venerdì 17 aprile 2015

Mia Madre

Di cosa parliamo quando parliamo di Nanni Moretti? Io sinceramente non lo so, a volte ho l'impressione che non ce ne sia soltanto uno, ma che esistano tanti Nanni Moretti, ciascuno dei quali dedito a diverse occupazioni: c'è il Nanni Moretti "girotondino", che molti avrebbero auspicato come leader del centro-sinistra all'inizio del millennio; c'è il Nanni Moretti presidente del Festival di Cannes, che premia soltanto opere austriache o rumene, ed è un nemico dichiarato del cinema americano; c'è il Nanni Moretti icona hipster, il Nanni Moretti pallanuotista, il Nanni Moretti produttore, il Nanni Moretti "dispiaciuto di non essere credente". E poi, c'è il Nanni Moretti regista, che è indubbiamente quello che preferiamo e a cui vogliamo più bene, l'unico davvero insostituibile. Secondo l'opinione comune, Caro diario è il suo ultimo grande film. "La stanza del figlio? Il caimano? Habemus Papam? Sì, belli, ma non come Caro diario". Mi prendo umilmente e con un po' di timore il permesso di dissentire, almeno per quel che riguarda gli ultimi due: credo che Il caimano sia l'apice della sua poetica, il trionfo del Moretti-pensiero, un film inarrivabile che ha profondamente deluso chiunque si aspettasse un approccio retorico su Berlusconi e il berlusconismo; così come Habemus Papam ha disatteso le aspettative di chi preannunciava una pellicola indirizzata a bersagliare la Chiesa e il sistema ecclesiastico. Entrambi raggiungono un equilibrio miracoloso tra pubblico e privato, mettendo sempre l'Uomo al centro di un discorso esistenzial-politico. Per questo, mi ha sorpreso leggere alcune recensioni di Mia madre che sottolineano l'inedito intimismo di Moretti, la sorprendente abilità di coniugare comicità e dramma, ironia e disincanto. Dal mio punto di vista, questa capacità di bilanciare i toni e di alternare con grande coerenza le diverse sfumature della vita è il vero marchio di fabbrica, il grande tratto distintivo del suo cinema. E Mia madre, rispetto agli altri, dichiara apertamente questa sua natura: da una parte, il dolore della perdita all'interno del nucleo famigliare (tema già ampiamente sviluppato ne La stanza del figlio); dall'altra, la comica disavventura della quotidianità, che si esprime attraverso gli ostacoli che la protagonista Margherita deve affrontare sul set di un film, a cominciare dal rapporto con un insopportabile ed egocentrico attore americano (e, inevitabilmente, torna in mente Il caimano). Questa maggiore trasparenza d'intenti potrebbe aver smorzato un po' la creatività e la sana follia del suo autore: ciò non toglie che Mia madre sia comunque un buon film, nel quale in realtà si ride di meno e ci si emoziona di meno rispetto alle precedenti fatiche di questo poliedrico intellettuale.

Emiliano Dal Toso




domenica 12 aprile 2015

Kurt Cobain - Esposizione Di Un Sentimento

Cosa ci prende, cosa si fa quando si ama davvero? Mistero.

<<Ma quanto era figo Kurt? Cazzo, quanto me lo sarei scopato>>. Queste parole sono state pronunciate da una diciottenne acerba, ancora intrisa di troppo spirito adolescenziale per avere il buon gusto di non infastidire con questa sgradevole dichiarazione un ventiquattrenne che ha trascorso giornate intere degli anni liceali ad ascoltare i Nirvana, a idolatrare Cobain imparandone a memoria i testi, leggendo libri su libri che parlassero di lui o del suo gruppo rivoluzionario, che ha riscritto la storia del rock e che ha cambiato la percezione della vita di molte persone richiamate dalla loro poetica, dalla loro rabbia, dalla loro disperazione. L'indignazione del nostro amico ventiquattrenne, però, non è giustificabile. Anche lui, come la giovane un po' superficiale, ha conosciuto Kurt Cobain soltanto post mortem. O meglio, ha conosciuto una delle tanti versioni di Kurt Cobain, che sono state filtrate dai media dopo l'8 aprile 1994, la data del ritrovamento del suo cadavere. I seguaci dei Nirvana sono classificabili in due tipi: quelli che hanno assistito alla veloce e inarrestabile ascesa del terzetto di Aberdeen tra il l'89 e il 94, e quelli che invece non hanno potuto ammirarla, perché nel 94 erano troppo piccoli o forse non erano nemmeno nati. Questi ultimi hanno ascoltato Nevermind sapendo già come sarebbe finita la storia, introiettandola nella sua dimensione drammatica e spettrale, inevitabilmente imposta dai mezzi di comunicazione e dal pensiero comune. Gli altri, invece, hanno potuto godere di una storia ancora da scrivere, più autentica e ricca di sfumature proprio perché incerta, priva di un'inevitabile lettura mediatica che ne ridefinisse i contenuti.

"Kurt Cobain è morto sparandosi con un fucile all'età di ventisette anni. Kurt Cobain è morto sparandosi con un fucile all'età di ventisette anni. Kurt Cobain è morto sparandosi con un fucile all'età di ventisette anni. Sappiatelo." Qualsiasi biografia più o meno autorizzata, qualsiasi quotidiano, qualsiasi rivista specializzata, qualsiasi documentario che si sia occupato del cantante dei Nirvana contiene questo sottotesto, che pregiudica drasticamente un approccio puro e incondizionato. Ogni seguace post mortem dei Nirvana ha una propria idea di Kurt Cobain che non rispecchierà mai la verità. Da una parte, le teenager in piena esplosione ormonale si soffermano comprensibilmente sull'aspetto "bello e maledetto". Da un'altra, i giovani intellettuali si illudono di avere un'esclusiva capacità di interpretare i pensieri di Kurt, le emozioni di Kurt, il dolore di Kurt. Da un'altra ancora, ci sono i cinici, secondo i quali Kurt Cobain non era altro che una rockstar viziata e tossicodipendente, incapace di gestire il successo, fragile e vigliacca. In The Wrestler di Darren Aronofsky - uno dei miei film preferiti girato da uno dei miei registi preferiti - il personaggio di Randy "The Ram" Robinson, interpretato da uno straordinario Mickey Rourke, elogia il rock degli anni Ottanta, menzionando band come i Motley Crue e i Def Leppard, per poi sentenziare: "Quei gruppi sì che erano forti, dopo è arrivato quel frocio di Kurt Cobain dei Nirvana che ha rovinato tutto". Ed è proprio così, il buon Mickey non si può biasimare: l'esplosione a livello globale del grunge e della sua emotività, della sua sensibilità travestita da riff spigolosi ha fatto piazza pulita di un certo tipo di rock, quello più legato allo stereotipo dei muscoli e del sesso sfrenato nei camerini.

Ricordo ancora il giorno in cui ho comprato il cd di Nevermind in un piccolo negozio milanese di Piazza Cinque Giornate che oggi non esiste più. Chi mi conosce sa bene che anche per me, come per tanti altri ragazzi, Kurt Cobain ha ricoperto nella giovinezza un ruolo fondamentale: improvvisamente, il mondo mi è sembrato tutto uno schifo anche se non ero in grado di elencare con precisione i motivi; addirittura il calcio mi sembrava facesse parte di un sistema malato da rifiutare; non andavo più a scuola indossando una comoda quanto goffa tuta da ginnastica rossa ma dei jeans che strappavo volontariamente, oltre a una t-shirt a mezze maniche sotto a una camicia di flanella. Anche io rivendicavo una mia diversità e una sorta di contatto extrasensoriale con Kurt Cobain, convinto di essere l'unico individuo al mondo in grado di aver saputo cogliere il suo disagio esistenziale. Nella mia testa, mi trovavo con Kurt a casa sua, durante i suoi ultimi giorni, e mi immaginavo un dialogo di questo tipo: <<Ehi, Emi.>> <<Ehi, Kurt.>> <<E' tutto uno schifo.>> <<Eh, lo so.>> <<Lo sai, vero?>> <<Lo so, cazzo, lo so.>> Anche io, esattamente come tutti gli altri, ero certo che sarei stato l'unica persona al mondo che avrebbe potuto salvarlo, perché finalmente avrebbe trovato qualcuno capace di comprendere davvero i suoi sentimenti. In un'intervista recente, il cantante dei Blur Damon Albarn, a proposito di Cobain, ha dichiarato: <<Mi sembra che il processo di santificazione sia proceduto molto bene. C'è un commercio piuttosto florido sui morti del rock. La leggenda è una costruzione a posteriori.>> Damon Albarn ha perfettamente ragione.

Eppure. Eppure, nonostante l'indignazione, quel ventiquattrenne di cui parlavamo, che crede di sapere già tutto della vita e dei Nirvana, finisce con l'innamorarsi della diciottenne, che però non lo ricambia. Ed ecco che Kurt Cobain torna ad avere un senso. Non esistono classificazioni per quanto riguarda l'ascolto delle canzoni dei Nirvana. Di fronte alla musica, siamo tutti uguali. E per quanto la leggenda sia stata costruita a posteriori, nessuno come Cobain ha espresso così nitidamente un sentimento ben preciso, che percorre tutto il suo percorso artistico. Non è necessario conoscere l'inglese per capire di cosa parla Kurt nelle sue canzoni: lo si intende dalla sua voce, dalla sua intensità, dalla riconoscibilità del suono grezzo ma definitivo che lui e i suoi compagni di squadra hanno dato alle composizioni. Si potrebbe non sapere niente di Cobain, non conoscere la sua infanzia o le ragioni che lo hanno spinto a voler farla finita, così come si potrebbe ignorare completamente il suo rapporto con l'eroina. Qualsiasi brano dei Nirvana, ripeto, qualsiasi brano dei Nirvana è dedicato a chi deve reprimere il suo desiderio, a chi non è ricambiato, a chi non è riconosciuto, a chi avrebbe voluto ma non ha potuto. In Vita di Pi di Ang Lee - un regista che non amo particolarmente - c'è una scena che porto nel cuore: verso il finale, il protagonista è costretto a dire addio a Richard Parker, la tigre che ha ammaestrato durante i giorni passati su una zattera in mezzo all'oceano. <<La cosa che mi ha fatto più male è che quando ci siamo lasciati non si è voltata. Abbiamo condiviso la più incredibile delle avventure ma lei è andata avanti, e io non potrò mai sapere se anche lei ha provato almeno in minima parte quello che ho provato io>>.

Emiliano Dal Toso


martedì 7 aprile 2015

Riflessioni Spiazzanti: L'Immagine

A distanza ravvicinata, mi è capitato di vedere la versione director's cut di 'Nymphomaniac' di Lars von Trier e 'Tusk', il nuovo scioccante lavoro di Kevin Smith. Entrambi mi hanno fatto ricordare che il cinema è soprattutto immagini, e che la parola conta fino a un certo punto. Il capolavoro del regista danese è ufficialmente arrivato nei cinema in una veste deforme, dimezzata, che non ha impedito alla pellicola di essere comunque tra le migliori dell'anno passato: il taglio è relativo, in modo particolare, alla seconda parte del film, nella quale l'eroina Joe/Charlotte Gainsbourg rimane incinta, non le viene concesso di abortire e sceglie di farlo autonomamente, con gli strumenti che ha a disposizione in casa. Questa parte del racconto vontrieriano (decisamente importante per comprendere nel migliore dei modi l'evoluzione della protagonista) dura circa mezz'ora e non si è vista nelle sale cinematografiche, non soltanto nostrane, ma di tutte le parti del mondo, eccetto Venezia. Gli urlati scandali che hanno accompagnato l'uscita di 'Nymphomaniac' vertevano sul desiderio represso di assistere a scene pornografiche sul grande schermo, eppure, benché non manchino una dose narrativamente necessaria di  fellatio e cunnilingus, l'unico grande tema che è stato vittima da parte della censura mondiale è quello dell'aborto. Aborto che viene mostrato in maniera più che dettagliata dal buon Lars, che piazza una telecamera fissa davanti alla vagina della Gainsbourg, come nessun altro prima aveva osato mai. La sequenza è certamente forte e disturbante ma mai gratuita: coerenza è la parola d'ordine, il cinema è anche e soprattutto mostrare, far vedere. E se da una parte una sorta di contagio ipocrita globale ha comportato che non si potesse nemmeno sentir nominare il termine 'aborto' nel film di von Trier, rendendolo ciò che non è nella sua interezza e nella sua verità, dall'altra parte l'autore di 'Antichrist' ha ribadito, nuovamente, che la forza immaginifica del cinema non è soltanto un diritto ma anche un dovere. Lars porta avanti la stessa identica battaglia ideologica di un cineasta apparentemente distante come Kevin Smith, che in 'Tusk' se ne esce fuori con un'opera potentissima e sgradevole, scagliandosi violentemente contro l'ironia postmoderna 2.0, contro il cattivo gusto di internet, contro la ricerca malsana della notizia spazzatura e dello sberleffo ad ogni costo. Per farlo, si serve dell'horror, il genere più "visionario" e stimolante per gli occhi, mostrando la ripugnante trasformazione di un conduttore di podcast alla ricerca cinica e spasmodica dello "scemo del villaggio" in un tricheco. Una follia, che può senz'altro suscitare un salutare ribrezzo: per le parole e per sentirsi dire quello che si vuole ci sono sempre Fabio Fazio e Daria Bignardi.

Emiliano Dal Toso



venerdì 3 aprile 2015

Playlist: Top Ten Canzoni Nei Film

10 - Heart Of Glass - Blondie da I padroni della notte
Avrei probabilmente sempre ignorato l'esistenza dei Blondie se non fosse stato per l'efficace utilizzo di alcune loro canzoni in molte pellicole da me apprezzate. Il gruppo della ex coniglietta di Playboy Deborah Harry non passa inosservato nel capolavoro di James Gray 'We own the night' quando Joaquin Phoenix bacia appassionatamente Eva Mendes, appena prima di metterle una mano in mezzo alle gambe e di dover fare i conti con padre e fratello poliziotti e tendenza all'autodistruzione.

9 - Whole Wide World - Eric Wreckless da Vero come la finzione
Eric Wreckless, chi è questo sconosciuto? Ignoto al grande pubblico, verso la fine degli anni Settanta scrisse questo bellissimo pezzo che lo stralunato esattore delle tasse Will Ferrell recupera in 'Stranger than fiction', riuscendo a far innamorare la pasticciera anarchica Maggie Gyllenhaal e a dare una svolta alla sua noiosa e prevedibile esistenza. Oggi, Wreckless continua a pubblicare album e a fare concerti, sempre soltanto per una ristrettissima cerchia di fedelissimi.

8 - Don't Want To Know If You Are Lonely - Husker Du da Adventureland
Se parliamo degli Husker Du, invece, parliamo di uno dei più importanti gruppi hardcore degli anni Ottanta, dall'impronta fortemente melodica e orecchiabile, precursore di gruppi come Weezer e Green Day. E in 'Adventureland' calzano perfettamente l'umore di una pellicola malinconica e nostalgica, ambientata nell'estate del 1987, nella quale l'irruenza ormonale e cameratesca si alterna con il battito cardiaco accelerato, gli occhi sempre aperti, la testa sempre assente.

7 - I'm Gonna Be (500 Miles) - The Proclaimers da La parte degli angeli
Dalla Scozia con furore. Da una parte, due gemelli monovulari che scrivono deliziose canzoni Pop, che sanno un po' anche di Folk, Country e Punk. Dall'altra, il film più scanzonato e allegro di Ken Loach, nel quale si può sognare ancora un riscatto sociale da parte degli ultimi e degli emarginati. Eppure, i Proclaimers non mantennero le promesse di un album come 'Sunshine On Leith' e gradualmente ci si dimenticò di loro, salvo recuperarli in extremis grazie a Loach e alla serie tv 'How I Met Your Mother'.

6 - I'm Shipping Up To Boston - Dropkick Murphys da The Departed
Martin Scorsese vuole i Dropkick Murphys per la colonna sonora dell'opera che finalmente gli frutterà l'Oscar per miglior regista, pretendendo il loro brano più rabbioso e cazzuto di sempre. Il risultato? Due minuti e mezzo di adrenalina pura, che si sposano magistralmente con un racconto di vendetta e criminalità organizzata, molto simile a una commedia degli equivoci, a un gioco di maschere e di specchi. Impagabile il delirio ai concerti.

5 - Here Comes Your Man - Pixies da 500 Giorni Insieme
Va bene, qui stiamo parlando di una delle band più importanti della storia dell'Alternative Rock, forse inadatta per quella che è apparentemente soltanto una commediola sentimentale e giovanilista. Ma non è possibile non amare Joseph Gordan-Levitt quando, completamente sbronzo, intona al karaoke i Pixies, divertendo una Zooey Deschanel che, a breve, gli avrebbe devastato il cuore. Per chi scrive, molto meglio loro degli Smiths.

4 - Modern Love - David Bowie da Frances Ha
Greta Gerwig corre e corre, ma dove va? Noah Baumbach cita genialmente una scena di 'Rosso sangue' di Leos Carax e offre alla sua musa un personaggio indimenticabile, a cui piacciono "le cose che sembrano errori". Le note di David Bowie, sullo sfondo, accompagnano i giorni di questa aspirante ballerina, decisamente "infidanzabile", abbandonata dalla migliore amica e da tutte le certezze ma dotata di un'adorabile e dolcissima vis comica.

3 - Amore Disperato - Nada da Mio fratello è figlio unico
Insieme a Non pensarci (che contiene altrettante gemme nella colonna sonora), è la più bella commedia italiana agrodolce dello scorso decennio. Protagonista assoluto è un Elio Germano irrefrenabile nel ruolo che lo ha consacrato definitivamente, dapprima fascista convinto, e poi marxista-leninista, alla confusa ricerca di una maturità difficile da ottenere. E nella sua incapacità di non combinare cazzate, si riconosce sin troppo il bisogno di "amore disperato". 

2 - On Ne Change Pas - Celine Dion da Mommy
Mai avrei pensato che nella mia vita avrei ascoltato una canzone di Celine Dion per giorni interi. Ma il romanticismo spinto, kitsch, un po' naif e sfacciatamente pop di Xavier Dolan ha avuto la meglio. Nella soundtrack, tante altre canzoni, anche più nobili: da Beck agli Oasis, fino ai Counting Crows, ma è soltanto con Celine che l'affetto brutale di Antoine-Olivier Pilon ci fa sobbalzare sulla sedia e ci costringe ad asciugare le lacrime.

1 - More Than This - Roxy Music da Lost In Translation
Bill Murray al microfono, il resto non conta. Insuperato e insuperabile, apologia della malinconia e degli amori troppo in ritardo o troppo in anticipo: dietro a ogni disilluso si nasconde un romantico frustrato. Probabilmente, la mia scena preferita in assoluto, anche se Sofia Coppola non è mai più riuscita a cogliere così tanta bellezza. Bastano Bill e Scarlett Johansson, bastano Tokyo e lo spaesamento di chi per andare avanti guarda soltanto nello specchietto retrovisore.