lunedì 27 febbraio 2012

Opinions: Oscar 2012

Cari lettori, domani ho un esame di procedura civile e cosa c'è di meglio, nell'attesa, di parlare un po' degli Oscar che ieri notte sono stati assegnati dai nostri amici dell'Academy? Probabilmente, c'è di meglio altro. Ciononostante, non ho voglia di attendere l'esito dell'esame e la passione mi costringe a non esimermi e a dire la mia ora, subito, immediatamente. Svegliatomi stamattina verso le otto, come tutti i lunedì mattina successivi alla notte Oscar, il mio primo pensiero è stato quello di controllare a chi avessero attribuito le fatidiche statuette. Ancora in pigiama, mi sono dunque accinto a controllare sul Televideo (sì, Televideo, l'unica volta in tutto l'anno di cui usufruisco di questo mezzo) i vincitori dei premi per miglior film, miglior regia e migliori attori. Solitamente, la mia reazione è "Non è possibile". Non ho trovato possibile, infatti, che negli ultimi anni il maggior premio sia stato vinto da film terribilmente mediocri come 'The Millionaire' e 'The Hurt Locker'. L'anno scorso, invece, non mi dispiacque la vittoria di un film classico e ben fatto come 'Il Discorso Del Re', malgrado la mia preferenza fosse decisamente indirizzata verso gli eccezionali 'The Social Network' e ' Il Cigno Nero'. Quest'anno devo ammettere che mi si è stampato un bel sorriso sul faccino (che ha momentaneamente stemperato la mia tensione pre-esame). Era, infatti, dai tempi di 'Million Dollar Baby' (2005) che l'Oscar non veniva vinto da un film clamorosamente bello. E 'The Artist' è bello, bellissimo, splendente, un "diamante per sempre". Come scrissi precedentemente, si tratta di un inno al Cinema, pieno di invenzioni e di divertimento, che omaggia tutto ciò che amiamo della Settima Arte: scrittura, tempi comici, sentimenti, emozioni, tecnica. Trionfano anche la regia di Hazanavicius e Jean Dujardin, che sconfigge i ben più affermati Clooney e Pitt (ma il personaggio di quest'ultimo in 'Moneyball' è grande). Tra le principali, non mi ha convinto molto la statuetta assegnata a Meryl Streep. Per quanto la sua sia un'interpretazione tecnicamente mostruosa, 'The Iron Lady' è un film troppo piatto e mediocre anche solo per venire preso in considerazione. Una come la Streep non aveva certo bisogno del terzo Oscar per affermarsi tra le più grandi attrici di sempre. Avrei preferito la "carne fresca" di Michelle Williams o di Rooney Mara. Nulla da dire sui non protagonisti. Christopher Plummer è efficacissimo nel piccolo e delizioso 'Beginners' (uscito soltanto in homevideo, recuperatelo) e Octavia Spencer è trascinante nell'ottimo 'The Help'. Non entusiasmante il lavoro che ha vinto il film d'animazione, 'Rango'. Se i giurati fossero stati un po' più coraggiosi avrebbero dovuto premiare 'Chico And Rita' di Fernando Trueba, presentato a settembre al Milano Film Festival: adulto e struggente. Chiudiamo, infine, con il miglior film straniero 'Una separazione'. Non ho visto gli altri candidati e quindi non saprei dire se fosse il migliore o meno, certamente posso dire che è meglio di 'Terraferma' di Crialese. Comunque, bene così, quest'anno il principale vincitore è stato il migliore e questo non accade spesso. Viva 'The Artist' e viva il Cinema.

Emiliano Dal Toso













sabato 25 febbraio 2012

Un Giorno Questo Dolore Ti Sarà Utile (voto 3)

E' davvero curiosa la carriera di un cineasta come Roberto Faenza, torinese, classe 1943, che è approdato al cinema con l'impegno politico di 'Forza Italia!' e 'Si salvi chi vuole', e ora si ritrova su commissione a girare un lavoro americanissimo, in tutto e per tutto, cioè la trasposizione del bestseller di Peter Cameron 'Un giorno questo dolore ti sarà utile'. Faenza ha girato un pugno di lavori di eccelsa fattura come 'Sostiene Pereira', 'L'amante perduto', 'Alla luce del sole', ma da un po' di anni a questa parte si è perso in un vortice patinato e melenso ('I giorni dell'abbandono', 'Il caso dell'infedele Klara'). Quest'ultimo film prosegue, purtroppo, quest'andazzo. James è un diciassettenne un po' disadattato, dall'incertissimo orientamento sessuale, con due genitori superficiali e distratti e una nonna che gli vuole molto bene e che sembra essere l'unica in grado di comprendere il suo spaesamento e le sue difficoltà esistenziali. Grazie all'aiuto di un life-coach, James riuscirà ad accettarsi e ad affrontare la vita con entusiasmo. L'uscita di questo film è stata strombazzata come l'adattamento contemporaneo del capolavoro letterario 'Il giovane Holden' ma sinceramente sia il libro che il film perdono decisamente il confronto. Faenza si rifugia in un approccio del tutto superficiale, pieno di "carinerie" e atteggiamenti perbene che riescono soltanto a infastidire. E' una melassa glassata zuccherosissima. Per quanto il cast sia di tutto rispetto, non c'è un solo personaggio ben scritto e che stia in piedi. Il protagonista Tony Regbo è da prendere a ceffoni dopo la prima scena, la mamma Marcia Gay Harden è credibile soltanto in uno studio psichiatrico ma il peggio sono la life-coach Lucy Liu e la nonna Ellen Burstyn. Dalle loro bocche escono le banalità e i luoghi comuni più sconcertanti. Preferivamo la prima fare salti e capriole con le Charlie's Angels, mentre la seconda imbottirsi di anfetamine e rincoglionirsi in 'Requiem for a dream'. Faenza, dunque, perde una ghiotta occasione, dal momento che non tutti i registi italiani possono usufruire di un budget così ampio e di un cast dalla fama internazionale. 'Un giorno questo dolore ti sarà utile' è un lavoro preconfezionato e rassicurante che non fa onore al suo rispettabile percorso registico.

Emiliano Dal Toso






sabato 18 febbraio 2012

Com'è Bello Far L'Amore (voto 0)

Dopo averci illuso sei anni fa con il piacevole e nostalgico 'Notte prima degli esami', Brizzi è ormai la punta di un iceberg e il marchio di fabbrica di un certo tipo di neocommedia all'italiana, ruffiana e ripetitiva. Con 'Com'è bello far l'amore' il regista prova a mettere un po' di pepe alla solita minestra, incentrando tutto lo script sul sesso. De Luigi e la Gerini sono una tranquilla coppia di quarantenni, caratterizzata dalla totale assenza di vita sessuale. Un bel giorno, però, piomba a casa loro Filippo Timi, nei panni del miglior amico d'infanzia di lei nonchè in quelli di un celebrato pornodivo, il quale diventa il "sessuologo" dei due protagonisti. Riuscirà nell'impresa di rinvigorire la libido smarrita del povero De Luigi e a far soddisfare le esigenze della vogliosa Gerini? 'Com'è bello far l'amore' è il punto più basso del cinema italiano degli ultimi anni. Per quanto Brizzi sappia gestire i tempi comici, non c'è la minima traccia di intelligenza e originalità nel suo approccio cinematografico. L'elogio del sesso praticato in tutte le sue forme è il punto limite di un'ipocrisia che si vergogna di mostrare. Che senso ha girare intorno all'argomento se non c'è un solo passaggio che osi descrivere esplicitamente le difficoltà sessuali dei due coniugi? Tante, troppe chiacchiere sono messe in bocca al personaggio di Timi, attore che si trova costretto a dover ironizzare su quel "cinema d'autore" che fino ad oggi gli ha dato da mangiare. Ormai, c'è troppa confusione sul concetto di "volgare". Personalmente, preferisco quella trivialità gergale e cafona di Christian De Sica o quella corporale di Massimo Boldi, piuttosto che quella adolescenziale e brufolosa del cinema americano. Brizzi è la peggior volgarità possibile perchè è occulta, nascosta dietro a un'immagine familista e rassicurante. E questa concezione è purtroppo perfettamente parallela a quell'italianità che ha abbattuto le distanze tra morale e immorale, tra artistico e televisivo, tra osceno e liberatorio. E' naturale che non tutti gli italiani si siano riconosciuti in anni di vanzinate e di tette al vento: ma quello è lo scopo di quel cinema, che oltrepassa volontariamente le barriere del buon gusto e del politicamente corretto. Non è naturale, invece, non voltare le spalle a questa neocommedia che vuole rientrare nei confini del popolare/democratico/trasversale ma che ha il medesimo vuoto cerebrale. I film migliori sul sesso sono quelli dove il sesso è esplicito e ne vengono raccontate la passione e la carne, senza porsi il problema di quanto si possa apparire "mostrabili". Cosa sarebbe il cinema almodovariano senza le sue immagini fortemente erotiche e autentiche? Nel momento stesso in cui si vuole affrontare il sesso in modo da renderlo accessibile a tutti, viene meno il senso artistico di un'opera cinematografica. E' sufficiente una pubblicità che incentivi l'utilizzo del preservativo o una puntata di 'Loveline'.

Emiliano Dal Toso







giovedì 16 febbraio 2012

ACAB - All Cops Are Bastards (voto 5)

Dopo aver fatto tanta televisione ('Un posto al sole', 'La squadra') e aver raggiunto l'apice con l'avvincente serie televisiva di 'Romanzo Criminale' (una delle migliori mai fatte in Italia), Stefano Sollima debutta nella cinematografia pura trasportando il suo stile frenetico e sincopato e adattandolo all'ambiente poliziesco. Ma, attenzione, 'ACAB' non ha niente da spartire con i poliziotteschi all'italiana, piuttosto il modello al quale si ispira il film è 'Tropa De Elite', interessandosi in maniera particolare agli aspetti privati dei celerini. Il vero nocciolo è la descrizione del senso di fratellanza, gli atteggiamenti camerateschi, gli improvvisi sbalzi di violenza e di amicizia che si vengono a creare all'interno di una squadra di polizia. Il film è molto frammentario ed è poco funzionale ricavarne una sinossi, dal momento che non sono proprio gli intrecci narrativi a essere il cuore della vicenda ma i singoli episodi. E, difatti, 'ACAB' colpisce nel segno laddove si limita a raccontare le dinamiche degli scontri: la costruzione delle scene di violenza (in primis, quella fuori dall'Olimpico dopo un Roma-Napoli) sono impeccabili e professionali, senza aver nulla da invidiare a quelle del cinema americano. Purtroppo, Sollima si perde quando cerca di scavare nella vita privata dei singoli protagonisti. Non è interessante sapere che uno di loro ha problemi con la moglie, che non gli lascia vedere la figlia, o che un altro il figlio lo vede ma lo vede diventare un adepto dei centri sociali di destra vicini a Forza Nuova. Nel momento in cui si vuole affrontare di petto una tematica così forte e drammatica, virare sugli aspetti quotidiani e famigliari significa giustificare e romanzare eccessivamente quello che, invece, è cronaca, attualità, tragedia. Le morti di Raciti da una parte, quelle di Carlo Giuliani, Federico Aldrovandi, Stefano Cucchi, Gabriele Sandri dall'altra, sono state, per chi scrive, le pagine più buie e nere di questo Paese del decennio passato. Il fatto che questi eventi appaiano soltanto sullo sfondo, vengano meramente citati ma non vengano utilizzati in modo decisivo nello sviluppo narrativo del film, significa che questo 'ACAB' si poteva benissimo non fare. Perchè non aggiunge e non toglie niente a quello che lo spettatore sa già. Non c'è bisogno di 90 minuti perchè si prenda consapevolezza del fatto che i poliziotti sono dei bastardi, appunto, ma che anche loro hanno una vita con i loro problemi. Quando la posta in gioco è alta, quando l'obiettivo è quello di riportare nella finzione cinematografica la realtà, acquisire una posizione neutrale è una scorciatoia troppo semplicistica. A tal proposito, la spettacolarizzazione delle scene d'azione e l'utilizzo di una colonna sonora da urlo (White Stripes, Pixies, Clash, Kasabian) non va oltre la confezione, la superficie, il mestiere. E quello di Sollima è un mestiere qualunque, proprio come quello di un filmmaker che riprende ma non rielabora, epperò utilizza lo stile da videoclip perchè così diventa tutto più accattivante. Nel frattempo, però, gli scontri, i feriti, le morti, la violenza, l'odio non si fermano e vanno avanti a formare la viltà e la coscienza sporca delle nostre istituzioni.
Emiliano Dal Toso



martedì 14 febbraio 2012

Love Pleasures: Se Mi Lasci Ti Cancello

E' davvero ardua impresa scegliere un film che rappresenti tutti i film sull'Amore che siano stati girati fino a oggi. Si finisce sempre per cadere in un criterio di scelta che privilegia la soggettività e i gusti personali rispetto a possibili criteri oggettivi. In poche parole determinare la miglior love story mai girata, è impossibile. Ognuno ne ha una personale. "Se mi lasci ti cancello" è un film che parla d'Amore in un modo completamente diverso da tutti gli altri. In un tempo non molto lontano da quello in cui viviamo, Joel e Clementine sono una coppia molto innamorata. Un giorno però, la ragazza, stanca della sua relazione ormai in fase di declino, decide, mediante un esperimento scientifico, di cancellare dalla mente la parte relativa alla storia con Joel. Il giovane, una volta venuto a conoscenza di questo fatto, sceglie di fare altrettanto ma durante il procedimento cambia idea. Riuscirà a mantenere il ricordo della sua amata e a ritrovarla una volta concluso il procedimento? Il regista Michel Gondry mette in campo tutta la sua creatività per dare vita a una storia originale, dal sapore dolce-amaro. Tra i suoi più grandi pregi c'è quello di essere diretta, senza fronzoli, assolutamente vicina alla nostra vita. Non è più tempo per gli Amori belli e impossibili, incarnati da divi irraggiungibili. Il Mondo, anche quello del Cinema, è diventato delle persone 'normali'. Uomini e donne che vivono, soffrono, sbagliano, si amano e crescono imparando dai loro errori. I quattro protagonisti principali donano a questa commedia una sostanziosa dose di profondità e di spessore. I personaggi sono reali, veri e credibilissimi. Ciascuno dei protagonisti lascia trasparire le sue angosce, i suoi dolori e le sue debolezze. Molto interessante il fatto che per dimenticare la persona amata si cerchi di cancellare parti della propria memoria: l'Amore è un sentimento che non parte dalla testa ma dal Cuore, è un palpito incontrollabile che ci segna e cambia per sempre, ecco perchè è incancellabile. Solo rischiando di perderlo ci accorgiamo di averne un disperato bisogno. Altissimo anche il livello tecnico del film, azzeccate le scelte registiche, un montaggio volutamente straniante e un'ottima colonna sonora non fanno altro che esaltare quanto appena detto. Ma se volete un consiglio non festeggiate S.Valentino, "è solo una festa inventata dai fabbricanti di cartoline d'auguri per far sentire di merda le persone." Amate ogni giorno, senza guardare il calendario e vedrete che è il miglior modo per non essere dimenticati.

Alvise Wollner



lunedì 13 febbraio 2012

Love Pleasures: Mulholland Drive

Mi sono innamorata di te

David Lynch ha girato 'Mulholland Drive' dopo aver spiazzato tutto il suo pubblico con l'incredibilmente concreto 'Una storia vera', che arrivava però dopo l'allucinante 'Strade perdute', film col quale inaugurava un approccio completamente onirico e suggestivo, abbandonando qualsiasi possibile ipotesi di narrazione fluida e intelleggibile. Nel 2001, 'Mulholland Drive' venne presentato a Cannes e vinse ex aequo con 'L'uomo che non c'era' dei fratelli Coen il premio per la miglior regia. In quella rassegna, la Palma d'Oro andò a Moretti per 'La stanza del figlio', probabilmente uno dei lavori meno folgoranti del buon Nanni. Betty, pseudo-attricetta bella e ingenua, accoglie nella sua casa una perfetta sconosciuta, che è appena scampata a un incidente stradale e che ha completamente perso la memoria. Vuoto. Non ricorda niente del suo passato a parte un nome, quello di Diane Selwyn. Lei, invece, si presenta come Rita e insieme a Betty prova a ricostruire la sua vita, partendo da una borsa con un gran numero di banconote e una strana chiave blu. Betty rimane sempre più affascinata e attratta da Rita, fino ad innamorarsene. A mezzora dalla fine, Betty diventa Diane, donna depressa, gelosa e invidiosa dell'amante Camilla, attrice vamp, bellissima e desiderata, che non è altro che Rita. Il primo tema che mi viene in mente pensando a 'Mulholland Drive' è quello del doppio (il doppelganger), che già dominava 'Strade perdute'. La protagonista Betty, interpretata da una grandissima Naomi Watts, si innamora progressivamente di Rita, che non ha passato e nemmeno identità. E' anima e corpo, e basta. Betty vive il sogno di diventare attrice con grande entusiasmo, è proiettata verso un futuro radioso, e nel frattempo è completamente rapita dalla misteriosa e meravigliosa sconosciuta. Betty vive il momento della vita nella quale è disposta ad accogliere l'amore e la passione. Ma che cos'è l'amore? Sogno, illusione, proiezione mentale. Un'idealizzazione che ha forma immateriale, indefinibile, astratta, non razionale ma non irrazionale. Esattamente come il film di Lynch. Ed ecco, l'altro volto. Il risveglio dal sogno, con Betty/Diane ossessionata, e Rita/Camilla che prende il suo posto, nella carriera e nella vita. 'Mulholland Drive' è un gioco di specchi, una riflessione sospesa in aria che svela gli opposti e smaschera il miraggio di dare naturalezza, concretezza ai sentimenti. Non è un caso che tra questo film e 'Strade perdute', Lynch abbia girato 'Una storia vera', nel quale un anziano contadino dell'Iowa attraversava 400 chilometri con un trattore tagliaerba per andare a trovare il fratello reduce da un infarto. E non è un caso che questa potesse essere l'unica storia vera da raccontare. A differenza dei Coen, che indagano ontologicamente il non senso della vita, Lynch va alla ricerca di un puzzle nel quale l'amore è uno di quei tasselli che non troveranno mai la composizione.

Emiliano Dal Toso

venerdì 10 febbraio 2012

Millennium - Uomini Che Odiano Le Donne (voto 7)

Non avevo la minima voglia di andare a vedere questo film. Dovevo andare a rivedere 'The Artist' per accompagnare un mio amico ma sono arrivato troppo tardi e l'unico che iniziava dopo era il remake di David Fincher di 'Uomini Che Odiano Le Donne'. Durante la visione, mi sono reso conto che nella mia più totale sottovalutazione a priori non avevo pensato al fatto che Fincher è un signor regista e che avrebbe dato modo di appassionarsi anche a chi conosceva già la storia e a chi aveva apprezzato il film precedente di Niels Arden Oplev. Se compariamo i due lavori, ci rendiamo subito conto della differenza tra un grande regista e un regista normale. Quando si è esclusivamente interessati all'intreccio narrativo del film, significa che il regista ha fatto il suo compito e non aggiunge nulla a una storia solida e ben congegnata. Quando, invece, si rimane inebriati e coinvolti da tutti quei preziosismi senza i quali non avrebbe senso parlare di opera artistica, significa che dietro la macchina da presa non c'è un mestierante ma un autore. E David Fincher lo è. Innanzitutto, è uno di quei registi con una marcata riconoscibilità. Basta poco per capire che questo 'Millennium' è un suo film. Il marchio di fabbrica è il medesimo del capolavoro 'The Social Network': fotografia di Jeff Cronenweth, colonna sonora di Trent Reznor e Atticus Ross. E il risultato è un'atmosfera cyberpunk/hightech/industrial da fuori di testa. Fincher riesce a comunicare soltanto col lavoro tecnico tutta la sua filosofia e la sua poetica: cupa, disturbante, distorta, perversa. E modernissima. 'Millennium' convince proprio laddove il film svedese era precario, cioè nel lavoro di fino, nelle smussature, negli aspetti meno appariscenti ma, attenzione, non secondari. Ed, invece, è ovviamente meno trascinante nella trama già conosciuta e allungata di una mezzora piuttosto inutile e interminabile. Se Daniel Craig è praticamente il clone di Michael Nyqvist, Rooney Mara è una Lisbeth Salander più sexy, più femminile, meno spigolosa e meno autentica. Ma quello della Salander, anche in questo caso, è un personaggio talmente devastante che vale da solo, di nuovo, il prezzo del biglietto. Lisbeth è la vera femmina vendicatrice, vittima delle violenze e degli abusi, anarchica di fronte a una società che ha perso la sua dignità e la sua morale. Le sequenze dello stupro e della punizione "carnale" nei confronti del tutore sono rese magistrali quando prima erano soltanto efficaci. 'Millennium' perde, però, nella svedesità che caratterizzava l'opera precedente. Viene meno il fascino di un lavoro di genere capace di autodescrivere una nazione oscura e malata, dietro l'apparente eleganza formale. Fincher è sempre stato radicale e netto nel suo approccio: fin da 'Seven' il registro assolutista fa il film, il clima stesso è parte integrante del contenuto. E le tematiche fincheriane sono certamente presenti: la normalità del Male, la schizofrenia di una Società contraddittoria.

Emiliano Dal Toso

giovedì 9 febbraio 2012

Love Pleasures: Riprendimi

Ivan Brentari ci racconta il suo piacere d'amore attraverso un piccolo film italiano, assolutamente da recuperare. Con la sua penna brillante e seducente, impreziosisce Il bello, il brutto e il cattivo di un altro pezzo da colpo di fulmine.

'Riprendimi' di Anna Negri è un film del 2008, che io ed Emi vedemmo insieme in una sala atrofizzata e semideserta del cinema Odeon (la sera dopo che Berlusconi rivinse le elezioni, ndr). La tesi dell'opera è piuttosto semplice: il precariato sul lavoro rende precari anche i sentimenti; non si possono avere legami duraturi con altre persone se si è precari, ma non solo per via dei soldi che scarseggiano, del mutuo che non si può pagare, dei figli che non puoi fare, e via dicendo. Ma proprio perchè il precariato è una dimensione mentale prima di tutto. Infettiva. Non è solo questione di contingenze. Non te ne sei accorto e ti ha già portato via qualche pezzo di vita, oltre al diritto ad un lavoro decente. Che poi il lavoro è vita. Giocare con la vita delle persone è criminale. Lucia (Rohrwacher... grande Alba, mi piaci un casino), montatrice a progetto presso la R.A.I., e Giovanni (Marco Foschi), attore di second'ordine che saltabecca da una fiction all'altra, stanno insieme da tre anni e hanno un bambino. I due giovani si sono prestati a farsi filmare da un paio di documentaristi che stanno mettendo insieme un lavoro sul precariato, i quali li tallonano giorno e notte, riprendendoli in continuazione. Giovanni però si sente schiacciato dalle responsabilità: una donna, un figlio, le ambizioni degli anni dell'entusiasmo che se ne vanno, probabilmente quel senso di vuoto che molti sentiamo, il senso di un pezzo che manca e continua a mancare. Il vuoto pesante. Insomma, gli gira il melone, molla Lucia e il bambino, se ne va di casa, conosce un'altra (Valentina Lodovini) e se ne innamora. I due documentaristi vedono il loro lavoro virare: dal precariato alla morte di un amore. Ma le due cose sono così diverse? Lucia si confida con le amiche, dà fuori di matto, tenta di riavvicinarsi a Giovanni, che la respinge. Poi lui cerca lei, lei un po' lo respinge, un po' no. Tutti sono confusi, tutti sono fragili, tutti si feriscono. Anche i due cameraman finiscono con l'essere ammorbati da questo stato di cose e tralasciano la propria vita per essere risucchiati, tramite la cinepresa, dalle vite di Giovanni e Lucia. Il linguaggio di questo film è interessantissimo, originale, funzionale. Le inquadrature "a spalla" dei due documentaristi si mescolano a quelle canoniche della Negri. Infatti, oltre che da una percezione di dolcezza immateriale, tutta la storia è pervasa dall'ironico senso di surrealtà che viene prodotto dalla costante presenza dei due cameraman a fianco dei protagonisti, anche nei momenti meno consoni. Ogni tanto i personaggi parlano alla macchina da presa, davanti ad uno sfondo blu, come fossero nel confessionale di un reality show. Un girato a confusione fredda, per così dire, che rispecchia lo stato d'animo dei personaggi. Si ride, ci si commuove, ci si incazza (soprattutto contro Giovanni... cazzo, da 'sto fillm noi maschietti ne usciamo proprio male). L'occhio femminile di Anna Negri non è particolarmente originale sul tema uomini bastardi-donne cornute e mazziate. Attenzione però, perchè gli stereotipi esistono, gli uomini stronzi ed egoisti esistono, e non è un crimine presentare un tema lacero, magari un po' banale, soprattutto se lo si fa con l'intelligenza ed onestà della regista. Penso che questo sia uno di quei film che possono piacere moltissimo o possono far cagare, senza grandi vie di mezzo. Secondo me Riprendimi è uno dei film italiani più belli degli ultimi anni. Molti significati nel titolo. Riprendimi (con la cinepresa), riprendimi (la richiesta di una donna che vuole indietro il suo uomo), riprendimi in senso fisico (Lucia e Giovanni fanno di nuovo l'amore dopo essersi lasciati). Due curiosità: 1- il film è prodotto da Francesca Neri, una delle donne più belle d'Italia; 2- Il film finisce con una canzone della Nannini, la meglio cantante che c'è in Italia; 2bis- Nel film sentirete la voce di Billie Holiday, la meglio cantante della storia.

Ivan Brentari

mercoledì 8 febbraio 2012

The Artist VS. Hugo Cabret

So bene che tutti i film sono diversi e che non bisognerebbe mai criticare un film riducendolo al confronto con un altro. Ma in questo caso farò un'eccezione, sia perchè i due lavori in questione sono i maggiori candidati per la vittoria dell'Oscar di quest'anno, sia perchè credo che il cinema vada comunque preso come un gioco, a maggior ragione da chi come me è un semplice appassionato e non un addetto del mestiere. Non posso negare che quest'anno i candidati alla statuetta di miglior film siano caratterizzati dalla Qualità. A memoria, i sei film su nove che sono stati distribuiti fino ad ora sono tra i migliori che siano mai stati proposti dall'Academy per la vittoria finale. Sono film che ribadiscono prepotentemente che cosa sia il Cinema: coraggio e sperimentazione ('The Tree Of Life'), sogno e nostalgia ('Midnight In Paris'), intelligenza e controllo ('Moneyball'), forza pedagogica ('The Help'). 'The Artist' e 'Hugo Cabret', invece, hanno l'ambizione di autocelebrare la Settima Arte, adottando però strade diverse. 'The Artist' (voto 9) aveva sulla carta la classica caratteristica più insopportabile: la programmaticità, fatto apposta per piacere a tutti. Hazanavicius, invece, compie un'operazione raffinatissima e anticonvenzionale. Utilizzando la forma del film muto in bianco e nero, ribadisce l'essenzialità del contenuto. Ogni passaggio di 'The Artist' possiede un'invenzione visiva che è allo stesso tempo narrativa: nessuna gag, nessuna inquadratura è lasciata al caso ma è finalizzata, in primis, al piacere del racconto e del divertimento e, soltanto dopo, all'omaggio. Da questo punto di vista, 'The Artist' è una sfida al tecnicismo, sfruttando però nello stesso tempo le armi della tecnica. Il bianco e nero estetizzante, la fotografia impeccabile, la pulizia e la precisione registica vengono adoperate al loro massimo potenziale. Eppure, se la storia non fosse stata tanto coinvolgente, se i due straordinari protagonisti Dujardin e Bejo non fossero stati così trascinanti, non grideremmo al capolavoro. 'Hugo Cabret' (voto 6), invece, utilizza come pretesto un racconto per ragazzi per riflettere sulla modernità e sulla tecnologia, e sul ruolo del Cinema nella Storia. Il vero protagonista è Georges Melies, il "padre" degli effetti speciali, che è costretto ad abbandonare il suo "sogno cinematografico" dopo che le vicende della Guerra hanno fatto sì che il pubblico respingesse il suo cinema d'avanguardia. Scorsese pone un parallelo tra l'origine del Cinema e la novità della visione tridimensionale. A tal proposito, 'Hugo Cabret' è il primo film che utilizza il tridimensionale per un fine narrativo, funzionale a un discorso metacinematografico. La sorpresa del 3D è la stessa del pubblico di fine Ottocento di fronte all'arrivo del treno alla stazione dei fratelli Lumiere? Ma anche no. In questo caso, lo sviluppo narrativo è in secondo piano rispetto all'aspetto tecnico e alla pulizia visiva. E' indubbio che con 'Hugo Cabret', Scorsese abbia voluto recuperare un' "innocenza della visione" (Mereghetti dixit) ma nello stesso tempo perde la necessità dell'emozione, e il risultato finale è algido e meccanico come gli ingranaggi di un proiettore. Ciononostante, rimane un'operazione di puro Cinema e vederlo gareggiare con 'The Artist' è la risposta a chi sostiene che ormai ci siano rimaste solo le serie televisive.

Emiliano Dal Toso



lunedì 6 febbraio 2012

Love Pleasures: Qualcosa E' Cambiato

Ecco la seconda puntata dei nostri piaceri d'amore preferiti. Tocca a Giancarlo Mazzetti parlare di 'Qualcosa è cambiato' , commedia capolavoro di James L. Brooks, uno che fa pochi film (Voglia di tenerezza, Dentro la notizia, Come lo sai) ma che li fa sempre bene.

Misantropo, misogino, omofobo, maniaco dell'ordine e della pulizia, razzista. Queste sono le peculiarità di Melvin, il personaggio interpretato magistralmente da Jack Nicholson (che vinse, per questo, un meritatissimo Oscar come miglior attore). Lo scorbutico scrittore vive un paradosso esistenziale per cui egli, bravissimo a scrivere d'amore e amatissimo dalle donne sue lettrici, nella vita rifugge qualsiasi sentimento umano, a meno che il cinismo non sia considerato uno di questi. Odia il cane del suo vicino - del quale cerca di sbarazzarsi già nella prima scena -, odia il suo dirimpettaio omosessuale (il buon Greg Kinnear), il quale, oltretutto, è fidanzato con una ragazzo di colore (l'eccezionale Cuba Gooding Jr, fresco dell'Oscar per Jerry Maguire). L'unica persona che tollera è Carol, la cameriera del locale in cui Melvin mangia tutti i giorni a pranzo: sempre alla stessa ora, sempre allo stesso tavolo, portandosi immancabilmente le posate da casa e servito sempre dalla stessa persona, per l'appunto Carol (Helen Hunt, anch'essa vincitrice della statuetta come miglior attrice per l'occasione). Il cast, come avrete notato dall'introduzione, è il fulcro della pellicola. I dettagli forniti dall'espressività dei personaggi sono gli indizi attraverso i quali si muove la trama; pochissimi primi piani fanno sì che Qualcosa è cambiato sia vicinissimo ad un'opera teatrale, anche per la scelta dei luoghi. Tutta la narrazione è costituita dal passaggio, molto graduale, di Melvin dalla misantropia più radicale al finale, decisivo e liberatorio amore per Carol (e questo è il motivo per cui è inserito in questa particolare rubrica). L'amore è la medicina, l'assenza di amore è la malattia stessa. Il fitto schema di rigida ripetizione rituale e maniacale, in cui Melvin ha incanalato la sua vita per sopravvivere al vuoto della solitudine, perde sempre più di importanza in contemporanea con lo sgretolarsi del muro che lo scrittore ha eretto tra sé e il mondo. La scala amoris che il protagonista percorre è di matrice quasi platonico-proustiana: dapprima arriva la contingenza a portare l'elemento di scardinamento – nella scena in cui Cuba Gooding Jr lo obbliga a prendersi cura del piccolo cane del vicino, emerge tutta la sua debolezza -, successivamente, sempre con maggior consapevolezza, è Melvin stesso a coltivare i rapporti umani che costituiscono la sua cura; si affeziona all'odiato cane, prova compassione per il vicino, coltiva l'amicizia e, infine, giunge a conoscere l'amore. La carte vincente del film (oltre al già menzionato cast) è la delicatezza. La commedia rosa che si conclude con il superamento della linea della nuova vita di Melvin ha poco a che vedere con la commedia che si apre all'inizio del film, ma il passaggio è sempre impercettibile (per questo sono necessari tutti i suoi 139 minuti) e, a ben vedere, anche i sentimenti e gli stati psicologici trattati sono sempre sfumati: un dolce amaro senza estremizzazioni.

Giancarlo Mazzetti

domenica 5 febbraio 2012

Hesher E' Stato Qui (voto 7)

Sarò molto indulgente con un film come 'Hesher è stato qui', opera prima di Spencer Susser, classico prodotto da Sundance Film Festival con la provincia americana in primo piano e difficoltà esistenzial-adolescenziali a fare da supporto insieme a personaggi di grande efficacia e simpatia. Sarò indulgente perchè sono un tifoso di Joseph Gordon-Levitt sin dai tempi di '10 cose che odio di te' e, oltretutto, il giovane trentenne americano nel corso degli anni si è rivelato un vero e proprio attore di grandissima versatilità, capace di passare dal tenero innamorato di '500 giorni insieme' a pellicole come 'Inception' e, ora, lo troviamo qui nei panni di un metallaro rozzo e volgare, che si intrufola nella casa di una famiglia disastrata, con padre sotto psicofarmaci dopo la morte della moglie, preadolescente tormentato vittima di bullismo e nonna mezzo genio mezza rincoglionita. Sarò indulgente, poi, perchè c'è anche Lei, la meravigliosa Natalie Portman, della quale sono sempre innamorato e anche quando cercano di renderla una cessa porta con sè la luce nei suoi occhi e nel suo sorriso. Il film ha qualche punto debole nella sceneggiatura, un po' faticosa, fragile, scattosa. Riesce, però, a possedere una propria poetica grezza e distruttiva, grazie a Hesher, vero "soggettone", personaggio ai limiti, descritto con grandissima sincerità e verità. Il cinema non ha mai raccontato il mondo dei metallari in maniera adeguata; Susser prova a farne un ritratto estremo, tratteggiando aspetti riprovevoli (linguaggio sboccato, peti a volontà, passione per gli incendi dolosi) e altri di grande umanità. Sulla carta, effettivamente, 'Hesher è stato qui' poteva diventare un indimenticabile cult  movie. Si limita a essere una visione carina, piacevole e agrodolce. La consacrazione definitiva di Gordon-Levitt, però, la aspettiamo con l'imminente '50 e 50', uno dei film più attesi dell'anno per il sottoscritto, nel quale farà coppia con un altro attore dal talento straordinario come Seth Rogen, pronto sulla rampa di lancio per raggiungere l'Olimpo degli dei della comicità americana.

Emiliano Dal Toso

sabato 4 febbraio 2012

L'Arte Di Vincere (voto 8) IL FILM DEL MESE

In America, nel mondo dello sport, con il termine Moneyball (titolo originale del film) si indica una strategia di gioco che predilige statistiche e calcoli matematici rispetto a schemi di gioco e all'esperienza sul campo. La parola è stata coniata nei primi anni del Duemila grazie all'incredibile storia di Billy Beane, general manager di una squadra di baseball, gli Oakland's Athletics, che con l'aiuto di un giovane laureato in economia, ricostruì il suo team basandosi sulle statistiche scientifiche piuttosto che sui giocatori celebri. Per coloro che non l'hanno visto, "L'arte di vincere" può correre il rischio di essere sottovalutato o frainteso. La storia di un manager sportivo che con pochi mezzi riesce a ottenere incredibili risultati non è nuova nel Cinema, anzi. E' una delle preferite incarnazioni del sogno americano. Un esempio lampante è "Jerry Maguire" di Cameron Crowe con Tom Cruise, storia dell'uomo che costruisce il suo destino e la sua fortuna in modo onesto nel mondo del football, riuscendo ad arrivare al successo dopo aver toccato il fondo. Nel film diretto da Bennet Miller la prospettiva è totalmente differente. Si può dire che già la morale insita nella storia sia scorretta: qui l'importante è vincere, non partecipare. Peccato che a incarnare l'uomo che deve realizzare il sogno americano ci sia un inesorabile perdente. Uno che a vincere non ci riesce proprio e già questo paradosso rende interessante l'opera. Il film deve moltissimo alla scelta del cast su cui primeggia Jonah Hill, intraprendente e brillante nella parte dell'attore non protagonista. Brad Pitt si dimostra a suo agio nel momento in cui deve interpretare personaggi fortemente calati nella realtà americana (da "In mezzo scorre il fiume" fino a "Burn after reading") ma la sua performance non è da Oscar. Leggermente al di sotto delle aspettative Philip Seymour Hoffman, di solito sempre impeccabile, regala qui un personaggio reso troppo sottotono. La sceneggiatura è molto solida e le scelte registiche sono apprezzabili in diverse situazioni. Nel suo insieme il risultato è più che buono. Molto interessante anche il fatto che sia un film incentrato sul baseball ma che in due ore e mezza non venga quasi mai ripresa una partita giocata. Quello che noi vediamo è esclusivamente la teoria del gioco. Solo il finale risulta troppo forzato nella ricerca voluta (ma inutile) dell'effetto strappa lacrime. Una storia diretta, efficace e originale che affonda le sue radici su un importante messaggio: a volte può esserci più dignità e gioia in una sola sconfitta che in tutte le vittorie del Mondo. E detto da una società che ha fatto dell'arrivismo socio-economico il suo punto di forza, non è una cosa da poco.

Alvise Wollner



mercoledì 1 febbraio 2012

Love Pleasures: Lost In Translation

Il bello, il brutto e il cattivo crede nella forza dell'amore. E, dato che ci crede, non aspettavamo altro che San Valentino per fare una carrellata dei nostri film preferiti su questo bellissimo e antico sentimento che unisce tante generazioni. Ovviamente, non stiamo parlando di quell'amore dei Baci Perugina e dei litigi su Facebook. Secondo noi, i film che selezioneremo da oggi al 14 febbraio sono quelli che meglio di tutti hanno colto il vero significato di questa abusata parola.

Bob Harris (Bill Murray) è un divo della tv americana che si trova a Tokyo per girare lo spot di un whisky: non parla giapponese e soffre d'insonnia. Charlotte (Scarlett Johansson) è una giovane donna, fresca di matrimonio, a Tokyo per seguire il marito, fotografo di moda che non vede mai: non parla giapponese e soffre d'insonnia. Anime simili, e sole, che non possono che incrociarsi. Attraverso una serie di incontri, di appuntamenti e di parole non dette, tra i due nasce un sentimento difficile da esprimere, da manifestare, ma impossibile da ignorare. A fare da sfondo a questa storia d'amore e d'amicizia, oltre a una colonna sonora di grande pregio, le luci ed i suoni assordanti di Tokyo, tripudio per gli occhi e luogo spersonalizzante in cui poter annullare emozioni, sentimenti, affetti. Sofia Coppola ci racconta una storia semplice, due solitudini che si incontrano. Una menzione più che speciale merita l'immenso Bill Murray, capace di far ridere e di intenerire con uno sguardo malinconico o con un abbozzo di sorriso, un attore unico che riesce sempre a creare un’atmosfera di rara raffinatezza e ironia (esempio lampante lo spot pubblicitario del whisky Santori ed i tentativi di comunicazione tra Bob e i giapponesi durante lo shooting fotografico: una sola espressione vale più di mille parole). Una commedia malinconica, equilibrata, coerente, dal grande senso poetico che ci fa tornare a credere nelle possibilità della vita. A farci amare ancor di più Lost in Translation arriva un finale intenso, e veramente commovente. Un film, che a nove anni dalla sua uscita, ancora non si può dimenticare.

Martina Pattonieri