Cosa ci prende, cosa si fa quando si ama davvero? Mistero.
<<Ma quanto era figo Kurt? Cazzo, quanto me lo sarei scopato>>. Queste parole sono state pronunciate da una diciottenne acerba, ancora intrisa di troppo spirito adolescenziale per avere il buon gusto di non infastidire con questa sgradevole dichiarazione un ventiquattrenne che ha trascorso giornate intere degli anni liceali ad ascoltare i Nirvana, a idolatrare Cobain imparandone a memoria i testi, leggendo libri su libri che parlassero di lui o del suo gruppo rivoluzionario, che ha riscritto la storia del rock e che ha cambiato la percezione della vita di molte persone richiamate dalla loro poetica, dalla loro rabbia, dalla loro disperazione. L'indignazione del nostro amico ventiquattrenne, però, non è giustificabile. Anche lui, come la giovane un po' superficiale, ha conosciuto Kurt Cobain soltanto
post mortem. O meglio, ha conosciuto una delle tanti versioni di Kurt Cobain, che sono state filtrate dai media dopo l'8 aprile 1994, la data del ritrovamento del suo cadavere. I seguaci dei Nirvana sono classificabili in due tipi: quelli che hanno assistito alla veloce e inarrestabile ascesa del terzetto di Aberdeen tra il l'89 e il 94, e quelli che invece non hanno potuto ammirarla, perché nel 94 erano troppo piccoli o forse non erano nemmeno nati. Questi ultimi hanno ascoltato
Nevermind sapendo già come sarebbe finita la storia, introiettandola nella sua dimensione drammatica e spettrale, inevitabilmente imposta dai mezzi di comunicazione e dal pensiero comune. Gli altri, invece, hanno potuto godere di una storia ancora da scrivere, più autentica e ricca di sfumature proprio perché incerta, priva di un'inevitabile lettura mediatica che ne ridefinisse i contenuti.
"Kurt Cobain è morto sparandosi con un fucile all'età di ventisette anni. Kurt Cobain è morto sparandosi con un fucile all'età di ventisette anni. Kurt Cobain è morto sparandosi con un fucile all'età di ventisette anni. Sappiatelo." Qualsiasi biografia più o meno autorizzata, qualsiasi quotidiano, qualsiasi rivista specializzata, qualsiasi documentario che si sia occupato del cantante dei Nirvana contiene questo sottotesto, che pregiudica drasticamente un approccio puro e incondizionato. Ogni seguace
post mortem dei Nirvana ha una propria idea di Kurt Cobain che non rispecchierà mai la verità. Da una parte, le
teenager in piena esplosione ormonale si soffermano comprensibilmente sull'aspetto "bello e maledetto". Da un'altra, i giovani intellettuali si illudono di avere un'esclusiva capacità di interpretare i pensieri di Kurt, le emozioni di Kurt, il dolore di Kurt. Da un'altra ancora, ci sono i cinici, secondo i quali Kurt Cobain non era altro che una rockstar viziata e tossicodipendente, incapace di gestire il successo, fragile e vigliacca. In
The Wrestler di Darren Aronofsky - uno dei miei film preferiti girato da uno dei miei registi preferiti - il personaggio di Randy "The Ram" Robinson, interpretato da uno straordinario Mickey Rourke, elogia il rock degli anni Ottanta, menzionando band come i Motley Crue e i Def Leppard, per poi sentenziare: "Quei gruppi sì che erano forti, dopo è arrivato quel frocio di Kurt Cobain dei Nirvana che ha rovinato tutto". Ed è proprio così, il buon Mickey non si può biasimare: l'esplosione a livello globale del grunge e della sua emotività, della sua sensibilità travestita da
riff spigolosi ha fatto piazza pulita di un certo tipo di rock, quello più legato allo stereotipo dei muscoli e del sesso sfrenato nei camerini.
Ricordo ancora il giorno in cui ho comprato il cd di
Nevermind in un piccolo negozio milanese di Piazza Cinque Giornate che oggi non esiste più. Chi mi conosce sa bene che anche per me, come per tanti altri ragazzi, Kurt Cobain ha ricoperto nella giovinezza un ruolo fondamentale: improvvisamente, il mondo mi è sembrato tutto uno schifo anche se non ero in grado di elencare con precisione i motivi; addirittura il calcio mi sembrava facesse parte di un sistema malato da rifiutare; non andavo più a scuola indossando una comoda quanto goffa tuta da ginnastica rossa ma dei jeans che strappavo volontariamente, oltre a una t-shirt a mezze maniche sotto a una camicia di flanella. Anche io rivendicavo una mia diversità e una sorta di contatto extrasensoriale con Kurt Cobain, convinto di essere l'unico individuo al mondo in grado di aver saputo cogliere il suo disagio esistenziale. Nella mia testa, mi trovavo con Kurt a casa sua, durante i suoi ultimi giorni, e mi immaginavo un dialogo di questo tipo: <<Ehi, Emi.>> <<Ehi, Kurt.>> <<E' tutto uno schifo.>> <<Eh, lo so.>> <<Lo sai, vero?>> <<Lo so, cazzo, lo so.>> Anche io, esattamente come tutti gli altri, ero certo che sarei stato l'unica persona al mondo che avrebbe potuto salvarlo, perché finalmente avrebbe trovato qualcuno capace di comprendere davvero i suoi sentimenti. In un'intervista recente, il cantante dei Blur Damon Albarn, a proposito di Cobain, ha dichiarato: <<Mi sembra che il processo di santificazione sia proceduto molto bene. C'è un commercio piuttosto florido sui morti del rock. La leggenda è una costruzione a posteriori.>> Damon Albarn ha perfettamente ragione.
Eppure. Eppure, nonostante l'indignazione, quel ventiquattrenne di cui parlavamo, che crede di sapere già tutto della vita e dei Nirvana, finisce con l'innamorarsi della diciottenne, che però non lo ricambia. Ed ecco che Kurt Cobain torna ad avere un senso. Non esistono classificazioni per quanto riguarda l'ascolto delle canzoni dei Nirvana. Di fronte alla musica, siamo tutti uguali. E per quanto la leggenda sia stata costruita a posteriori, nessuno come Cobain ha espresso così nitidamente un sentimento ben preciso, che percorre tutto il suo percorso artistico. Non è necessario conoscere l'inglese per capire di cosa parla Kurt nelle sue canzoni: lo si intende dalla sua voce, dalla sua intensità, dalla riconoscibilità del suono grezzo ma definitivo che lui e i suoi compagni di squadra hanno dato alle composizioni. Si potrebbe non sapere niente di Cobain, non conoscere la sua infanzia o le ragioni che lo hanno spinto a voler farla finita, così come si potrebbe ignorare completamente il suo rapporto con l'eroina. Qualsiasi brano dei Nirvana, ripeto, qualsiasi brano dei Nirvana è dedicato a chi deve reprimere il suo desiderio, a chi non è ricambiato, a chi non è riconosciuto, a chi avrebbe voluto ma non ha potuto. In
Vita di Pi di Ang Lee - un regista che non amo particolarmente - c'è una scena che porto nel cuore: verso il finale, il protagonista è costretto a dire addio a Richard Parker, la tigre che ha ammaestrato durante i giorni passati su una zattera in mezzo all'oceano. <<La cosa che mi ha fatto più male è che quando ci siamo lasciati non si è voltata. Abbiamo condiviso la più incredibile delle avventure ma lei è andata avanti, e io non potrò mai sapere se anche lei ha provato almeno in minima parte quello che ho provato io>>.
Emiliano Dal Toso