex cantante in declino che potremmo ritrovare tranquillamente sbronzo nel bar sotto casa. L'universalità è un'altra componente fondamentale di 'Miracolo a Le Havre': una storia che poteva essere raccontata da Chaplin e che si sarebbe potuta ambientare a Le Havre così come a Lampedusa, così come in tutti quei luoghi nei quali la nostra essenza di "gente di passaggio" viene nitidamente fotografata. Non ci sono parole per esprimere in maniera sufficiente la grandezza, l'importanza del doppio colpo di scena finale, che ribalta ogni possibilità di cinismo e di fatalismo. Anche i personaggi apparentemente cattivi sono coloro i quali respingono, senza remore, tutto ciò che è disumano. E, alla fine, gli umili e gli sconfitti si ritrovano insieme, coinvolti nella stessa barca a farsi forza reciprocamente, con l'orgoglio e la dignità di chi non cederà mai all'eventualità di una società che non ama. Bello e fuori dal tempo.

Emiliano Dal Toso


martedì 22 novembre 2011

Speciale Italians: Scialla!, Il Paese Delle Spose Infelici

E' un periodo particolare per il mercato cinematografico: non si sono mai viste così tante proposte di registi italiani, per lo più esordienti. Non riesco a capire da cosa abbia origine questo improvviso interesse nei confronti delle produzioni nostrane. Tanto meglio, soprattutto se si tratta di lavori, se non impeccabili, perlomeno stimolanti e interessanti. 'Scialla!' (voto 7) dello sceneggiatore e ora regista Francesco Bruni è un film tanto ruffiano quanto divertente e irresistibile. Se da un lato Bruni si abbandona a uno spaccato sociologico un po' superficiale dell'adolescenza, dall'altro regala dialoghi memorabili e momenti di grande intensità nei quali è molto facile rispecchiarsi per genitori e figli. Il risultato finale non sarebbe però tanto godibile se non fosse per la clamorosa interpretazione dello strepitoso Fabrizio Bentivoglio nei panni di un professore di lettere in pensione. L'attore milanese è riuscito nell'impresa di individuare il perfetto punto d'incontro tra il Jeff Bridges de 'Il grande Lebowski' e il Bill Murray di 'Broken Flowers'. Disilluso, caustico, un po' hippie e un po' radical-chic, il suo personaggio vale da solo il prezzo del biglietto, rendendo scoppiettanti e anche commoventi i duetti con il coatto deb Scicchitano e con la pornodiva Barbara Bobulova (anche lei, bravissima). Un rilancio in grande stile di un attore meraviglioso, spesso sottoutilizzato, capace di incarnare un ruolo ben scritto e finalmente inedito, che forse cancella definitivamente anni di muccinismo e di comencinismo. L'opera prima di Pippo Mezzapesa 'Il paese delle spose infelici' (voto 8), invece, risplende anche per quelle caratteristiche che sono apparse meno incisive nel lavoro di Bruni. Ambientato nei primi anni 90 in una piccola città della Puglia, il film tratteggia l'età adolescenziale, descrivendola nei suoi aspetti più autentici e controversi. I due giovani protagonisti possiedono rabbia e furore, candore e ingenuità. Fantasticamente sorretto da una fotografia stupefacente, Mezzapesa riesce nell'impresa rara di creare immagini in grado di restare nella memoria. Uno di quei film nei quali la grandissima abilità tecnica è al servizio del contenuto: una descrizione impietosa del meridione, tra delinquenza e destini già scritti; un verace racconto di formazione, nel quale la scoperta dell'universo femminile si fa idealizzazione e i sentimenti sono una viva, possibile alternativa alla disperazione. Il giovane regista lascia il segno con uno stile originale e folgorante, mentre la bellissima, fulminante Aylin Prandi è il valore aggiunto di un grandissimo esordio.

giovedì 17 novembre 2011

The Twilight Saga: Breaking Dawn Parte 1 (voto 5)

La saga di 'Twilight' prende le distanze dalle varie saghe del signore degli anelli, delle guerre stellari e degli harrypotter per il fatto che il vero centro del discorso non sono i temi più classici del fantasy o della fantascienza. Infatti, gli elementi fantastici e orrorifici che vengono utilizzati nei diversi episodi sono puro contorno per ampliare il più possibile la fetta di pubblico di un prodotto che è palesemente commerciale. Il punto nevralgico del racconto twilightesco sono indubbiamente tutti quei sintomi che legano l'adolescenza e la post-adolescenza all'esperienza amorosa e sessuale. Non l'ho mai letto da nessuna parte in maniera esplicita ma il motivo di maggior interesse per cui milioni di ragazzi e, soprattutto, ragazze si sono innamorati di questa storia divisa in cinque capitoli cinematografici è il sesso. Sesso che viene continuamente rimandato, atteso, sospirato e che è la chiave di lettura implicita di diversi spunti narrativi. La diversità del vampiro Edward non è altro che la rappresentazione di un universo maschile che non ha più punti di riferimento machisti e si trova in un costante conflitto con quello femminile, rappresentato da Bella, che rimane sedotta sempre e solo per esigenze ormonali, sia da Edward sia, soprattutto, dal fisicato amico licantropo Jacob. Ci sono voluti quattro film perchè i due protagonisti finalmente copulassero e, difatti, 'Breaking Dawn' perde quasi immediatamente quell'alone di eterna attesa e di tensione erotica che caratterizzava gli episodi precedenti. Non c'è bisogno che nessuno stia a sottolineare che la saga di 'Twilight' ha pochissima qualità meramente cinematografica (tranne il primo bel lavoro della Hardwicke): dalla recitazione molto approssimativa dei protagonisti ai dialoghi da telefilm (splendido, però, il lavoro che viene fatto per le location e la fotografia). Le qualità di 'Twilight' sono esclusivamente contenutistiche, sia pur espresse con un mediocre linguaggio filmico. Personalmente, però, trovo che prediligere il contenuto alla forma non sia assolutamente poco, in particolar modo trattandosi di un'operazione finalizzata esclusivamente ai numeri da botteghino. E, dunque, anche in questo quarto episodio non mancano alcuni aspetti interessanti. Innanzitutto, l'attrazione/conflitto fisico di Edward e Bella viene meno in luogo di una tematica quasi cronenberghiana, ovvero il contagio che dà luogo al concepimento del mostro. Qualche settimana dopo aver consumato il proprio amore, la protagonista rimane immediatamente incinta di un Essere del quale non si può sapere se la sua natura sia umana oppure vampiresca. Questo porterà a un suo terribile spossamento fisico che culminerà nella sua definitiva morte da umana. Non va sottovalutata nemmeno la presenza dell'efficacissimo personaggio di Jacob, che rappresenta l'impossibilità di un amore esclusivo e si pone soltanto come una apparente alternativa normale a Edward, dal momento che anche la sua natura è a metà strada tra uomo e animale. Per tutto il film, la sua costante presenza di terzo è funzionale ad una ulteriore evidenziatura della demolizione del coronamento utopistico dell'innamoramento. Queste sono solo alcune chiavi di lettura di un racconto che avrà pure "una messa in scena scolastica e approssimativa" (mereghetti dixit) ma che al suo interno riserva allegorie e riflessioni ben più complesse di quanto possa apparire ad una prima superficiale analisi.

mercoledì 16 novembre 2011

Festival di Roma - Speciale Italians: La Kryptonite Nella Borsa, I Primi Della Lista, Il Mio Domani

Mi va abbastanza di parlare di tre film italiani ora nelle sale, che sono stati presentati all'ultimo festival del cinema di Roma. Tre opere sulla carta molto interessanti ma dai risultati non proprio identici. Infatti, il primo che ho visto, 'La kryptonite nella borsa' (voto 5) dell'esordiente Ivan Cotroneo l'ho trovato piuttosto debole, eccessivamente programmatico e furbetto. Ci sono parecchi passaggi divertenti e godibili (grazie, soprattutto, alla coppia hippie Capotondi - De Rienzo) ma l'impressione finale è che Cotroneo abbia voluto privilegiare lo stile un po' wesandersoniano con personaggi stilizzati, look e ambienti impeccabili e stilosi alla sostanza. E alla fine non resta altro che una descrizione dell'ambiente familiare trita e ritrita, consolatoria e perbenista. Va decisamente meglio con un altro esordiente, l'italianissimo Roan Johnson, che con 'I primi della lista' (voto 8) firma una vera commedia all'italiana, leggera, garbata, sottilmente appuntita e affettuosamente malinconica. Un'opera prima in equilibrio tra autoironia e abilità narrativa, tra racconto di formazione e commedia degli equivoci, interpretata magnificamente dai tre protagonisti (tra i quali, un Claudio Santamaria davvero esilarante). Una delle sorprese della stagione, un American Graffiti alla pisana che prende in giro con rispetto e intelligenza una buona fetta di quell'intellettualismo impegnato di sinistra del quale, francamente, cominciamo a essere tutti un po' stanchi. Toni più drammatici e riflessivi sono, invece, quelli utilizzati dalla bravissima Marina Spada per il suo terzo lungometraggio, 'Il mio domani' (voto 7). Il film si regge, in modo particolare, su una prova intensissima di Claudia Gerini, splendida quarantenne in carriera, che scopre che il suo lavoro serve a licenziare la gente e che i suoi rapporti interpersonali non sono certamente soddisfacenti. La Spada ha un talento unico nel descrivere Milano e le sue solitudini, i suoi spazi vuoti, i suoi silenzi, le sue assenze (da recuperare il bellissimo 'Come l'ombra'). Per farlo, adotta uno stile da prendere o lasciare, molto antonioniano, con diversi piani sequenza e visivamente molto efficace. Per quanto non sempre l'intreccio narrativo sia all'altezza del talento tecnico e descrittivo, 'Il mio domani' è la conferma di una delle poche autrici con una impronta molto personale e riconoscibile e con una capacità di raccontare i luoghi senza pari nel panorama italiano.

sabato 12 novembre 2011

One Day (voto 8)

Il tema dei rapporti interpersonali tra uomo e donna non è certo nuovo, da 'Harry ti presento Sally' al più recente 'Amici di letto' la domanda se sia possibile un'amicizia senza implicazioni sentimentali è stata proposta ormai in tutte le possibili salse, e la risposta è generalmente che alla fine l'amore trionfa, malgrado forse nella vita vera vada diversamente. 'One Day' utilizza un meccanismo molto originale per raccontare la storia d'amore e d'amicizia di due ventenni nell'Inghilterra degli anni Ottanta: focalizzarsi su un solo giorno all'anno, esattamente il 15 luglio, in un arco temporale che va dal 1988 al 2011. Va detto che la prima parte del film ricorda eccessivamente (seppur involontariamente, suppongo) un bel gioiellino italiano di qualche anno fa, 'Dieci Inverni', che raccontava la stessa identica storia in meno tempo ma con location diverse (Venezia e Mosca). 'One Day', invece, è ambientato tra Londra, Edimburgo e Parigi e la regista Lone Scherfig riesce a trasmettere con grande eleganza e cura dei dettagli tutto il fascino e la bellezza di queste splendide città. Il film non convince immediatamente. Troppo incerottato tra un protagonista maschile piuttosto antipatico (Jim Sturgess, meglio che in 'Across the universe') e una Anne Hathaway come sempre smorfiosetta, e per una buona mezz'ora ci chiediamo per quale motivo dovremmo identificarci in due personaggi così fighetti e perbene. Poi, piano piano, 'One Day' prende letteralmente il volo e da una commedia sentimentale già vista si trasforma in un caldo melo d'altri tempi. I due protagonisti entrano sotto pelle, non sono più i figli di papà della prima mezzora ma due bellissimi personaggi di un romanzo appassionato, gestito magnificamente dalla Scherfig in ogni minimo particolare: non solo le location, ma la colonna sonora, i ruoli di contorno, i dialoghi, tutto quanto riporta a un cinema rigoroso ma di gran classe, come sembrava ormai non se ne facesse più. Ed è proprio questo gusto retro che fa innalzare 'One Day' dalle basse commedie sentimentali degli ultimi anni. Insieme a 'Non lasciarmi' di qualche mese fa, rappresenta il ritorno del melodramma classico, il bisogno di un cinema che non si riduca all'ennesima battuta modaiola sui gay ma che recuperi e insegua un genere e una tradizione che hanno fatto la Storia. E anche noi, solitamente duri, non abbiamo potuto evitare di emozionarci di fronte a una storia d'amore così autentica, reale, struggente.

Foto 'One Day': l'eterna lotta tra amicizia e amore

Warrior (voto 8) IL FILM DEL MESE

Non è certamente l'originalità uno dei fattori vincenti del film di Gavin O'Connor. Il regista americano recupera un classico topos del cinema americano, ovvero il riscatto (sociale, economico, umano) attraverso il successo sportivo che si afferma mediante il duro allenamento fisico, e lo connubia a una storia di famiglia frantumata, un padre, ex marine ed ex alcolizzato, e due fratelli, l'uno disertore della guerra in Iraq e incattivito col mondo, e l'altro professore di fisica in crisi economica disposto a tutto pur di assicurare una esistenza dignitosa alla propria famiglia. Entrambi si ritroveranno a scontrarsi l'uno contro l'altro nella finale di un torneo di MMA (arti marziali miste), certamente non proprio la nobile arte che è stata celebrata in 'Rocky' e in 'Toro scatenato' ma qualcosa di più vicino al kick-boxing delle pellicole con Jean Claude Van Damme. Ci vuole, dunque, un talento straordinario per riuscire a cavare fuori un grandissimo film da un soggetto così risaputo. E Gavin O'Connor dimostra di avercelo. 'Warrior' è un film di due ore e venti orchestrato da qualcuno che del cinema ama il virtuosismo tecnico quando fa rima con contenuto, con sostanza. Da questo punto di vista, Michael Mann ha ridisegnato il cinema d'azione con capolavori quali 'Heat' e 'Collateral'. E per questo mi distacco da tutti quei cinefili che hanno visto in Winding Refn, il regista di 'Drive', il suo degno erede (là è solo tecnica, il resto è un puro pretesto). Piuttosto, O'Connor dimostra di essere un allievo meraviglioso. 'Warrior' trasuda di carne al macello come 'Fight Club' e di poetica da strada come il miglior Spike Lee. Non c'è un attimo di tregua, nè nella prima parte "familiare" gestita con una macchina a mano rudimentale, nè nella entusiasmante seconda parte nella quale le riprese aerodinamiche regalano alcuni dei massacri fisici più crudi e autentici mai visti sullo schermo. E', dunque, l'essenzialità stilistica e contenutistica di O'Connor che sorprende. Non c'è spazio per storie o personaggi di secondo piano (per dire, c'è solo una donna in tutto il film) ma solo una grandissima attenzione a ogni minimo dettaglio relativo ai tre protagonisti, interpretati magnificamente dallo stupendo vecchio Nick Nolte, dall'ottimo Joel Edgerton ma, soprattutto, dal bestiale (in tutti i sensi) Tom Hardy. Rispetto al recente 'The Fighter', più canonico e paraculo, 'Warrior' è soprattutto un grezzo e grandioso inno allo sport. Impossibile non entusiasmarsi di fronte alla forza di volontà del fratello più vecchio di "rimettersi in carreggiata", consapevole di essere fisicamente meno prestante dei concorrenti ma confidando soltanto nella propria straordinaria tecnica. Non solo, 'Warrior' è anche una clamorosa fotografia di oggi: lo spunto narrativo proviene, infatti, da una parte dal senso di frustrazione per la partecipazione a una delle sporche guerre di Bush, dall'altra dalla disperazione causata dalla crisi economica. E quando si ha a che fare con un cinema così pieno e senza concessioni, non si può far altro che alzarsi in piedi e applaudire. Bello e Cattivo.

sabato 5 novembre 2011

I Soliti Idioti (voto 6)

Pietro Valsecchi non è una bella persona. L'ho conosciuto durante il Festival di Bellocchio a Bobbio e mi sono trovato di fronte a un personaggio veramente cinepanettonesco, il classico produttore che vuole spennare il più possibile le sue gallinelle dalle uova d'oro (in questo caso, Checco Zalone) e mettere sempre al di sopra di tutto il tornaconto. Pietro Valsecchi non è uno stupido. Ha capito molto più di altri che cosa sia l'Italia oggi e dove sta andando e ha fiutato immediatamente il profumo dei soldi che gli avrebbe portato il talento straordinario di Checco Zalone. Il fatto che Valsecchi sia il produttore de 'I soliti idioti' sta a dimostrare che ha una comprensione dell'Italia di oggi decisamente superiore a un qualsiasi critico cinematografico intellettualoide che scambia per capolavoro un film di una banalità agghiacciante come 'Corpo Celeste' di Alice Rohrwacher. 'I soliti idioti' non è cinema, non è arte, è una roba. Come programma televisivo è inattaccabile, come prodotto cinematografico è la negazione di ogni possibile concezione di cinema inteso come sviluppo narrativo. Abbiamo diversi sketch della coppia gay (uno che pensa di essere incinto e l'altro che passa il tempo davanti al cellulare), della famiglia borghese piena di pregiudizi e del postino metallaro disadattato che si trova sempre di fronte a imprevisti burocratici. E soprattutto, abbiamo gli eroi della serie, ovvero Ruggero De Ceglie e suo figlio Gianluca, gli unici a cui la sceneggiatura ha previsto un minimo di trama (delirante, Ruggero impedisce il matrimonio di Gianluca perchè vuole, per scommessa, che faccia sentire la "presenza" alla modella di 'Smutandissimi'). Chi ama la comicità demenziale, avrà pane per i suoi denti. E' evidente che siamo di fronte a un prodotto di bassa qualità cinematografica ma sbolognare in due parole 'I soliti idioti' sarebbe un errore. Per quanto lontani dal genio assoluto di Zalone, Biggio e Mandelli sono lo specchio di una Italia eccessiva, esasperata e disperata. Prendiamo l'esempio dei due preti che vogliono modernizzare la Chiesa (assenti nel "film", peccato, li avremmo preferiti al posto della debole coppia borghese): un solo sketch è cento volte più graffiante e corrosivo di due ore di corpoceleste o di un qualsiasi film della comencini (così come lo era il grandioso cardinale di Tullio Solenghi in 'Che bella giornata'). Credo che il cinema debba essere inteso come mezzo per scuotere, per farci vedere il nero là dove sembra tutto bianco e il bianco là dove appare tutto nero. Un pilastro del cinema italiano e, diciamolo, della sinistra italiana come Nanni Moretti lo sa bene e, ogni volta, un suo film è sempre diverso da quello che ci si aspetta. Quando, invece, vengono celebrati "autori" che ripetono quello che ci sentiamo dire da anni e che piacciono a me, a te e a qualche lettore di Repubblica, dovremmo cominciare a renderci conto che c'è un serio problema di incapacità di lettura della realtà. A quel punto, io mi tengo stretto quelle risate liberatorie che la bravura di due simpatici comici come Biggio e Mandelli riescono a dare con la loro sana, ignorante e rigeneratrice demenza.

domenica 30 ottobre 2011

La Peggior Settimana Della Mia Vita (voto 6)

Non è da confendersi con le altre commedie italiote che hanno sbancato recentemente i botteghini (Brizzi, Benvenuti al Sud, ecc.) l'opera prima del commediografo Alessandro Genovesi 'La peggior settimana della mia vita'. Fin da subito, è evidente che il tentativo è quello di trasportare in versione nazional-popolare la tradizione della screwball comedy, utilizzando la classica contrapposizione di personaggi diversissimi dal punto di vista sociale/ideologico/umano e riempiendo la vicenda di situazioni paradossali, giocate più sulla fisicità e sul linguaggio del corpo degli attori che sul piano verbale, privilegiando lo slapstick alla battuta. Gli esempi celebri di questo tipo di comicità sono numerosissimi e vanno da Buster Keaton e Charlie Chaplin a Mister Bean e Benny Hill. In Italia, abbiamo avuto un poeta di questo tipo di comicità come Paolo Villaggio, che con i vari fantozzi rimane un oggetto piuttosto raro e forse da identificare del tutto, dal momento che c'è ancora chi non riconosce pienamente il genio e la forza dirompente del suo personaggio, almeno nei suoi primi film. Per il resto, la tradizione della commedia italiana ha sempre preferito il dialogo, la battuta, il tormentone alla comicità del corpo. Oltre a Villaggio, ci sono state altre eccezioni come Massimo Boldi, Antonio Albanese e, ora, Fabio De Luigi. Trovo che De Luigi abbia un potenziale comico davvero straordinario ma che ancora non sia stato compreso o sfruttato del tutto perchè sempre relegato alla solita macchietta del fidanzato goffo e tontolone. Dopo i vari sketch televisivi di 'Love Bugs' e i personaggi di Brizzi, il rischio è che al cinema rimanga sempre vittima di questa figurina e che il meglio possa essere gustato soltanto recuperando le vecchie puntate di 'Mai Dire Gol' (ricordate Bastilani, Fabius o l'ingegner Cane?). Anche ne 'La peggior settimana della mia vita' il personaggio è lo stesso. Il film è quasi un remake di 'Ti presento i miei' e va, dunque, apprezzato che Genovesi abbia provato a rivolgersi a modelli comici inediti per il panorama italiano. A parte il discorso su De Luigi, Genovesi non poteva scegliere un cast migliore. Cristiana Capotondi conferma di essere assolutamente adorabile e di essere la migliore attrice italiana possibile per una commedia, Siani utilizzato come personaggio di contorno è impeccabile e i genitori Antonio Catania e Monica Guerritore sono due che conoscono piuttosto bene il mestiere. Purtroppo, malgrado le idee, i modelli, gli attori, non tutto funziona alla perferzione. Perchè alcune gag sono riuscite ma altre no. Perchè la seconda parte è un po' tirata via. Perchè Genovesi non ha il coraggio di spingere fino in fondo il pedale della cattiveria e, alla fine, il film si allinea con tutte le altre prevedibili produzioni nostrane. E si esce dal cinema un'altra volta con il dubbio che certe cose le sappiano fare tanto bene solo Oltreoceano e con la certezza che ancora stiamo aspettando qualcuno che faccia uscire il cinema italiano leggero dal tunnel del "sole-cuore-amore".

martedì 25 ottobre 2011

Una Separazione (voto 7)

Il cinema iraniano continua a mostrarsi come un prodotto molto vivace, capace di documentare una realtà piena di contraddizioni e di ingiustizie con grande sensibilità umana e psicologica. Dopo padre e figlia Makhmalbaf (autori di film come 'Viaggio a Kandahar' e 'Lavagne') e, soprattutto, dopo Jafar Panahi (Leone D'Oro a Venezia per 'Il cerchio' e autore del bellissimo 'Il palloncino bianco'), scandalosamente condannato dalle autorità iraniane a sei anni di reclusione a causa di partecipazione ai movimenti di protesta contro il regime, scopriamo un regista come Asghar Farhadi, arrivato alla sua seconda opera dopo 'About Elly'. 'Una separazione' prende decisamente le distanze dal cinema allegorico dei conterranei di Farhadi e si rivela come un film di grandiosa concretezza, sorretto da un interessante intreccio narrativo. Da un certo punto di vista, è giusto considerarlo un lavoro strepitoso e l'Orso D'Oro al Festival di Berlino non può che essere giustificato dal fatto che fare cinema di questo livello all'interno di un contesto come la società iraniana, descrivendola selvaggiamente senza filtri e senza ipocrisie, è un atto coraggioso di libertà e un inno al cinema e all'arte. Se fossi un critico cinematografico e non un semplice appassionato di cinema col suo blog un po' da nerd, mi fermerei qua e consiglierei caldamente 'Una separazione' perchè è cinema importante, cinema che fa conoscere, cinema che insegna. Detto questo, non posso negare che il flusso imponente di dialoghi e di parole che vengono utilizzati da Farhadi e l'espediente narrativo che occupa tutta la parte centrale del film per raccontare le discutibilissime procedure legali della giustizia iraniana si rivelino piuttosto estenuanti e faticose. In alcune recensioni, è stato tirato in mezzo addirittura Alfred Hitchcock. Ma dove? Un conto è comprendere un determinato tipo di cinema e contestualizzarlo, un altro è azzardare paragoni del tutto fuori luogo che rischiano soltanto di deludere le aspettative dello spettatore. Preso per quello che è, 'Una separazione' è un buon film che da una parte descrive una cultura ottusa in maniera vivida e cruda, dall'altra suggerisce che la verità non sta mai soltanto da una parte, che non esistono buoni o cattivi ma soltanto parti che si dilaniano per sopravvivere. A essere veramente straordinaria è l'interpretazione degli attori protagonisti, che hanno ancora più giustamente vinto l'Orso d'Argento. Per concludere, 'Una separazione' può essere un buon esempio per definire la parola "interessante". I Maestri del Cinema, forse, però stanno da qualche altra parte.

lunedì 17 ottobre 2011

Amici Di Letto (voto 7)

"Lei è il sesso". Così Vincent Cassel definisce Mila Kunis nel capolavoro cignonero e direi che affermazione non potrebbe essere più azzeccata, considerando oltretutto che proviene dall'uomo sposato con una delle donne più belle del mondo, quindi si tratta di uno che in materia ne capisce. E ne capisce senz'altro anche Justin Timberlake che in 'Friend with benefits' (titolo originale molto più cool) la sceglie come "trombamica", termine che evito di spiegare poichè immagino che i miei lettori abbiano già una cultura tale da sapere di cosa si sta parlando. Beh, che dire, il film è molto carino e divertente. Già in 'Easy Girl' Will Gluck aveva dimostrato di saper tenere un gran ritmo per le battute e per gli incastri comici e in 'Friends with benefits', inoltre, può servirsi di un gruppo di caratteristi davvero sensazionale (Richard Jenkins e, soprattutto, il solitamente macho Woody Harrelson nei panni di un caporedattore sportivo omosessuale). Justin non è male, non è graffiante come in 'The Social Network' ma non possiamo negare che la carriera attoriale non l'abbia tentata a caso. Certo, il suo sex appeal per il pubblico femminile non è una novità e, dunque, anche le sue più grandi fan dovranno riconoscere che rimane decisamente oscurato dalla incredibile Mila Kunis. Il fatto è che Mila non è solo una gnocca strepitosa ma possiede anche un talento comico fa-vo-lo-so (e poi in Italia ci entusiasmiamo per le smorfie delle cortellesi, ma dai). Già da subito dimostra di essere una vera mattatrice, come nella scena delle imitazioni dei diversi approcci nei colloqui di lavoro. Tiene benissimo il ruolo comico così come è assolutamente credibile nella sua evoluzione in "trombamica" pentita, adattandosi perfettamente nel genere più canonico della commedia sentimentale. E il fatto che sia un'attrice a tutto tondo è già dimostrato dal capolavoro cignonero, nel quale Aronofsky le regala un ruolo potentissimo e indimenticabile (e se ne era accorto anche un certo Quentin Tarantino che le ha assegnato il Premio Mastroianni a Venezia). In questo momento storico, Mila può fare tutto quello che vuole: nascendo artisticamente come doppiatrice di Meg Griffin possiede anche quell'alone di autoironia da farla piacere proprio a chiunque. Inoltre, Maxim l'ha appena posizionata al secondo posto tra le donne più sexy del mondo. Mi fermo qui. Mi rendo conto di essermi un po' lasciato prendere dall'entusiasmo del momento nei confronti di una donna meravigliosa e di aver trascurato gli aspetti critici e le diverse chiavi di lettura di un bellissimo film come 'Friends with benefits'. Ma forse, in fondo, la chiave di lettura possibile per 'Friends with benefits' è una sola: Mila Kunis.

sabato 15 ottobre 2011

This Must Be The Place (voto 5)

Paolo Sorrentino è il miglior regista italiano oggi ma, va detto subito, 'This Must Be The Place' non è un film riuscito. Esistono senz'altro motivazioni valide che permettono di perdonare il regista partenopeo di fronte alla sua prima opera girata in lingua inglese e con una produzione internazionale. Innanzitutto, tornare dietro alla macchina da presa dopo 'Il Divo' non è certo facile dal momento che si è trattato di un capolavoro riconosciuto all'unanimità. In seguito, presentarsi di fronte a un nuovo pubblico (in primis quello americano, è evidente) richiede una notevole attenzione a non sbagliare mira, a individuare precisamente quali possano essere i temi più in voga per conquistare una nuova fetta di spettatori (la vendetta, l'Olocausto, le lobby ebraiche). Ed è proprio questa eccessiva programmaticità che impedisce di accendere 'This Must Be The Place'. Il regista ha preferito sfoggiare la sua capacità tecnica e la sua visionarietà piuttosto che concentrarsi sulla sostanza dei contenuti e sulla necessarietà delle emozioni. I virtuosismi tecnici che infiammavano i suoi precedenti lavori erano assolutamente funzionali alle vicende dei protagonisti, rivelandosi ora ipnotici ('Le conseguenze dell'amore'), ora caustici ('L'amico di famiglia'), ora adrenalinici ('Il Divo'). Il grande rischio di una tale eccezionalità tecnica è la caduta nel manierismo ed è, purtroppo, quello che succede in 'This Must Be The Place'. I movimenti di macchina e le diverse invenzioni di regia se non sono supportati da una narrazione veramente interessante non possono che rivelarsi puri leziosismi. Ed è anche questa un'altra grande lacuna: la vicenda non riesce mai a coinvolgere pienamente. Il personaggio di Sean Penn (sopra le righe) non ha nè il maledettismo neoromantico dei personaggi che venivano meravigliosamente interpretati da Servillo ma nemmeno la mostruosità fisica e umana di Rizzo ne 'L'amico di famiglia'. Il protagonista Cheyenne non affascina e non è in grado di far creare quell'empatia con lo spettatore che anche i personaggi più sgradevoli dei precedenti lavori riuscivano a trasmettere. Una scena, in particolare, può essere emblematica: lo sfogo da rockstar pentita di fronte a Byrne vorrebbe avere la forza dirompente di quelli di Tony Pisapia e di Giulio Andreotti ma non è altro che una banale riesumazione dei più classici luoghi comuni sullo show business. A deludere veramente, dunque, è la scrittura del film e questo sinceramente non c'era da aspettarselo. Paradossalmente, un regista decisamente meno talentuoso, più conservatore e retorico come Muccino era riuscito nella sua prima opera "straniera" ('La ricerca della felicità') a non ricercare il numero a effetto ma semplicemente a raccontare una storia di buoni sentimenti che si sposava perfettamente con l'ideale dell'american dream. Sorrentino, invece, si addentra superficialmente nella descrizione di una provincia americana nei suoi lati più desolati e insensati (vedi l'indiano che si fa lasciare in mezzo all'autostrada) già inquadrata da altri grandi registi con ben maggiore sensibilità (Wenders, Coen, Payne ma pure Cameron Crowe). Niente di grave, Sorrentino ha già ampiamente dimostrato il suo talento e non ho dubbi che nelle prossime opere avrà modo di regalarci ulteriori conferme.

martedì 11 ottobre 2011

Top Ten Anni 90 e Zero Italians (per chi deve scaricare e non sa proprio che vedersi)

Anni 90

1 - 'La Vita è Bella' di Roberto Benigni (1997)

2 - 'Il Ladro Di Bambini' di Gianni Amelio (1992)

3 - 'Totò Che Visse Due Volte' di Daniele Ciprì e Franco Maresco (1998)

4 - 'Ovosodo' di Paolo Virzì (1997)

5 - 'Mediterraneo' di Ganriele Salvatores (1991)

6 - 'Tutti Giù Per Terra' di Davide Ferrario (1997)

7 - 'Lucignolo' di Massimo Ceccherini (1999)

8 - 'La Scuola' di Daniele Luchetti (1995)

9 - 'Radiofreccia' di Luciano Ligabue (1998)

10 - 'Viaggi Di Nozze' di Carlo Verdone (1995)


Anni Zeri

1 - 'Il Divo' di Paolo Sorrentino (2008)

2 - 'L'Ora Di Religione' di Marco Bellocchio (2002)

3 - 'I Cento Passi' di Marco Tullio Giordana (2000)

4 - 'Gomorra' di Matteo Garrone (2008)

5 - 'Il Caimano' di Nanni Moretti (2006)

6 - 'Dieci Inverni' di Valerio Mieli (2009)

7 - 'Non Pensarci' di Gianni Zanasi (2007)

8 - 'Mio Fratello è Figlio Unico' di Daniele Luchetti (2007)

9 - 'Dopo Mezzanotte' di Davide Ferrario (2004)

10 - 'Tutta La Vita Davanti' di Paolo Virzì (2008)