sabato 29 settembre 2012

Reality (voto 8) IL FILM DEL MESE

Per molti, Matteo Garrone è il Numero Uno, per altri il Numero Due, per altri ancora non è nemmeno da Top Ten. Io lo trovo un bravo regista, un possibile grande regista, che ha girato almeno due buoni film ('L'imbalsamatore' e 'Gomorra') e uno molto brutto ('Primo Amore'). 'Reality' è il suo migliore. L'autore romano non mette al centro del suo discorso l'imbarbarimento dei tempi, evita qualsiasi discorso retorico sull'influenza della televisione come concausa del decadimento culturale. Pone, piuttosto, delle domande più interessanti e stimolanti: perchè ammiriamo quel mondo? Perchè ne siamo affascinati e perchè lo viviamo come un riconoscimento, come un punto d'arrivo? Per farlo, prende le parti di Luciano Ciotola, un simpaticissimo pescivendolo napoletano, con moglie e tre figli a carico. Luciano è uno scugnizzo, un bravo ragazzo, che ama la sua famiglia, attaccato alla sua gente. Accetta di fare un provino per partecipare al Grande Fratello perchè lo vogliono le sue bambine, perchè è una semplice opportunità, perchè non gli importa più di tanto ma se arriva la chiamata tanto meglio. Come un germe, però, la pazza idea di far parte della Casa, di quel mondo, lo invade fino al punto da non fargli più riconoscere realtà e finzione. I mendicanti diventano delle spie mandate dalla televisione per testare il suo grado di "personaggio", di commerciabilità; le clienti al banco del pesce potrebbero essere anche loro delle selezionatrici; addirittura un grillo in casa potrebbe essere lì apposta per osservarlo. Il comportamento del protagonista non è, però, il risultato degenerativo della società dell'apparire. Si tratta, invece, del desiderio umano di essere catapultati al centro del mondo, di venire finalmente riconosciuti dagli altri, dalle persone che vivono intorno a te. Un desiderio di dare importanza a se stessi, perchè c'è qualcun altro che ti riconosce. Da questo punto di vista, 'Reality' non è come potrebbe erroneamente sembrare un film che fotografa l'attualità (e se lo fosse, sarebbe fuori tempo massimo), bensì una riflessione antropologica sulla fama come possibile svolta, come certificazione del proprio valore di essere umano. Una riflessione amara, certamente, ma che non ha a che fare con la plastificazione dei tempi. A differenza dei protagonisti precedenti di Garrone, Ciotola è un buono. Lo spettatore tifa per lui, perchè arrivi la chiamata tanto attesa da "quelli del GF" (drammatica, ad esempio, la scena dello scherzo telefonico dell'amico). Garrone non denuncia, ma constata, prende atto del fatto che il mondo della televisione possa rappresentare un mondo magico, fatato, per tutti coloro che non possiedono gli strumenti necessari per rifiutarlo. A tal proposito, 'Reality' è geniale e straordinario per l'utilizzo delle musiche e della fotografia. Le prime sembrano rubate da un film di Tim Burton; la seconda regala un immaginario da cartone animato della Pixar. Tutto questo malgrado Garrone sia un regista essenziale, certamente non un virtuoso (a differenza di Sorrentino). Non esistono scene madri, soltanto tanti segmenti di vita quotidiana. Due sequenze, però, sono di grandissimo cinema: l'introduzione bollywoodiana del matrimonio; il finale "spettrale" all'interno della Casa. Non ci meraviglieremmo se 'Reality' venisse frainteso come un film non abbastanza graffiante; non vuole graffiare, ma ricercare. Bello e, a suo modo, Cattivo.

Emiliano Dal Toso




venerdì 28 settembre 2012

Tony Scott Gallery: Nemico Pubblico

Nel ricordare il compianto Tony Scott, chiuderemo questa Gallery con uno dei suoi film più riusciti, alla pari di 'Una vita al massimo' e 'Spy Game': 'Nemico Pubblico'. Innanzitutto, salta all’occhio immediatamente il magnifico cast, che vede un giovane Will Smith affiancato a un vecchio leone come Gene Hackman, che dà spesso il meglio di sè negli action movie. Solo questo basterebbe per vederlo. Un giovane avvocato (Will Smith) entra in possesso, senza saperlo, di una videocassetta che incastrerebbe un alto dirigente del NSA (National Security Agency) per l’omicidio di un politico. Non appena entreranno in gioco gli uomini della NSA, lo braccheranno, rovinandogli la vita, finché non comparirà un ex agente segreto (Gene Hackman) che lo aiuterà a salvarsi. Tony Scott è un maestro del action\thriller movie. Negli anni ’80 e ‘90 ha fatto scuola a tal punto che, ancora oggi, molti registi cercano di riprenderne lo spirito, spesso fallendo. Questo film uscì nel ’98 quando ancora internet, i social networks e la privacy informatica non erano entrati nel vocabolaro della gente. E’ proprio il tema della privacy, la paura che ognuno possa essere controllato a distanza, senza nemmeno accorgersene, il fulcro di questo thriller. Bravissimo il regista a porsi delle domande che ad oggi non trovano ancora risposta,  ma soprattutto, è ancora più bravo per l’uso di una regia frenetica che ti tiene incollato per tutti i 130 minuti della pellicola. È proprio questa particolare regia, con riprese dall’alto, aerodinamiche (il film è costato la bellezza di $90,000,000, che all’epoca erano una cifra stratosferica al contrario di oggi), la sua peculiarità, assieme e soprattutto alla scelta non banale di parlare di temi che sarebbero diventati cruciali nel futuro, inserendoli in un thriller. Cosa assai particolare per un lavoro in cui l’azione la fa da padrone assoluto. Di sicuro, Tony Scott non entrerà nei libri di storia del cinema dalla porta principale, ma se ci fosse una sezione riguardante i film d’azione\thriller, meriterebbe più di una semplice menzione.

Luca Recordati



lunedì 24 settembre 2012

Tony Scott Gallery: Spy Game

In questa pellicola, Tony Scott ci consegna una perla rara del cinema d'azione, sicuramente uno dei suoi migliori lavori. La narrazione ha inizio nel 1991, e la scena iniziale ci mostra l'arresto Tom Bishop (un buon Brad Pitt) in Cina. Già agente della CIA, Bishop ha un collega che gli è molto affezionato nell'headquarter statunitense che, ovviamente, cercherà di trarlo in salvo a distanza dai pericolosissimi cinesi. Si tratta di un certo Natan Muir: un vecchio saggio dell'Intelligence al suo ultimo giorno di lavoro interpretato da un rugosissimo (ma sempre più bello) Robert Redford. A parte la prima scena, che funge da prologo e dà inizio alla giornata in cui è ambientato il film, la scansione temporale si articola nell'armoniosa alternanza tra il presente in cui si muove Muir -praticamente tutto girato in interno- e il passato che si costruisce gradualmente tramite flashback (con voce fuori campo). Ciò che più colpisce è la varietà dei modi in cui Tony Scott riesce a coniugare il concetto di “azione” in uno stesso film. A parte per la questione della dimensione temporale, che rimane comunque il principale elemento di dinamismo, è il modo stesso in cui il film è girato a guidarci nelle diverse dimensioni. Le scene del passato, in cui il giovane Brad Pitt conosce e lavora sul campo insieme a Muir, il ritmo serrato; ogni spostamento in auto è motivo di pericolo, tutto è appeso ad un filo, il caos la fa da padrone, ed è in questo caos che Bishop agisce. Talvolta l'azione assume sfumature molto “tamarre”, ma non danno mai fastidio (siamo già nel 2001, quindi i vari eccessi della seconda metà dagli anni '90 sono già superati). Più pacata la figura di Muir, sempre molto ragionevole, a volte spietato nella sua razionalità, ma sempre perfettamente sotto controllo. Anche quando vediamo Redford seduto ad una scrivania che parla (o che ascolta), la bravura del regista è nel farci comprendere che la scena è solo apparentemente statica, mentre l'azione si sta svolgendo all'interno del cervello di Muir; noi siamo dentro di lui, capiamo che sta architettando qualcosa, ma non abbiamo elementi sufficienti per comprende pienamente cosa (e non aspettiamo altro che vedere che succederà). Sebbene, per certi versi, la pellicola sia un po' banalmente storicizzata e palesemente ideata da una troupe californiana (gli spietati cinesi, gli inaffidabili libanesi e i cattivoni russi sono un po' stereotipati) la critica al sistema-CIA e, soprattutto, ai princìpi che ne regolano l'azione sembra abbastanza evidente. In particolare, Scott sembra denunciare la mancanza di rispetto per l'individuo in sé e il freddo delle stanza dei calcoli e dei bottoni che regolano i rapporti internazionali. Dalla parte di Bishop, invece, ci sono la passione umana e il sentimento: Scott concede ed ammette che questi siano spesso causa di complicazioni e di problemi, ma conclude anche sottolineando che sono poi esse stesse che ci salvano dal nulla. Anche Muir, infine, cede al sentimento che gli permette di espiare le colpe di una lunga carriera. La profondità dei temi non è certo da filosofo esistenzialista navigato, ma il film è assolutamente da vedere.

Giancarlo Mazzetti





sabato 22 settembre 2012

Milano Film Festival 2012 - Incontro con Gabriele Salvatores

Nell'ambito del Milano Film Festival, il 15 settembre 2012 è stato organizzato un bellissimo incontro presso il cinema Ariosto con Gabriele Salvatores. Tema: gli anni Ottanta, la televisione che mangia il cinema. Gabriele, che aveva già analizzato il fenomeno in presa diretta con "Kamikazen" (1987), ha osservato che l'avvento delle televisioni private e il consumo di massa del prodotto televisivo hanno influito ferocemente sul modo di fare cinema. Come ha detto lui, se la TV non si è mangiata il cinema, di sicuro «gli ha dato un bel morso». La questione è prima di tutto meramente tecnica. L'elettrodomestico televisione è più piccolo dello schermo del cinema. Quindi negli sceneggiati televisivi, nelle fiction, sono stati tagliati i campi lunghi, perchè su piccole dimensioni si apprezzano meno. I ritmi sono più serrati (pensate, per esempio, a quella porcata di CSI) a tutto discapito della profondità dei messaggi. Anche qui, il motivo è molto semplice. Sei in casa e stai guardando qualcosa. Se ti rompi i coglioni, prendi e vai a mangiare un biscotto, a lavare i piatti, oppure cambi canale. Gli sceneggiatori non hanno soddisfatto il cliente. Al cinema è, o dovrebbe essere, diverso. Sei in un luogo chiuso, senza distrazioni esterne, hai pagato per quello che stai vedendo: a meno di tragedie inenarrabili, il film te lo gusti fino alla fine. Ecco perchè, nel buio della sala, i registi possono permettersi di dilatare i tempi della narrazione, se la storia lo richiede. Oggi invece, e non voglio essere retorico, la logica della televisione ha ammorbato anche molte opere cinematografiche. E ha contagiato anche noi. «Ci ha abbassato il gusto», parole di Gabriele. Ha ragione. Ora, io ci ho pensato un po' su. E se fosse successa la stessa cosa anche alla nostra coscienza politica? Ci si accapiglia sulla legge elettorale, sulle polemicuzze inutili, senza alcuna visione politica di lungo periodo. Senza campi lunghi. Vedere le cose con una prospettiva globale, un indirizzo ideologico preciso, aiuta anche a guardare lontano. Le tanto bistrattate ideologie hanno a lungo dato un senso alle vite di milioni di persone nel mondo, le hanno fatte sperare nel futuro con fiducia. Tutto questo non accade più. Ci accontentiamo di primi piani e di dettagli spesso orridi, siano inquadrate vecchie conoscenze ammuffite, siano inquadrati improvvisati strilloni con la barba. Una volta la comicità serviva a distorcere e deridere strutture sociali inadeguate. Negli anni Ottanta, invece, programmi come "Drive In" le hanno celebrate. Battute per lobotomizzati, troie mezze nude, telespettatori trattati come bambini: roba buona, il meglio che si potesse desiderare, le uniche cose che si potessero desiderare. Tutto vomitato nel cinema. Qualcosa di simile l'hanno fatto, però al mondo intero, Reagan e la Thatcher. L'esaltazione dell'esistente come il migliore e il solo mondo possibile. Il disprezzo del passato e della Storia, la centralità di un presente da ingurgitare in tutta fretta, il disinteresse per il futuro. La manona invisibile e saggia che ci sospinge. Il Mercato. Tutto vomitato negli uomini. A vent'anni di distanza aspettiamo quotidianamente gli sviluppi delle borse internazionali, e se sono andate male piangiamo i nostri morti. Come fossero vittime di una disgrazia naturale inevitabile sulla quale nessuno ha potere. Oppure ci lamentiamo perchè vediamo cattive pellicole, «che film di merda!», diciamo. Sono due rami dello stesso fiume. Come si costruisce la diga?

Ivan Brentari

mercoledì 19 settembre 2012

Venezia 2012 - Seconda Parte: Paradise: Faith, The Iceman, Superstar, Fill The Void

Dobbiamo essere sinceri. La selezione milanese dei film veneziani di quest'anno non è stata all'altezza delle aspettative. Troppi nomi importanti che erano in concorso sono mancati: Paul Thomas Anderson, Malick, De Palma ma anche Harmony Korine o l'attesissimo evento speciale, il documentario su Michael Jackson firmato Spike Lee. Tirando le somme, probabilmente il film migliore che abbiamo visto è stato proprio il Leone D'Oro 'Pietà' di Ki-Duk. Ha convinto, ma non come il primo capitolo della trilogia, 'Paradise: Faith' (voto 7) di Ulrich Seidl, regista austriaco dalla vena provocatoria e caustica. Questa volta, nel mirino di Seidl, abbiamo una donna di mezza età ossessionata da Gesù Cristo, che dedica le sue vacanze a girare di casa in casa nei quartieri di Vienna per diffondere la propria interpretazione del cattolicesimo, portando con sè una statua della Madonna. Non mancano certamente momenti graffianti e indimenticabili, feroci ma di una intelligenza vivace, per nulla gratuita. Ciononostante, se nel primo episodio 'Love' assistevamo alla graduale disintegrazione della dignità della protagonista che andava alla disperata ricerca di turismo sessuale, in questo caso siamo di fronte a una semplice "fuori di testa". Patologia e non sociologia, dunque. Devianza e non più disperazione. Restano, comunque, un gusto estetico e una ricerca antropologica da applausi. Plausibile il Premio della Giuria. Non abbiamo disprezzato nemmeno 'The Iceman' (voto 7) del debuttante Ariel Vromen, presentato fuori concorso. Si tratta di un ottimo film di genere, curato in ogni minimo dettaglio, recitato magnificamente. In modo particolare, non nascondiamo di averci fatto molto piacere rivedere una grandissima Winona Ryder nei panni della moglie acqua e sapone, ignara della reale attività di spietato killer del marito, interpretato da un ottimo Michael Shannon. Un film di grande professionalità, non troppo originale, ma che non concede un attimo di tregua. Sarebbe potuto essere, invece, un lavoro straordinariamente interessante 'Superstar' (voto 6) di Xavier Giannoli, se solo quest'ultimo fosse un regista di maggior talento. La trama è quella dell'uomo comune che improvvisamente viene invaso dalla fama, senza alcun motivo. Sulla carta, c'era spazio per una serie di trovate geniali e irresistibili ma il regista francese appesantisce la materia con un moralismo catechistico e un tono, a tratti, apocalittico. Peccato davvero, perchè Kad Merad è una maschera tragica favolosa, mentre Cecile De France è una graziosa arpia. Concludiamo con l'israeliano 'Fill The Void' (voto 6) di Rama Burshtein, uno dei più applauditi in Laguna. Condivideremmo gli entusiasmi se si fosse trattato del Festival del cinema d'Israele ma, sinceramente, per un Festival di Venezia ci aspetteremmo qualcosa di meno didascalico ed elementare, almeno da un punto di vista tecnico e narrativo. Bravo Mann: la vincitrice della Coppa Volpi, la giovane Hadas Yaron, è splendida e ce ne siamo immediatamente innamorati.

 Emiliano Dal Toso

La brava e bella Hadas Yaron, protagonista di Fill The Void


lunedì 17 settembre 2012

Venezia 2012 - Prima Parte: Pietà, Apres Mai, Outrage Beyond

E' ripartita anche quest'anno la classica rassegna milanese che propone alcuni dei film presentati all'ultima Mostra del Cinema di Venezia. Malgrado la crisi e la depressione post-estiva, ci siamo fatti trovare anche questa volta nelle sale cinematografiche per vedere, ammirare e giudicare. Partiamo immediatamente con il film che ha vinto il Leone D'Oro. Bene, non sono certamente mai stato un amante del cinema di Kim-Ki Duk. L'ho sempre trovato un regista poetizzante, estetizzante, eccessivamente simbolico e un po' programmatico. Ammetto, però, di non conoscere la prima parte della sua carriera, quella più cruda e furiosa. Per quanto riguarda 'Pietà' (voto 8), sono rimasto davvero sorpreso. Kim mette da parte allegorie e silenzi (in)significanti e tira fuori dal cilindro un melodramma sociale spietato e lancinante. Potrebbe non piacere a chi è abituato al Ki-Duk più etereo e mentale: 'Pietà' è un pugno nello stomaco terribilmente concreto, attuale, contemporaneo. Evidentemente, la crisi creativa del regista sudcoreano (documentata nel noiosissimo 'Arirang') è servita per fargli recuperare la vena più verace e feroce. Non abbiamo ancora visto i lavori di Malick, Paul Thomas Anderson e De Palma ma non possiamo non riconoscere al presidente di giuria Michael Mann di aver premiato uno dei migliori "Leoni" degli ultimi anni (certamente meglio di 'Somewhere' e di 'Faust'). Pensavamo, invece, di entusiasmarci di fronte all'acclamato 'Apres Mai' (voto 4) di Olivier Assayas. Pensavamo male. Il regista francese racconta la storia di alcuni ragazzi parigini durante i primi anni Settanta, probabilmente in veste autobiografica. Utilizza tutti i luoghi comuni possibili riguardo a quell'epoca: l'impegno politico, gli amori, le rivelazioni artistiche, gli amori, il rifiuto della borghesia, gli amori. Il film non è girato male ma sinceramente siamo davvero stufi dell'apologia dei liceali fighetti che giocano a fare la Rivoluzione. Assayas non aggiunge e non toglie niente a tutto quello che sapevamo già sul Sessantotto e sul post-Sessantotto. E' lontano anni luci dalla de-mitizzazione di 'The Dreamers' ma anche dalla complessa profondità di 'Les Amants Reguliers'. Non ha un guizzo narrativo originale, non prevedibile. Forse, potrebbe piacere all'attempato lettore di 'Repubblica' che ha tanta nostalgia dei bei tempi che furono. Ai ventenni di oggi, ha ragione Bertolucci, conviene rimanere chiusi in casa a trombare. Infine, mi duole ammetterlo, ma anche il gigantesco Takeshi Kitano ha fallito con il suo 'Outrage Beyond' (voto 5). Il Maestro giapponese si limita a un anonimo poliziesco che potrebbe trovare spazio nel sabato sera di Raidue. Dove è finita la poesia che ha caratterizzato tutta la sua filmografia, da 'Violent Cop' fino alla geniale trilogia sulla decadenza dell'Artista? Stiamo pur sempre parlando di un genio, che negli anni Novanta non è stato in grado di non girare soltanto capolavori. Uno degli autori più influenti e rivoluzionari degli ultimi vent'anni. E' plausibile che sia arrivato anche per lui il momento di girare per portare a casa la pagnotta, e nulla più. A tal proposito, mi va di citare alcuni dei suoi titoli meno celebri ma assolutamente da recuperare: 'Boiling Point', 'Il silenzio sul mare', 'Kids Return'. Vedeteli, e poi torniamo a parlare di cosa significhi fare un cinema allo stesso tempo popolare, autoriale, universale.

Emiliano Dal Toso


giovedì 13 settembre 2012

L'Intervallo (voto 8)

E' stato presentato nella sezione Orizzonti del Festival di Venezia e ha ricevuto immediatamente critiche entusiastiche 'L'intervallo' di Leonardo Di Costanzo, documentarista napoletano al suo esordio nell'opera di finzione. Mai come in questo caso non posso che unirmi agli elogi, dal momento che stiamo parlando di un lavoro straordinariamente profondo, emozionante eppure semplicissimo, essenziale, proprio come piace a noi. Mimmo è un adolescente costretto da un boss locale partenopeo a sorvegliare in un enorme stabilimento deserto e lasciato a se stesso la quindicenne Veronica, colpevole di frequentare un ragazzo del clan rivale. Dopo le iniziali diffidenze, tra i due si creerà una forte empatia, una grande solidarietà reciproca che li farà dimenticare, almeno temporaneamente, la dura realtà che li circonda. L'intervallo è proprio questo brevissimo frangente di vita, questa parentesi nella quale i due protagonisti danno spazio all'amicizia, al gioco, alla confidenza, recuperando quell'infanzia e quella giovinezza che sono state strappate via da una quotidianità infame, nella quale la criminalità, la sopraffazione e la violenza non permettono di sognare e nemmeno di prendere in considerazione la possibilità di volare via, di abbandonare le proprie radici, di fuggire. Il film si regge quasi esclusivamente sull'interazione tra i due giovani protagonisti, bravi in maniera eccelsa, mentre sullo sfondo i cambi di luce e l'alternarsi degli ambienti ora chiusi e opprimenti, ora aperti e vivaci, sono utilizzati per sottolineare la graduale evoluzione del loro rapporto, sempre sfumato, sempre suggerito e per nulla romanzato. Potrebbe apparire, sulle prime, una visione un po' ostica proprio perchè Di Costanzo si prende i suoi ritmi, che sono quelli di un cinema attento a delineare con realismo e sensibilità le caratterizzazioni dei suoi personaggi, mai caricaturali ma umani, troppo umani. Non ci sono, infatti, rilevanti eventi narrativi nè cambi di ritmo, se non negli ultimi quindici minuti quando il gioco finisce, e la libertà della prigionia deve fare spazio alla condanna della sopravvivenza. Non mancano alcuni passaggi di pura poesia: il sogno impossibile di scappare condiviso su una barchetta trovata per caso all'interno dell'edificio, utilizzata per fantasticare una partecipazione in un reality show oppure una visita in Madagascar; l'augurio di una catastrofe naturale per poter ripartire daccapo, insieme a quei pochi che non sono ancora stati "mangiati vivi" dal Sistema. Uno sguardo dolceamaro, un sussurro pudico e innocente che ritaglia quei pochi istanti di resistenza che valgano veramente la pena di essere vissuti.

Emiliano Dal Toso

L'intervallo

lunedì 10 settembre 2012

Opinions: Marco Bellocchio VS. Michael Mann

Sono rimasto abbastanza stupito della reazione di Marco Bellocchio in seguito alle motivazioni che ha dato il presidente della giuria dell'ultimo Festival di Venezia, Michael Mann, per il fatto che 'Bella addormentata' non ha ricevuto nessun premio importante, preferendo i lavori di Kim-Ki Duk, Paul Thomas Anderson e Ulrich Seidl. Evidentemente imbarazzato già soltanto per il fatto di dover dare delle giustificazioni, Mann ha parlato di un cinema italiano "un po' provinciale e autoreferenziale". Opinione discutibile, certamente. E' anche vero che se Mann è stato piuttosto ingenuo a pronunciare una frase che può apparire come una generalizzazione di un intero movimento cinematografico, va pur detto che il regista americano ha individuato immediatamente quale sia il reale problema di alcune pellicole nostrane, che vengono osannate in patria ma che non ricevono altrettanto entusiasmo all'estero. La risposta di Bellocchio non è tardata ad arrivare: "Mi sembra un giudizio idiota. Di queste imbecillità ne ho piene le scatole. Chi dice queste cose viene da una cultura che parla inglese, poco sensibile alle sfumature di altri linguaggi...Chi viene da Oltreoceano ha difficoltà a capire cosa succede davvero in Italia, quale siano le forze politiche in gioco, la nostra tradizione cattolica, il peso del Vaticano. O forse non gli interessa neanche. Per questo spara obiezioni superficiali con la supponenza di chi si considera padrone del mondo...Il cinema di Mann non mi interessa, ha un'idea di cinema totalmente diversa dalla mia". Wow. Parole pronunciate da chi viene considerato uno dei più grandi registi italiani di oggi, per razionalità ed equilibrio. E' evidente che il regista bobbiese sia rimasto piuttosto "scottato" dalla sconfitta veneziana. D'altronde, anche nove anni fa il suo 'Buongiorno, notte' era favoritissimo ma la giuria di Mario Monicelli gli preferì 'Il ritorno' di Zyagintsev. Malgrado si dica spesso che nei Festival ci siano solo vincitori e non sconfitti, in molti vivono la rassegna come una competizione sportiva. Ad avermi ancor più meravigliato è stato, però, l'articolo di Paolo Mereghetti che spalleggia le idee di Bellocchio e si scaglia contro Michael Mann e contro l'unico metro di giudizio che pare quest'ultimo abbia utilizzato nelle sue scelte, quello della "popolarità." Il Merego chiude questo delirio sostenendo che senza Bellocchio, senza Vigo e Godard, senza Herzog e Kluge, senza Kramer e Cassavetes, senza Ozu e Naruse (tutti registi poco o niente popolari), Mann non avrebbe mai fatto i film che l'hanno reso celebre. Allucinante. E' evidente che il grado di "popolarità" non possa essere un metro di giudizio per giudicare il valore di un film. Credo che però Mann abbia considerato più la capacità di un'opera cinematografica di avere una comprensione universale, di poter essere appresa completamente e ammirata da tutti. Non a caso, ha premiato Kim Ki-Duk, regista lontanissimo dagli stilemi hollywoodiani, eppure capace di arrivare al cuore degli spettatori di tutto il mondo. Criterio, direi, più che legittimo, se non sacrosanto, in un Festival di caratura internazionale. Michael Mann è il regista di film come 'Heat - La sfida', 'Insider', 'Alì', 'Collateral', 'Public Enemies'. Lavori se non capolavori che oltrepassano ogni confine di genere, ogni barriera culturale. Come direbbe il mio amico Ivan Brentari, "film popolari, non popolareschi". A differenza di questa spiacevole, idiota, provinciale diatriba che ha visto protagonisti uno dei registi più importanti e il critico cinematografico più famoso d'Italia.

Emiliano Dal Toso
 



Nella foto il regista Kim Ki-Duk, vincitore del Leone d'Oro, pare non importarsene di provincialismo e grado di popolarità

venerdì 7 settembre 2012

Bella Addormentata (voto 6)

Marco Bellocchio è un regista che sa il fatto suo, conosce l'industria del cinema come pochi in Italia, è uno dei due autori che hanno la possibilità di parlare di qualsiasi cosa e di permettersi qualsiasi cosa, in questo Paese. L'altro è Nanni Moretti. Qualsiasi attore italiano, emergente o non, vorrebbe essere diretto dal Maestro Marco Bellocchio. Laddove la forma prevale sul contenuto, laddove l'arte è tale perchè è il risultato del lavoro di un artista e non perchè sia l'opera artistica a renderlo artista. Ormai, artista lui lo è già. Non ho minimamente intenzione di parlare del tema che dovrebbe essere al centro della sua ultima fatica, 'Bella Addormentata', ovvero l'eutanasia. Passerò immediatamente al giudizio di valore, come non dovrebbe mai fare un buon critico cinematografico. Così come nel calcio va di moda il falso centravanti, il film del regista bobbiese è un falso capolavoro. Il cast è straordinario: Servillo impressionante, addirittura inedito; Isabelle Huppert glaciale, meravigliosa; Rohrwacher - Riondino da colpo di fulmine. Ma anche Bellocchio Junior, il buon Pier Giorgio, è assolutamente impeccabile e la sua compagna Maya Sansa è bella, intensa, maledetta. Alcune sequenze sono favolose, in modo particolare quella dell'incontro tra il senatore Servillo, in crisi d'identità, e lo psichiatra Herlitzka in un immaginario bagno turco situato sotto il senato è destinata a rimanere impressa nella memoria per intelligenza, brillantezza, lucidità. Ci sono momenti di grande poesia, di grande intensità, perchè i personaggi sono tutti scritti benissimo, sono a tutto tondo e, malgrado siano tanti, ciascuno di loro ha il suo significato, un ruolo preciso, fondamentale all'interno di un racconto nel quale nulla è lasciato al caso. D'altronde, la capacità di farecinema è indiscutibile. Pochi come Bellocchio sanno creare quell'atmosfera surreale, grottesca che ha caratterizzato indubbiamente alcuni dei suoi migliori film come 'L'ora di religione' e 'Il regista di matrimoni'. Che cosa discutiamo, dunque, al Maestro? 1) Come tanti lavori italiani ambiziosi e incompiuti, la sua 'Bella Addormentata' è poco esportabile. Malgrado l’universalità del tema principale, è sempre tutto troppo italiano: il solito teatrino della politica, le solite crisi di nervi delle famiglie borghesi, il solito sfondo cronachistico difficilmente comprensibile da chi mastica poco il linguaggio dei mezzi di comunicazione del Paese. Tutto è troppo esplicito, spiattellato. C’è poco spazio per la suggestione, per l’allusione, per l’interpretazione autonoma: caratteristiche di solito presenti in un gran film che possa essere amato da chiunque. Sono pronto a essere smentito dalla giuria di Michael Mann se domani pomeriggio (scrivo questo post il giorno prima delle premiazioni veneziane) Bellocchio dovesse vincere il Leone D'Oro per il miglior film. Nel caso in cui vincesse, vorrà dire che qualcosa è cambiato: ma nella capacità degli altri di comprendere il nostro cinema, non nel nostro modo di farlo. 2) Il sospetto è che Bellocchio abbia utilizzato l’eutanasia per parlare di tutt’altro, cioè dell’amore come l’unico criterio che possa determinare le scelte della vita e, di conseguenza, le proprie convinzioni. Bella tesi, ma c’era bisogno di tirar fuori Eluana per arrivare a questa conclusione? Probabilmente, non si tratta che di un'altra abile mossa di "marketing d'autore" da parte di un Maestro dell'Inganno.

Emiliano Dal Toso
 
 

mercoledì 5 settembre 2012

Tony Scott Gallery: Una Vita Al Massimo - True Romance

Nel 1992 Quentin Tarantino aveva in mano due sceneggiature: una era quella de 'Le iene', l'altra era quella di 'True Romance'. Per il debutto di un giovane regista sconosciuto venne ritenuta più adeguata la prima, mentre la seconda venne affidata al solido mestierante Tony Scott, reduce dai grandiosi successi al botteghino di 'Top Gun' e di 'Giorni di tuono'. Il risultato fu che 'True Romance' ricevette immediatamente un'ottima risposta dal pubblico, mentre 'Le iene' non ottenne gli incassi sperati. Nel 2012 'Le iene' di Tarantino è considerato uno dei più incredibili esordi degli ultimi trent'anni, tanto che in alcuni cinema è stato addirittura ri-distribuito per una settimana in onore del suo ventennale, mentre molti faranno fatica a ricordare questo divertente fumettone a metà strada tra il road movie, il film d'azione e la storia d'amore. Il risultato è che il buon Quentin è uno dei registi più acclamati del mondo e l'imminente 'Django Unchained' è attesissimo da chiunque mastichi di cinema. Tony Scott, invece, non c'è più, si è lanciato nel vuoto da un ponte, dopo una rispettabilissima carriera di blockbuster, mettendosi sempre al servizio del puro intrattenimento, del divertimento, in modo molto onesto, professionale. Tony non è mai stato amato dai critici cinematografici e non ha mai ricevuto una nomination all'Oscar, neanche per sbaglio. Figlio di una famiglia operaia inglese, si avvicinò al cinema attraverso il mondo delle pubblicità, mentre il fratello Ridley spopolava con film del calibro di 'Alien' e 'Blade Runner'. A metà degli anni 80, girò appunto un clamoroso best seller come 'Top Gun', opera icona del cinema a stelle e strice patinato, patriottico e retorico. Quel film fu anche la sua condanna, perchè lo allontanò per sempre dalla Hollywood più intellettuale, di stampo democratico, e anche un po' mafiosetta (quella che si autocelebra negli Academy, per intenderci). Tony è sempre stato bollato come lo Scott tamarro, quello che fa film per il pubblico, per far contente le case di produzione, a differenza di Ridley, il fratello artista, quello che può permettersi qualsiasi cosa (anche colossali cagate come 'Soldato Jane' o 'Hannibal'). Personalmente, mi hanno sempre più affascinato la carriera di Tony e il suo percorso coerentissimo orientato verso un cinema di genere robusto e confezionato in maniera impeccabile. A guardar bene, i film brutti di Tony Scott non si contano nemmeno sulle dita di una mano, saranno al massimo un paio, così come i capolavori (o presunti tali) di Ridley. Tra i due, Tony è il fratello "pestifero", quello interessato alle ragazze, quello che fa più casino, ma che forse, sotto sotto, ha molte più cose da dire. 'True Romance' è uno dei suoi migliori lavori: fracassone, autoironico, spassosissimo e incalzante. Gli attori protagonisti sono Christian Slater e Patricia Arquette, all'epoca ventiquattrenni, giovani stelle sulla rampa di lancio, oggi imbolsite mezze figure che sopravvivono grazie a qualche serie tv. Tra i ruoli secondari spiccano, invece, i nomi di Gary Oldman, Brad Pitt, Samuel L. Jackson e James Gandolfini. Nel frattempo, qualcuno di loro ha fatto strada.

Emiliano Dal Toso

 

sabato 1 settembre 2012

Tony Scott Gallery: Unstoppable - Fuori Controllo

La vita è come una corsa, possiamo decidere di trascorrerla andando con calma, assaporandone ogni momento, oppure bruciarla vivendo al massimo, circondati da continue scariche di adrenalina. Tony Scott non è mai stato un uomo spericolato, ma grazie ai suoi film è riuscito a far sognare intere generazioni facendoci provare, attraverso il grande schermo, che cosa voglia dire premere fino in fondo l'accelleratore o salire a bordo di un velocissimo jet per assaggiare il profumo della libertà. E forse sarà solo uno scherzo del destino, ma il suo ultimo lungometraggio finito e distribuito, ci parla proprio di una corsa, o meglio, di molte corse. E' l'ultima corsa per Frank Barnes, macchinista di lungo corso che sta per essere licenziato. E' la prima corsa per Will Colson, novellino ispettore ferroviario che deve giudicare il lavoro del veterano. I due si troveranno sulla strada di un convoglio grosso, lungo e carico di materiale pericoloso lanciato in una folle corsa verso centri abitati, contromano, senza conducente, a velocità crescente. Evitarlo non sarà semplice ma ancora più difficile si rivelerà fermarlo, cercando di portare in salvo la propria vita e quella degli altri. Con il suo solito stile fatto di luci forti o trasparenti, di filtri usati con sapienza, di un montaggio adrenalinico e serratissimo, Scott è riuscito a confezionare un altro buon prodotto, non eccelso ma per nulla deprecabile. Il regista inglese è stato un maestro del genere per la sua dote di saper capire quello che la gente vuole da un film d'azione, riuscendo a non sforare mai nell'eccesso di cattivo gusto. 'Unstoppable' mette in scena lo spericolato treno della Vita che parte, prende velocità, rischia di deragliare e diventa fuori controllo. Tutti sanno che prima o poi si fermerà, ma nessuno sa quando. Così, tutti noi viviamo nell'incertezza e nella speranza di posticipare il momento fatale. Tony Scott invece ci ha sorpreso ancora una volta e ha regalato un ultimo colpo di scena, con la decisione di togliersi la vita, ha scelto lui quando dire basta, è stato lui a fermare il treno, proprio come gli eroi dei suoi film.

Alvise Wollner