sabato 29 dicembre 2012

Tre Belli - Dicembre 2012

La Parte Degli Angeli - Ken Loach
Il più bel film di Natale. Ken è costretto a fare i conti con la fine dei sogni e, per non piangere, si dedica a un'altra favola proletaria, col cuore di chi non ha mai alcun dubbio per chi parteggiare. I suoi misfits regalano alcuni momenti di comicità vera, umana, senza aver nulla da perdere perchè ormai non si ha più niente. Ad inseguire una strada migliore, a stringere i denti e a sputare per terra, perchè il mondo non si può cambiare ma dobbiamo almeno assaggiare il suo gusto più dolce. Voto: 8

Ruby Sparks - Jonathan Dayton, Valerie Faris
Vorremmo tutti la nostra Ruby Sparks, vedersi materializzare la nostra ragazza dei sogni, solo per noi, tutta per noi, come piace a noi. O forse no. Un bravissimo e alleniano Paul Dano, scrittore enfant prodige in crisi creativa, è il trascinatore di una commedia molto carina, forse troppo, che diverte e si fa dimenticare. Restano, però, un paio di passaggi da inguaribili romantici, nel quale il nostro lato più malinconico prende il sopravvento e ci invade. Voto: 7

E Se Vivessimo Tutti Insieme? - Stephane Robelin
Una sorpresa inaspettata, un ritratto della terza età tenero e realista, molto più vicino agli aspetti dolorosi ma ancora vitali della Polley di Away From Her piuttosto che alla cupa e pesante descrizione di Haneke. Robelin calibra ottimamente sorriso e lacrima, sostenuto da un quintetto di attori in grandissima condizione (Jane Fonda su tutti). Cinema francese, mai superficiale, si esce dalla sala con l'umore un po' più alto. Voto: 7
Emiliano Dal Toso
 





 


mercoledì 26 dicembre 2012

Paul Thomas Anderson Gallery: Ubriaco D'Amore

Ho una tale forza dentro che neanche te la sogni.
 
Rimarrà alla storia come il film minore di Paul Thomas Anderson, forse perchè il più corto, forse perchè il meno articolato, forse perchè viene immediatamente dopo Magnolia. Ubriaco D'Amore è sghembo, spiazzante. E' certamente il lavoro più suggestivo, anarchico ed ermetico di Anderson, quello in cui il regista americano si fa maggiormente trascinare dall'intuito, dall'irrazionalità, dal proprio talento tecnico. Stilisticamente, mette le basi per il successivo Il Petroliere. Contenutisticamente, prosegue il discorso di Magnolia sull'insensatezza delle combinazioni e sull'inspiegabilità del mondo. Si concentra sulla vita di Barry Egan, americano goffo, insicuro, schiacciato dal peso di sette insopportabili sorelle. Uno che non poteva far altro che mettere su una ditta di sturalavandini. Uno che non ha altri interessi che comprare la maggior quantità possibile di budini per sfruttare una promozione che permette di accumulare miglia aeree. Uno che chiama le linee erotiche e le utilizza per parlare della propria vita personale. Conosce Lena che, forse per spirito crocerossino forse per nessun motivo sensato, si interessa a lui, finendo per innamorarsene. Lui, però, prima deve comprare più budini possibili e risolvere una questione con quelli delle linee erotiche, che stavano per approfittarsi della sua ingenuità per utilizzare la sua carta di credito. Barry Egan è interpretato da Adam Sandler, attore che prima di Ubriaco D'Amore aveva girato soltanto film demenziali di grado bassissimo, robe in confronto alle quali i Farrelly hanno la profondità di Bergman. Per questo, probabilmente, il quarto lavoro di Paul Thomas non è stato subito preso sul serio. Lo metto subito in chiaro: Sandler è gigantesco. Paul Thomas gli tira fuori tutto ciò che di drammatico, patetico, terribile e romantico nasconde un attore comico. Lo esalta, portandolo a diventare un termine di paragone (spesso, con gli amici, lo prendo come esempio per confrontare prestazioni di altri attori comici in ruoli più o meno drammatici). Come Carrey in The Truman Show. Come Ferrell in Vero come la finzione. Peccato che solo in poche altre occasioni Sandler si sia ripetuto (molto bene in Funny People e Spanglish, meno bene in Reign Over Me). Per il resto, Ubriaco D'Amore prende una direzione tutta sua, quasi sbeffeggiando i canoni della commedia classica americana. Racconta una storia d'amore vissuta da un uomo che non ha la minima comprensione di che cosa sia il mondo e come funzioni. Almeno un paio di passaggi di bellezza esagerata: la prima telefonata alla linea erotica, girata in interno con un lungo piano sequenza (dio, come usa il piano sequenza); la citofonata di Lena al portinaio per avvisare Barry che lo avrebbe voluto baciare. E' una delle commedie romantiche più disequilibrate e parossistiche del decennio passato, una delle più belle. Forse, più di Magnolia, è il vero film di Paul Thomas sul vuoto pneumatico dell'esistenza.

Emiliano Dal Toso
 


lunedì 24 dicembre 2012

Paul Thomas Anderson Gallery: Il Petroliere

Io sono un falso profeta, Dio è una superstizione.
 
Credo che sia dovuto prepararsi all'uscita imminente di The Master ripassando un po' la filmografia di Paul Thomas Anderson, dal mio punto di vista il regista americano più importante e imponente degli ultimi vent'anni, forse l'unico che persegue una statura classica e magniloquente ma, nello stesso tempo, autorale e fortemente anticommerciale. Non c'è il minimo dubbio che Il Petroliere sia un film epico, e potrebbe apparire come il recupero di un certo cinema popolare e colossale, caratterizzato da un grosso dispendio di mezzi e di denaro. E' sorprendente, invece, che il costo totale del film non superi i 25 milioni di dollari, cifra assolutamente contenuta per gli standard hollywoodiani. Ciò non toglie che il quinto lavoro di Paul Thomas sia uno spettacolo assoluto di sfruttamento di tutte le risorse possibili che può offrire una macchina da presa. Anderson si era già rivelato un regista tecnicamente mostruoso con Magnolia, ma in questo caso compie un lavoro davvero eccezionale, coordinando come un direttore d'orchestra ogni minimo aspetto. Numerose sequenze sono caratterizzate da un graduale crescendo che si realizza con piani sequenza e carrellate, supportate da una colonna sonora nervosa e sincopata, fatta di incessanti dissonanze minimali. L'effetto è pazzesco, un registro tecnico perfettamente in sintonia con il suo contenuto. Il Petroliere racconta l'ascesa economica di Daniel Plainview, cercatore di petrolio, descrivendolo in tutta la sua devastante ambizione. Paul Thomas scava nelle radici del capitalismo, concentrandosi sulla sua naturale e smisurata negatività. Sarebbe, però, semplicistico concentrarsi esclusivamente sugli aspetti legati al denaro e al potere. Come tutti i suoi lavori precedenti, descrive gli aspetti dominanti della società americana, contrapponendoli, analizzando le sue contraddizioni: il successo, la famiglia, la religione, l'individualismo. A tal proposito, emblematici  i contrasti tra il capitalista Plainview e l'evangelista Eli Sunday, entrambi rappresentanti di due capisaldi della cultura americana, entrambi corrotti e corruttori, spinti al compromesso soltanto per convenienza, affamati di cupidigia e sopraffazione. Vorrebbero scannarsi in ogni sequenza ma non lo fanno perchè l'uno può essere utile all'altro, almeno fino a quando non rimane altro che il desiderio di umiliazione. Troppi i passaggi indimenticabili: impossibile non segnalare l'incidente che causa la sordità del piccolo H.W., adottato da Plainview per questioni di immagine e non per desiderio di paternità; la confessione di Plainview in Chiesa e la sua richiesta di perdono; l'animalesca resa dei conti in una sala da bowling. Di fronte a questa grandiosa parabola di fango, sangue e nichilista ricerca della felicità, le donne scompaiono, non hanno un ruolo. Uscito in Italia nei primi mesi del 2008, ebbe 8 nomination agli Oscar, tra le quali quella per Miglior Film, che andò scandalosamente a Non è un paese per vecchi. Vinse per la fotografia e per il Miglior Attore, un Daniel Day-Lewis da Storia Del Cinema, posseduto da Satana e da Dio.
 
Emiliano Dal Toso
 
 

 

giovedì 20 dicembre 2012

The French Touch: Dobermann

Giallo: buon intreccio narrativo, convenzionale senso morale del protagonista, lieto fine. Noir: intreccio narrativo curato maniacalmente, protagonista vittima di una personalissima e cristallina etica, velata critica sociale, tutti i personaggi dotati di un lato oscuro. Hard boiled: esilissimo intreccio della trama, la morale se ne va nel cesso, tutti cattivi, ultraviolenza. Le grandi regole sono più o meno queste. Nel 1997 Jan Kounen, olandese adottato dalla Francia, ha girato un capolavoro assoluto dell'hard boiled, "Dobermann". Il film è tratto da una serie di fumetti degli anni Ottanta del parigino Joel Houssin. La trama è una cazzata. Il bandito Dobermann (Vincent Cassel) rapina banche assieme alla fidanzata sordomuta (incredibilmente Monica Bellucci) e ad un improbabile circo di criminali. C'è quello ossessionato dalla religione che cita passi della Bibbia, c'è il feroce tenerone che non si separa mai dal suo cagnolino, c'è lo schizzato erotomane (Romain Duris), c'è il travestito con tanto di figlio lattante, e così via. Sono dei bastardi. Ma gli sbirri sono anche peggio. Uno su tutti, l'ispettore Cristini, sanguinario, ricattatore, simile a Mussolini nell'aspetto. Dopo una rapina la banda festeggia in un night, ma Cristini irrompe nel locale coi suoi uomini e inizia un massacro scandito dai battiti della musica techno. Alla fine il Dobermann ammazza Cristini tenendogli la testa premuta sull'asfalto, mentre sta andando a cento all'ora lungo uno dei tunnel di Parigi. Le donne sono puttane, gli uomini assassini, i travestiti traditori. Non esiste nulla di buono, tranne la cocaina. Solo un flebile soffio di ironia. Questo è l'hard boiled. Che poi magari non piace, però è questo. D'altra parte "Dobermann" è un cult, e i cult non piacciono mai a tutti. Piccola nota: durante il dolly verso l'alto che allontana la macchina da presa dal cadavere di Cristini, l'ispettore assomiglia paurosamente al duce tumefatto, fotografato dopo piazzale Loreto. Il caso non è un caso in questo film, per questo è un ottimo lavoro e non una fregnaccia, come poteva essere. Cristini, infatti, è un cognome italiano. E finisce pure in "ini".

Ivan Brentari


lunedì 17 dicembre 2012

The French Touch: Enter The Void

Una delle visioni più sadiche, convulse, perturbanti che siano mai state proiettate su uno schermo cinematografico. Due ore e mezza di apnea, di buio nero, di percezioni e suggestioni di un uomo, più che di un regista, che ha l’obiettivo di sfogare tutti i suoi incubi, le sue ossessioni, le sue malattie sullo spettatore, vittima e carne al macello di un’esperienza forte, altalenante e indubbiamente violenta. Oscar ha vent’anni, vive a Tokyo con la sorella spogliarellista ed è un tossico prima di essere uno spacciatore. I genitori sono morti in un incidente stradale quando entrambi erano piccoli ed entrambi erano presenti, sono stati testimoni della morte, l’hanno vista di fronte agli occhi e ora ne vanno incontro, immobili, drogati, dipendenti. Non c’è uno spiraglio di luce nel cinema di Gaspar Noè, dai titoli di testa scheggiati a velocità impazzita allo stile tossico e psichedelico, basato su innumerevoli soggettive e riprese aeree, con la macchina sempre in movimento e i protagonisti sempre affannati, disperati e mediocri. Il regista francese porta alle estreme conseguenze il pessimismo cosmico di Von Trier e la poetica carnale di Aronofsky, i quali rischiano di passare per due ragazzi pieni di vita se vengono paragonati a quest’autore pazzo e senza limiti. Il precedente ‘Irreversible’ non era certamente passato inosservato, la sequenza dello stupro della Bellucci resta una delle più allucinanti ed estreme visioni del decennio passato. Ma ‘Irreversible’ era un film con il suo intreccio narrativo, con la sua fine e il suo inizio, con la sua chiusura del cerchio. ‘Enter The Void’, invece, è anarchia, conseguenza assoluta di una distorsione mentale, appunto, irreversibile. La sostanza si confonde con la forma e viceversa mentre il male non si confonde mai col bene, perchè il bene non c’è, non esiste. Dentro il vuoto, dentro il vortice, l’essere umano spaccia, si droga, scopa, si riproduce e muore. Per almeno un paio d’ore, non si può che rimanere coinvolti e attoniti di fronte a questa spietata descrizione esistenziale. Soltanto nell’ultima mezz’ora, la follia visiva si tramuta in fastidio. Gaspar Noè eccede tutto ciò che è umanamente accettabile, sfondando addirittura le barriere della pornografia (incredibile la soggettiva di un utero nel bel mezzo di una penetrazione). Per comprenderlo e apprezzarlo, bisogna avere una predisposizione per il masochismo ma anche amore, vero, passionale amore per la libertà d’espressione.

Emiliano Dal Toso

 


lunedì 10 dicembre 2012

Film del cuore: Into The Wild

Sono passati quasi cinque anni dalla sua uscita nelle sale e, per chi scrive, si è trattata dell'opera cinematografica più importante del decennio appena passato. Il viaggio per le terre selvagge di Christopher McCandless (interpretato dall'impressionante Emile Hirsch), ribattezzatosi Alexander Supertramp, si costituisce di tutte le tappe più importanti che vengono affrontate durante la vita di un uomo. Durante il viaggio, Alex incontra personaggi indimenticabili come quelli interpretati da Vince Vaughn, Kristen Stewart e Hal Holbrook. Il primo si spoglia dei ruoli comici a cui è abituato per interpretare il trebbiatore Wayne Westerberg, che assumerà un ruolo fondamentale nella convinzione psicologica di Alex per arrivare fino in fondo, fino alle terre selvagge tanto desiderate, vero e proprio luogo di redenzione opposto a quella società impazzita e piena di schegge nella quale sia Alex che Wayne hanno vissuto con insofferente anticonformismo, dando vita a uno dei dialoghi più belli del film. La seconda, invece, racchiude in sé tutta l'estasi e il tormento delle illusioni adolescenziali nella parte della giovane cantante country Tracy, la quale velocemente si innamorerà di Alex e immediatamente dopo soffrirà per la sua partenza, con la non-consapevolezza che quell'incontro è solo il preludio di passioni sfuggenti e mortali. Infine, il terzo interpreta Ron Franz, solitario veterano vedovo di moglie e figli, che troverà in Alex quella figura di confronto umano e di insegnamento reciproco che gli è mancata. La partenza di Alex viene vissuta con fatica anche da lui, non prima di aver donato al cinema una delle più belle riflessioni di sempre sul ruolo della fede. Ma chi è Alexander Supertramp? Un eroe? Un disilluso? Sicuramente un anticonformista. Sean Penn è attento a evitare qualsiasi possibile celebrazione retorica del personaggio, riconoscendogli coraggio e frenesia, passione e incoscienza. La sua non è una banale fuga ma è un vero e proprio rifiuto della materialità concepita come base portante della società moderna. Il pessimismo del regista diventa cristallino nel duro finale, che omaggia e rimprovera le scelte del giovane protagonista in un'amara ammissione dell'impossibilità di realizzare la propria natura. C'è qualcos'altro, però, che innalza l'opera 'Into The Wild' a status di capolavoro assoluto. Non parliamo di sceneggiatura, né di interpreti, né di fotografia. Parliamo di canzoni. Quelle canzoni che non si limitano a fare da sfondo o a raccontare il film ma che assumono un ruolo da co-protagonista. Quella voce, quelle canzoni di Eddie Vedder che raccontano della vita, della nostra vita. Da una parte, raramente si è assistito a una fusione talmente densa e inseparabile tra suoni e visioni. Queste canzoni non sarebbero potute esistere senza le immagini di 'Into The Wild' e 'Into The Wild' non sarebbe potuto esistere senza le canzoni di Vedder. Dall'altra, quando riascoltiamo qualcosa che abbiamo amato e interiorizzato, tornano in mente ricordi e si rivivono determinate sensazioni. Con le canzoni di 'Into The Wild' accade proprio questo. Quando riascoltiamo quest'album, nella nostra mente non riemergono soltanto le immagini del film ma, soprattutto, alcuni degli eventi che hanno caratterizzato la nostra piccola esistenza. Esistenza che forse non sarà molto simile a quella di Alexander Supertramp ma che è anch'essa accompagnata dalla medesima struggente colonna sonora. I primi tre brani introducono l'ascolto di un album semplice ed emozionante. 'Far Behind' si distingue per la sua costruzione più complessa, un brano che avrebbe potuto far parte dell'episodio più sperimentale dei Pearl Jam, 'No Code'. 'Rise' è il primo grande colpo al cuore. Un pezzo che si regge su un semplicissimo giro di accordi, con la voce di Eddie che accarezza e commuove ("Gonna rise up burning black holes in dark memories / Gonna rise up turning mistakes into gold"). 'Long Nights', cupa e drammatica, trasmette il gelo e la solitudine dell'Alaska, mentre lo stupendo strumentale 'Tuolumne', cinquantanove secondi, è gioia e incoscienza, innocenza e malinconia. 'Hard Sun' è una cover di una misconosciuta meteora degli anni '80, tale Indio. Si tratta del momento più definito e completo di tutti ma è anche il meno suggestivo. 'Society', invece, è l'emblema di 'Into The Wild'. Un manifesto. L'assolo centrale è una benedizione proveniente dal cielo, che deriva direttamente dalla grande tradizione country, quella di Nick Drake e Bob Dylan. C'è ancora tempo per un'altra bella canzone come 'Guaranteed', che viene proposta anche in versione strumentale come traccia nascosta. Le canzoni di 'Into The Wild' sono frammenti di vita. Non nascono per essere cantate nelle arene e nemmeno per essere passate in radio. Nascono per essere la colonna sonora di un viaggio, di un'avventura, di una riflessione. Sono piccole schegge che non hanno bisogno d'altro che di essere inserite nello stereo della nostra stanza ed essere amate. Le canzoni di 'Into The Wild' raccontano di terre selvagge, di quelle terre selvagge che affrontiamo tutti i giorni e di quelle che, per quanto desiderate, non riusciremo a raggiungere mai.
Emiliano Dal Toso






mercoledì 5 dicembre 2012

I Film Dell'Anno Degli Amici Lettori

Incredibile. Nonostante sia uscito nei cinema soltanto oggi, il film più votato sommando le preferenze degli amici collaboratori e degli amici lettori è risultato 'Moonrise Kingdom' di Wes Anderson. Questo a dimostrazione del fatto che la sala cinematografica non è più, purtroppo, il luogo principale nel quale il cinema viene recepito. Ad ogni modo, si tratta della vittoria di un regista che ci piace moltissimo e ne siamo molto contenti, anche se la nostra personale opinione è che questo sia un film bello, ma non il suo più bello.
 
Angelica Gallo
Moonrise Kingdom
Io E Te
Monsieur Lazhar

Carlos Menezes

Cosmopolis
La Talpa
Romanzo Di Una Strage

Giovanni Dal Toso
On The Road
L'Arte Di Vincere
Romanzo Di Una Strage

Jacopo Bravin

Diaz
Io E Te
On The Road

Juxhin Myzyri
Cesare Deve Morire
Hunger
Marley


Linda Grazia Pola

Ballata Dell'Odio E Dell'Amore
Blue Valentine
Un Sapore Di Ruggine E Ossa


Lorenzo Gramatica

Holy Motors
Cosmopolis
Moonrise Kingdom


Luca Ottocento
Cave Of Forgotten Dreams
Shame
Hugo Cabret


Marco Dal Toso

Quasi Amici
La Faida
Romanzo Di Una Strage


Martina Pattonieri
Un Sapore Di Ruggine E Ossa
Moonrise Kingdom

Ruby Sparks

Massimiliano Gavinelli

Cesare Deve Morire
Hugo Cabret
L'Arrivo Di Wang


Mattia De Gasperis
L'Arte Di Vincere
Young Adult
Il Sospetto


Melis Rossi
The Help
Io E Te
Bel Ami - Storia Di Un Seduttore


Paolo Quaglia

Amour
(qualora non dovesse piacere, non è un problema del film)
J.Edgar (sintesi eccellente di una personalità fatta di opposti)
E Io Non Pago - L'Italia Dei Furbetti (la confessione di Calà)

Roberto Ciliberto

War Horse
Detachment
The Help

4 Moonrise Kingdom
(Gallo, Gramatica, Pattonieri, Recordati)
3 Io E Te (Bravin, Gallo, Rossi) The Help (Ciliberto, Mazzetti, Rossi) Romanzo Di Una Strage (G.Dal Toso, M.Dal Toso, Menezes)
2 L'Arte Di Vincere (G.Dal Toso, De Gasperis) Cesare Deve Morire (Gavinelli, Myzyri) Cosmopolis (Gramatica, Menezes) Detachment (Ciliberto, Wollner) Hugo Cabret (Gavinelli, Ottocento) Oltre Le Colline (Mazzetti, Recordati) On The Road (Bravin, G.Dal Toso) Un Sapore Di Ruggine E Ossa (Grazia Pola, Pattonieri)

ALBO D'ORO IL BELLO, IL BRUTTO E IL CATTIVO
2011 Il Cigno Nero
2012 Un Sapore Di Ruggine E Ossa

ALBO D'ORO GLI AMICI DE 'IL BELLO, IL BRUTTO E IL CATTIVO'
2011 Melancholia
2012 Moonrise Kingdom





martedì 4 dicembre 2012

I Film Dell'Anno Degli Amici Collaboratori

A me non è proprio piaciuto, ma almeno due dei miei amici collaboratori hanno considerato 'Oltre le colline' di Mungiu uno dei migliori film dell'anno. Aspettiamo, ora, le segnalazioni degli amici lettori per tirare le somme e decretare definitivamente quale sarà il vero vincitore del 2012.
 
Alvise Wollner
Detachment - Tony Kaye

Una malinconica poesia per immagini in un affresco, non convenzionale, sul sistema d'istruzione americano. Il regista di "American History X" non sbaglia un colpo e riesce a immortalare sullo schermo l'apatia del distacco. Ciliegina sulla torta: l'immenso Adrien Brody.

Il Primo Uomo - Gianni Amelio
Gianni Amelio rende giustizia al rapporto tra Cinema e Letteratura. Lo fa con un film asciutto e deciso, quasi privo di sbavature. Troppo raffinato per il fiacco mercato italiano, riesce a unire una grande lezione di stile a una storia umana e toccante. Da rivalutare.

I Mercenari 2 - Simon West
Super cafone eccolo qua. Sly Stallone raduna il dream team dei duri e puri e centra l'obiettivo. Calci, pugni, esplosioni e Chuck Norris che recita la caricatura di se stesso. Loro spaccano tutto e si divertono, noi estasiati guardiamo e li ringraziamo.

Giancarlo Mazzetti
Oltre Le Colline - Cristian Mungiu

Ultima fatica del regista "post-dicembrista" romeno, è un film dicotomico sulla ragione e sulla fede, sulla libertà e sulla sua privazione, sull'amore illimitato e i confini che la realtà vi pone. Bello scorcio, intelligenti le riflessioni che suscita; scritto benissimo e girato da un autore che è ormai una certezza, per lo meno per me.

Bella Addormentata - Marco Bellocchio

Lezioni di onestà intellettuale, di recitazione (il solito eccellente Toni Servillo) e di regia. Sceneggiatura di qualità. Marco Bellocchio è bravissimo a celare il suo punto di vista personale (che pur emerge, per chi lo sa leggere) mostrando diverse sfaccettature di una vicenda che riguarda tutti noi.

The Help - Tate Taylor
Tratto dal romanzo di Kathryn Stockett, è un film che riesce a trattare in modo originale un tema già molto utilizzato (si parla di bianchi e neri negli USA dei primi anni '60). Commedia drammatica toccante, ma dal ritmo sostenuto e piacevole. Un film realizzato con il cuore.

Luca Recordati
Oltre Le Colline - Cristian Mungiu

Il regista romeno è riuscito nell'intento di mostrarci il lato feroce del fanatismo religioso.

Moonrise Kingdom - Wes Anderson
Wes all'ennesima potenza, un cast strepitoso, colori vivaci che descrivono meravigliosamente la bellezza dell'universo andersoniano.

La Sposa Promessa - Rama Burshtein
L'interno di una famiglia chassidida, in cui le famiglie scelgono chi devono sposare i figli.


Mungiu, Beyond The Hills





lunedì 3 dicembre 2012

La Superclassifica Dell'Anno - 2012

La ginecologia è solo un hobby per me.
Annata media. Piccoli frammenti di grandi emozioni. E' vero che manca ancora un mese alla fine ma Natale è sempre un periodo a sé e all'orizzonte non si vedono possibili sconvolgimenti (se Loach e Redford faranno miracoli, prometto di recuperarli per l'anno prossimo). Un paio di dolorose esclusioni, però, sì, ci sono.

12 - Un'Estate Da Giganti - Bouli Lanners
Grazie al cielo, il Mexico ha recuperato questo piccolo gioiello belga, visto tra i film di Cannes l'anno scorso. Uno Stand By Me dei nostri tempi, sostenuto dai paesaggi più belli visti al cinema negli ultimi anni.

11 - La Faida - Joshua Marston
Passato del tutto inosservato, Marston prosegue il discorso di Maria Full Of Grace, stavolta dal punto di vista maschile. L'adolescenza come ultima chiamata per la libertà, come ultima possibile via di fuga. Roots Bloody Roots.

10 - 50 e 50 - Jonathan Levine

Vita e morte, commedia e dramma, sacro e profano. Il miglior "malincomico" dell'anno, ma c'era da aspettarselo. Kendrick deliziosa, Seth Rogen e Gordon-Levitt nei nostri cuori. Ragazzi, di voi ci ricordiamo per sorridere.

9 - Tutti I Nostri Desideri - Philippe Lioret
C'è davvero tanto cuore nel cinema di Lioret. Due personaggi meravigliosi, disposti a tutto pur di dare un senso a tutto questo. Un intenso, autentico e adulto ritratto di stima reciproca, professionale e umana, tra un uomo e una donna.

8 - Io E Te - Bernardo Bertolucci

Ancora adolescenza, ma come primo approccio alla bellezza della vita, alla musica, alla cultura. La solitudine come opportunità, la cantina come incontaminazione. Tea Falco maledetta e bella da impazzire.

7 - Reality - Matteo Garrone
Grand Prix di Cannes meritatissimo, e non amavamo Garrone. Una riflessione sincera sulla fascinazione dello star system, antiretorica, dichiaratamente dalla parte della gente. Aniello Arena trascinante, finale immaginifico, di una poesia straziante.

6 - Hunger/Shame - Steve McQueen
Prigione, carne, autodistruzione. Due film molto diversi tra loro ma entrambi alla ricerca di un cinema che scuote, di forza visiva indelebile. Fassbender è un attore semplicemente pazzesco, i suoi Bobby e Brandon fanno parte di noi.

5 - Cesare Deve Morire - Paolo e Vittorio Taviani

Che cosa significa la parola Cultura? I fratelli Taviani danno la risposta, sculacciando la presunzione, l'autocommiserazione di chi si ritiene superiore a quasi tutti gli altri. Un film intellettuale e anti-intellettualistico, una riflessione sul concetto di eguaglianza.

4 - Diaz - Daniele Vicari
Il film che avrebbe fatto l'Oliver Stone di vent'anni fa oggi, se fosse stato italiano. Assolutamente necessario, crudo, senza sfumature. Da una parte ci sono i carnefici, dall'altra le vittime. Botte, panettoni, ancora botte.

3 - Ballata Dell'Odio E Dell'Amore - Alex de la Iglesia
Follia, anarchia, libertà. La voglia di distruggere tutto, di assetare gli occhi con il sangue. Troppo istintivo per essere bello, troppo sincero per essere ignorato. Il film più punk dell'anno, debordante di passione, sbagliato, senza limiti.

2 - L'Arte Di Vincere - Bennett Miller
Come si fa a non essere romantici con il baseball, caro Brad? Piuttosto, come si fa a non esserlo quando il tuo Billy Beane, sdraiato sull'erba, assapora il meraviglioso gusto della sconfitta. E se la gode.

1 - Un Sapore Di Ruggine E Ossa - Jacques Audiard
Forse non il più bello, di certo il più emozionante. Marion si fa amare troppo, e noi amiamo troppo innamorarcene. Le basta alzare le braccia verso il cielo, quando tutto sembra perduto, per convincerci che i battiti del nostro cuore sono l'unico metro di giudizio.

Miglior Attore: Michael Fassbender

Miglior Attrice: Marion Cotillard



Le Delusioni Dell'Anno - 2012

Sei solo chiacchiere e distintivo.
Siamo arrivati a dicembre ma è anche arrivato il momento di fare le considerazioni finali sull'anno che sta passando. Quando un film è brutto è brutto brutto, ma è ancora più brutto quando il film brutto è di un regista bello. Penso che, però, nella bruttezza ci sia anche della bellezza. A differenza della mediocrità, la bruttezza resta, sempre.


3 - Amour - Michael Haneke
Il colpo di sonno dell'anno. Haneke sfoggia tutto il suo manierismo per spacciare il banale come la verità assoluta dell'amore. Uno di quei film che sembrano non finire mai, malgrado la durata sia poco al di sopra delle due ore.

2 - Cosmopolis - David Cronenberg
Una bufala gigantesca, incomprensibile, delirante. Una celebrazione masturbatoria della propria poetica, attraverso dialoghi imbarazzanti e recitazioni esangui. Un'occasione persa per Pattinson, decisamente più credibile nei panni del vampiro Edward.

1 - Le Belve - Oliver Stone
Agghiacciante. Sembra che Stone abbia completamente disimparato a girare film d'azione, servendosi di un intreccio fiacchissimo, scontatissimo e di un trio d'attori espressivo come Barbie e Ken. Tracce di soap opera per un ex regista furioso e anticonformista.


Peggior Attore: Johnny Depp (The Rum Diary, Dark Shadows)
Lo abbiamo definitivamente perso. Johnny è diventato la parodia di se stesso.


Peggior Attrice: Meryl Streep (The Iron Lady, Il Matrimonio Che Vorrei)
Più imbarazzante nel ruolo di una Letizia Moratti ancor più rincoglionita o in quelli di una sessantenne vogliosa di sesso selvaggio da un disincantato Tommy Lee Jones? Dura lotta.




sabato 1 dicembre 2012

Comunicato

Cari amici e lettori,
da oggi il blog cambia un pochino. Ormai, i modi di consumo cinematografico sono i più svariati e imprevedibili, le impostazioni non hanno più senso. La nostra scelta è quella di non rivolgerci più esclusivamente ai film che escono attualmente nelle sale ma di parlare di tutto ciò che potrebbe venirci in mente nell'ambito Cinema. Non solo recensioni, ma classifiche, riflessioni, opinioni, retrospettive. La nostra politica è sempre quella di privilegiare il nostro gusto, la soggettività, perchè rimaniamo convinti che il Cinema debba essere vissuto sempre e comunque col cuore. Amiamo ciò che è bello, amiamo ciò che è brutto, amiamo ciò che è cattivo ma, soprattutto, amiamo ciò che è sincero.



Nella foto, Mila Kunis

giovedì 29 novembre 2012

Il Sospetto - The Hunt (voto 7)

Presentato all'ultimo Festival di Cannes, 'Il sospetto' di Thomas Vinterberg racconta il dramma di un uomo, un brav'uomo, un uomo comune, che viene accusato ingiustamente di pedofilia. La vicenda si svolge in una piccola comunità danese, nella quale tutti conoscono tutti e tutti sanno tutto di tutti. Ciò significa che venire etichettati in una determinata maniera equivale alla morte sociale. Questo è il sunto del film del regista danese, uno dei fondatori del Dogma 95, insieme a Lars Von Trier. 'Il sospetto' ha sia pregi sia difetti. Il fatto che lo spettatore sappia immediatamente che il protagonista è innocente significa schierarsi dalla sua parte, stabilire subito chi sia il buono e quali siano i cattivi. Caratteristica narrativa certamente non presente in un giallo o in un thriller. Siamo, dunque, di fronte a un dramma, coinvolgente, in grado di scuotere. Va anche detto che lavorare su un registro così definito è più semplice, perchè può essere rincarata la dose. Lo spettatore segue le ingiustizie subìte dal protagonista, di pari passo, soffre con lui e si indigna per la graduale escalation di torti e di umiliazioni che gli vengono inflitte. Il coinvolgimento emotivo è enorme ma, da un certo punto di vista, disonesto. La sensazione che ho avuto alla fine di 'Il sospetto' è stata la stessa di 'Festen', il lavoro più famoso di Vinterberg nonchè il Dogma #1: quella di un cinema ricattatorio, che non dà troppo spazio alla elaborazione e alla interpretazione autonoma. Quello che non fa, ad esempio, un regista come Lars Von Trier, o che almeno non fa più. Ciononostante, 'Il sospetto' merita di essere visto se non che per la grande interpretazione di Mads Mikkelsen, premiato con la Palma. Ed è, comunque, sempre meglio un cinema che prende una posizione, che si pone l'obiettivo di turbare, rispetto a quel cinema neutrale, democratico, che vuole piacere a tutti i costi. Meglio anche il titolo inglese 'The Hunt', la caccia, per distinguersi dal capolavoro hitchcockiano.

Emiliano Dal Toso

Il sospetto

lunedì 26 novembre 2012

East Ghost: Sukhodol - The Dry Valley

Aleksandra Strelyanaya è una timida ragazza russa di 34 anni, ma ne dimostra la metà. Ha girato un film meraviglioso che si chiama 'Sukhodol', tratto dal libro omonimo di Ivan Bunin del 1912. La storia ci parla di un mondo lontano, nel tempo e nello spazio. Una casa padronale immersa nella feroce campagna russa. Il tempo scorre lento, i gesti sono immutabili. Natalia, un'orfana divenuta fedele serva, è innamorata del padrone. Da lui viene accusata di furto e mandata in esilio per un anno in un casolare lontano. Quando torna deve sottostare ai voleri capricciosi della sorella del ricco possidente, invasata, posseduta da un demone oscuro. Viene stuprata da un viandante, perde il bambino. L'amato padrone muore incenerito da un fulmine. Tutta la vicenda è attraversata dal fremito sottile del misticismo russo. Una superstizione violenta, come violenta, senza compromessi, è la bellezza della Russia. Aleksandra è riuscita a dare al suo lavoro lo spessore di un capolavoro letterario, e questo è difficilissimo da fare, perché spesso le immagini sono bugiarde, prendono la via breve, e raramente sanno andare in profondità. Invece qui la perfezione tecnica diventa fondamentale per la resa lirica della storia. Il linguaggio si trasforma in contenuto. La grazia delle immagini ci restituisce l'impressione perfetta della grandezza letteraria dell'opera. Non esagero se dico che la potenza evocativa delle inquadrature della Strelyanaya io l'ho vista soltanto in Antonioni e in pochi altri. Ed è solo il suo primo lungometraggio. Se non ci credete, cercate su Youtube il trailer di 'The dry valley', il titolo inglese del film. Inoltre il film è recitato (benissimo) da attori non professionisti, emersi proprio da quel mondo nascosto che il film ci disvela, e i suoni vengono dalla presa diretta, portandosi dietro la magia dei luoghi e delle persone. Come dicevo anche ad Aleksandra, il limite più grande è che questo film può essere purtroppo capito appieno solo da chi conosce bene la cultura e la vita russe. Tradizioni, suggestioni, emozioni. "Piangi, scema, se no la felicità non viene."

Ivan "Ivanovich" Brentari



mercoledì 14 novembre 2012

Ballata Dell'Odio E Dell'Amore (voto 9) IL FILM DEL MESE

Attenzione, questa recensione contiene un linguaggio osceno. Il tono è volutamente eccessivo e sopra le righe (come, d'altronde, il bellissimo film di cui si parla). Se prendete tutto sul serio, non leggetela e andate su MyMovies.

'Ballata dell'odio e dell'amore' è una furia. E' un film intriso di violenza, che sporca gli occhi e invade la Storia. Presentato al Festival del Cinema di Venezia del 2010, venne attribuito del Leone D'Argento da un entusiasta Quentin Tarantino. Tra i giurati, c'era anche Gabriele Salvatores che dichiarò che dopo la visione del film di Alex De La Iglesia gli tornò immediatamente la voglia di girare e di fare cinema, ma quello con i coltelli che parla di bastardi e di figli di puttana, e la scelta è ricaduta sulla traduzione cinematografica del best seller 'Educazione Siberiana'. Il settimo lavoro del regista spagnolo aggredisce lo spettatore, visivamente, emotivamente, e lo spoglia di ogni pretesa intellettualistica. Il Cinema, la Politica, la Vita non hanno mezze misure, sono pagliacci tristi e pagliacci scemi. Quello che conta sono le bombe, gli attentati. Quello che rimane sono le sconfitte, i traumi, le delusioni. L'amore è stupido, forse è un desiderio di rivalsa, certamente non muove il sole e le altre stelle. Forse, è solo la mancanza di una scopata. 'Ballata dell'odio e dell'amore' ci insegna che la verità non sta mai nel mezzo. Nelle cose, c'è sempre un giusto e uno sbagliato, un felice e un infelice, un buono e un cattivo, una vittima e un carnefice. La diplomazia, la democrazia, il contraddittorio vanno lasciati a chi se li può permettere, a chi non ha mai sofferto abbastanza, a chi se ne può andare affanculo. Noi vogliamo il sangue, noi vogliamo lo schermo che si sporca di rosso, vogliamo i terroristi, vogliamo il grand guignol, vogliamo il porno, vogliamo il cazzo duro e vogliamo la figa bagnata. Cuore e amore fanno rima con dolore. 'Ballata dell'odio e dell'amore' attraversa quarant'anni di Spagna, all'insegna della dittatura, della frustrazione, della sottomissione. Averle subite non porta desiderio di pace, porta sete di vendetta. La razionalità è una illusione. Questo sta alla base di tutto ciò che dovrebbe essere punk, anarchico, questo sta alla base del significato di quel cinema che pretende di essere cinema dell'orrore, cinema di guerra, cinema di battaglia. Chi non è d'accordo, ha sempre un divano su cui appassionarsi alle primarie del centrosinistra.

Emiliano Dal Toso



giovedì 8 novembre 2012

Tutti i Santi Giorni (voto 7)

'Tutti i santi giorni' è un film che si colloca pienamente nello stile di Paolo Virzì, accompagnato da quei pregi e da quei difetti che spesso si controbilanciano nella filmografia del regista livornese: qualche volta è successo che i primi prevalessero nettamente sui secondi ('Ovosodo', 'My name is Tanino', 'Tutta la vita davanti'), mentre non più di un paio questi ultimi hanno preso il sopravvento ('Caterina va in città', il sopravvalutato 'La prima cosa bella'). Quello che convince quasi sempre di Virzì è la capacità di descrivere perfettamente gli umori e le contraddizioni del nostro Paese, con grande ironia e leggerezza e senza alcuna retorica. Il suo tocco registico è genuino e ruspante, non dà mai l'impressione di essere programmatico o ruffiano. Ciononostante, alcuni passaggi (anche quelli dei suoi migliori film) danno l'impressione di esagerare con le carinerie, con il rischio di apparire buonisti o troppo politicamente corretti. Quest'ultimo lavoro, infatti, è grazioso, pregevole, preciso ma a tratti pecca di un sentimentalismo che filtra pericolosamente con il familismo. Lo spunto narrativo di 'Tutti i santi giorni' non è certamente tra i più originali, anzi, è ormai un topos dei vari manuali d'amore o delle commedie americane degli ultimi anni: una coppia di trentenni vuole avere un figlio ma non ci riesce. Anche l'intreccio non è solidissimo: i tentativi portano allo sfinimento i due protagonisti, al punto da mettere in discussione il rapporto. Ciononostante, è nelle piccolezze, nelle caratterizzazioni dei personaggi che Virzì convince. Il personaggio maschile, interpretato dal bravo Luca Marinelli (quello de 'La solitudine dei numeri primi') è un ritratto fenomenale, tenero e indovinatissimo di una specie ormai in via d'estinzione, quella delle brave persone, per di più colte, istruite e intellettuali ma per niente radical-chic. La figura femminile, invece, è un po' più convenzionale, ma pur sempre credibile ed è incarnata dalla debuttante Thony, che fa la cantante, sia nella finzione che nella realtà. Nel complesso, il film ha numerose trovate divertenti ed è pervaso da un ottimismo contagioso. In alcuni dettagli, il regista poteva essere più feroce, dal momento che la storia è comunque quella di due individui sottostimati dalla società, che per tirare a campare sono costretti a sacrificare i propri talenti e la propria cultura per dedicarsi a lavori che certamente non rispecchiano i loro desideri. Sullo sfondo, poi, c'è una Roma molto poco ospitale, rozza e abbastanza violenta. Insomma, Virzì si conferma l'unico vero erede della "commedia all'italiana", malgrado qualche dolcificante di troppo. Il suo cinema non è adatto a festival internazionali e nemmeno a partecipare alle selezioni degli Oscar per il miglior film straniero (come è erroneamente accaduto con 'La prima cosa bella'). Però è dignitoso, semplice, a volte emozionante.

Emiliano Dal Toso

 




martedì 6 novembre 2012

Skyfall (voto 7)

La recensione del Bondiano
Basta con azione frenetica e poco cervello, basta con attori tronchi d’albero (Pierce Brosnan in testa), ma soprattutto basta con il quartier generale dei servizi segreti londinesi, rivogliamo quella stanza vecchia e calda a cui si accede dall’ufficio di Miss Moneypenny. E' riuscito Sam Mendes a esaudire i nostri desideri? In parte. La prima cosa che salta agli occhi dei puristi è l’aver abbandonato l’amato Martini per una Heineken. Si passa dalla rinomata eleganza di un eroe indistruttibile (sia Connery che Moore non avevano mai la giacca sporca) a un Bond grezzo, che mostra i segni del tempo. La seconda novità è la quasi totale eliminazione delle scene di tensione erotica che sottolineavano l'abilità seduttiva dell'agente segreto, per rendere il personaggio più umano e meno impossibile. La terza è il ritorno ad una location storica come Macao. La quarta è il ritorno ad un cattivo davvero entusiasmante, interpretato dal bravissimo Javier Bardem (notevolmente più carismatico di Mathieu Amalric), che vuole distruggere Bond e la MI6, e conquistare il Mondo. Quello che, però, traspare maggiormente in questo 23simo episodio, oltre a certe atmosfere che si erano perse con gli anni, è la cura dei dettagli, soprattutto nella descrizione di James, molto più criptico, in chiaroscuro e vulnerabile. Si fa notare il giovane Ben Whishaw, nei panni del nuovo Q. Bravissimo anche Ralph Fiennes: benvenuto nel club. 'Skyfall' non deluderà i fan più accaniti: è cosi che vogliamo l’agente 007 più famoso del cinema. L.R.

La recensione del Non Bondiano
Non sono certamente un amante della saga di James Bond ma, a dir la verità, non sono proprio un amante dei film di spionaggio. Non perchè sia prevenuto o quant'altro, ma perchè ciascuno di noi ha quel genere cinematografico che non riesce proprio a farsi piacere: per alcuni è l'horror, per altri la fantascienza, per me sono le spy story. Tra tutti i film di 007 che ho visto quello che mi è piaciuto di più è il violentissimo 'Vendetta privata' con Timothy Dalton, credo l'attore meno amato dai bondiani. Detto ciò, sono andato a vedere il nuovo 'Skyfall', 23simo episodio della serie, per una ragione molto semplice: dietro la macchina da presa non c'è il solito mestierante ma Sam Mendes, uno che ha dimostrato di saperci fare. Devo ammettere di essermi divertito per due ore abbondanti. Chi ama il cinema, non può non riconoscere che dietro questo 'Skyfall' ci sia un lavoro tecnico pazzesco (in primis, la fotografia di Roger Deakins). Difficile anche non godersela di fronte a dialoghi brillanti e spumeggianti, con più o meno volontari riferimenti all'attualità (si ripropone, più volte, il tema della "rottamazione"). Ad ogni modo, anche se il risultato finale non fosse stato di ottima fattura, stroncare un film di 007 sarebbe completamente inutile. E' grazie a personaggi popolari come James Bond che il Cinema ha significato di esistere: senza gli 007, senza le Guerre Stellari, senza i Rocky Balboa, la Settima Arte non sarebbe altro che un'elucubrazione mentale, non adatta a tutti. Quando a un certo punto di 'Skyfall', James rispolvera la sua amata Aston Martin, da una parte del pubblico presente in sala si è alzato un boato: vivaddio se il Cinema non debba essere vissuto in questo modo. E.D.T.

 


domenica 4 novembre 2012

The Irish Side: The Commitments

Gli irlandesi sono i più negri d'Europa, i dublinesi sono i più negri d'Irlanda, e noi di periferia siamo i più negri di Dublino.


Nel 1988 lo scrittore irlandese Roddy Doyle pubblicò 'The Commitments', il primo dei romanzi che formano la "trilogia di Barrytown", immaginario quartiere operaio di Dublino. Gli altri due sono 'The Snapper' e 'Due sulla strada'. Tutti i libri della trilogia hanno la loro versione cinematografica. Questi ultimi sono stati portati sullo schermo da Stephen Frears, regista abituato a storie di proletariato, mentre fu Alan Parker, il regista di successi come 'Saranno famosi' o 'The Wall', a portare al cinema 'The Commitments' nel 1991. Perchè Parker? Perchè 'The Commitments' è un film musicale, materia che il regista londinese conosce alla grande. Quello che non ci si poteva aspettare è che Parker descrivesse Dublino e la sua gente meglio di un irlandese, ne inquadrasse magistralmente lo spirito, le aspettative, l'ironia, la sconfitta, l'anima. E' la storia di un gruppo di persone (alcuni più giovani, ma soprattutto musicisti disoccupati o ubriaconi perdigiorno) che mette in moto il sogno di formare un gruppo soul e di sfondare, di diventare la terza stella del firmamento musicale irlandese dopo gli U2 e Sinead O'Connor. Perchè il soul? Perchè è una musica sincera, onesta, semplice ma che ha il ritmo della fabbrica e del sesso. Il loro nome è The Commitments, che significa "gli impegni, le promesse." I ragazzi ci sanno fare, sono musicisti e cantanti eccezionali. Dopo i primissimi concerti nelle parrocchie e nei centri sociali, appena si comincia a intravedere uno spiraglio di possibile successo, cominciano a sbranarsi, pian piano il gruppo si sfalda, nessuno sopporta più nessuno. E il sogno si sgonfia subito, tutti prenderanno strade differenti. 'The Commitments' è esattamente come il soul: racconta la vita per quella che è, con i suoi tanti frammenti, avara di sogni destinati a realizzarsi. Si concentra sulla passione, sul tragitto, sul percorso: arrivare al traguardo è irrilevante. E' un film che sta dichiaratamente dalla parte degli sconfitti, di chi è incapace a disciplinarsi. Ne fa risplendere la poesia, il talento che è quasi sempre in contraddizione con la capacità di fare pace con se stessi. Parla dell'Irlanda, degli irlandesi, di un popolo che non gliene frega un cazzo delle occasioni sprecate o dei progetti a lungo termine. Quello che conta sono le mani sulle cosce, e sia le mani, sia le cosce possono essere di chiunque. Tutti gli interpreti (fenomenali) di 'The Commitments' erano completamente sconosciuti prima delle riprese e vennero scelti soltanto per le loro capacità musicali. Nessuno di loro ha proseguito la carriera da attore.
 
Emiliano Dal Toso

 




giovedì 1 novembre 2012

The Irish Side: Hunger

Questo mese parleremo di cosa significhi essere irlandesi e cattolici.

Steve McQueen è un regista di corpi, oltre che di film. Poche volte al Cinema, prima di lui, si era vista una tale capacità nel riuscire a far comunicare il fisico umano, sia esso deperito o dirompente, più delle parole. Lo ha potuto fare grazie a un attore come Michael Fassbender, straordinario nel regalare emozioni senza mai finire nell'eccesso o nel grottesco. La sua opera prima, "Hunger" è un esordio folgorante, su un tema spinoso che ancora oggi troppa gente conosce a malapena: la lotta per l'indipendenza dell'Irlanda del Nord. Il regista di "Shame" ci mostra la sua visione su quello spaccato di Storia.
Le proteste nelle strade o le lotte davanti ai palazzi del potere non gli interessano. Decide quindi di raccontare la sua storia in un luogo dove uomini-zombie camminano emaciati in strade senza nome. E' la prigione di Maze, durante i giorni dello "sciopero della coperta" e di quello dell'igiene. Tra i detenuti ce n'è uno in particolare, Bobby Sands, leader del movimento dell'IRA. Uomo affamato di giustizia, disposto a tutto pur di difendere i suoi ideali. Il regista struttura la narrazione creando due piccoli film semi-muti, intervallati da un piano sequenza centrale di chiara matrice teatrale. Il silenzio dei corpi viene rotto dalla parola che però anticipa, a sua volta, un successivo silenzio. Quello della Morte. Non ci sono mezze misure, l'orrore è sbattuto dritto negli occhi di chi guarda. Nessuna mediazione, nessuna volontà di nascondere un crimine così grande, rimasto sconosciuto già per troppo tempo. Lady Thatcher è solo una voce metallica che pronuncia fredde parole senza speranza. C'è solo un modo per contrastarla: iniziare uno sciopero della fame. E poco importa se ciò significherà morire, almeno lo si sarà fatto senza mai tradire se stessi. Questa è Storia, niente è costruito. Tortutre e sevizie, che avremmo immaginato in tempi da medioevo, sono successe a uomini come noi, trent'anni fa, in quel freddo dicembre del 1981. La storia di Bobby, che a 27 anni muore diventando lo scheletro di se stesso, per vedere libero il suo Paese, ci diche che la coerenza è il valore più grande su cui costruire le nostre vite. Penso che ogni nazione dovrebbe avere il suo Bobby Sands, ma mi guardo intorno e vedo solo il nulla del menefreghismo.

Alvise Wollner


 





mercoledì 31 ottobre 2012

Billy WIlder Gallery: Testimone D'Accusa

C'è chi dice che questo sia il miglior film di Billy Wilder. Detto in tutta onestà, io non so se sarei capace di indicare un singolo titolo su tutti del regista austro-ungarico (anche se la città in cui è nato, oggi, è in Polonia), ma sicuramente Testimone d'accusa è uno dei cinque tra i quali dovrei scegliere se avessi la famosa “pistola puntata alla testa”. Per chi non lo sapesse, la pellicola è l'adattamento per il cinema di un testo di Agatha Christie, la cui opinione è che questo sia il miglior film tratto da qualcosa di suo. Siamo nel 1957 e Testimone d'accusa è il film che apre il triennio mirabilis di Billy Wilder (nel '59 e '60 usciranno A qualcuno piace caldo e L'appartamento), si tratta di un film molto singolare, in cui si alternano e si confondono la commedia e il giallo giudiziario; i punti di forza su cui è costruita questa duplicità di genere sono sostanzialmente due: una perfetta sceneggiatura (firmata dal nostro Billy) e, nella messa in scena, un'attenzione particolare agli (e degli) attori. La sceneggiatura, il testo in particolare, è lo strumento -preciso ed efficace- con cui si costruisce il tema del giallo: sin dalle prime scene siamo nel vivo della questione, senza fastidiose sotto-trame fuorvianti o introduttive, il film inizia e finisce con la storia di cui ci vuole parlare; non ci sono punti morti, perché l'intrigo del tema portante è talmente completo ed esaustivo che basta a se stesso. Le uniche concessioni che Wilder si permette fuori dell'intreccio principale sono, come dicevamo, le sfumature della commedia che si sovrappongono al rigoroso linguaggio del giallo giuridico. Questo elemento si gioca però nel modo, non nel contenuto: sono la fisicità degli attori e i loro atteggiamenti spesso (apparentemente) assurdi a condurre il gioco in questo senso: strepitoso, quanto a fisicità e adeguatezza nel ruolo, è per esempio Charles Laughton (nella versione italiana aiutato da un meraviglioso Giorgio Capecchi -quello del padre di Caio ne La spada nella roccia-) nei panni dell'avvocato vizioso, ma anche il buon Tyrone Power, teatrale nel dramma forzato dell'interrogatorio e totalmente sopra le righe durante le prime fasi del film. Oltre, ovviamente, a Merlene Dietrich, da sottolineare anche la badante dell'avvocato (Elsa Lanchester), che i più attenti avranno sicuramente visto anche in 'Mary Poppins' in una parte simile (è la governante che si licenzia all'inizio). Insomma, uno dei capolavori di un maestro assoluto. Film da non perdere e, secondo me, da rivedere (è uno di quelli che alla seconda visione sono più belli).
 
Giancarlo Mazzetti


Risate e Morte: 50 e 50

Omaggio alle festività di Ognissanti e alla giornata di commemorazione dei defunti.
- Lo disse Foscolo, lo ribadisco: della vita il fulcro è il sepolcro - Elio e Le Storie Tese

"Hai il cinquanta per cento di possibilità di salvarti! Sei stato molto fortunato... al Casino ne avresti molte meno." Con queste parole l'amico del cuore Seth Rogen reagisce alla notizia della grave malattia di Joseph Gordon-Levitt e con battute di questo tipo, lievi e amarognole, lo sceneggiatore Will Reiser ha scritto un racconto autobiografico in perfetto equilibrio tra dramma e commedia, semplice ma mai semplicistico, tanto profondo ed emozionante quanto ironico e divertente. Il tema del rapporto con la morte è uno dei più inflazionati del cinema americano degli ultimi anni se solo pensiamo all'Eastwood di 'Hereafter' o al Van Sant di 'Restless'. Jonathan Levine con '50 e 50' offre il miglior esempio possibile di cinema americano indipendente: reale, naturale, genuino. Perchè anche nel momento del dramma la vita può essere estremamente comica, come nelle scene in cui i malati di cancro si ritrovano a consumare erba e a prendersi in giro con solidarietà e autoironia. E nelle frivolezze si può rivelare drammatica, per esempio nelle relazioni sentimentali, con il protagonista deluso e abbattuto dopo il tradimento della sua fidanzata, interpretata da una brava e stronza Bryce Dallas Howard. Ma è nella descrizione dei rapporti umani che il film vince la sua sfida a pieni voti. Innanzitutto, '50 e 50' è anche un film sulla morte ma è soprattutto un film sull'amicizia e sull'amore. Amicizia che viene esemplificata dal bellissimo personaggio di Seth Rogen, apparentemente frivolo e scurrile, eppure il primo ad andare incontro con lunatica sensibilità alle necessità dell'amico. Anna Kendrick, invece, piccola e deliziosa, rappresenta quello che dovrebbe/potrebbe significare l'amore, ovvero una nuova possibilità, un'alternativa, un cambio di rotta. Vorrei che tu fossi la mia ragazza le confessa un grande Joseph Gordon-Levitt al telefono, la notte prima degli esami, dopo aver lesionato la sua ugola. Quest'ultimo predomina con la sua simpatia naturale, con le sue inquietudini incredibilmente tendenti all'identificazione, come già era riuscito nelle sue precedenti e indimenticabili interpretazioni di 'Mysterious Skin' e ' 500 giorni insieme'. Un piccolo grande film, con un paio di momenti deliziosamente demenziali: il tentativo di approccio in discoteca presentandosi come "malato di cancro", il taglio di capelli con il rasoio solitamente utilizzato per le parti intime da Seth Rogen, genio comico totale.


Emiliano Dal Toso



sabato 27 ottobre 2012

Billy Wilder Gallery: Viale Del Tramonto

Aprendo un mio ipotetico libro sui dieci capolavori del cinema, trovereste sicuramente 'Viale del Tramonto' di Billy Wilder. Il Maestro non si è limitato, però, a creare un solo capolavoro, ma ha scritto pagine intere di Storia del Cinema: 'L’appartamento', 'La fiamma del peccato' e 'A qualcuno piace caldo' sono solo alcune delle sue opere d’arte . 'Sunset Boulevard' è uno di quei film capaci di emozionarmi e di sorprendermi ogni volta che lo guardo. Un giovane e disoccupato sceneggiatore, braccato dall’assicurazione per i pagamenti arretrati, decide di recarsi in auto alla Paramount Picture per proporre la sua ultima scadente sceneggiatura, ma sulla strada del ritorno incrocia gli odiati assicuratori. A causa di una foratura, si nasconde nel garage di una vecchia casa sul Sunset Boulevard. Da questo momento, inizierà una lenta discesa agli inferi. Questo dramma ha come caratteristiche principali, per quanto riguarda lo stile, una voce fuori campo (che mostra e descrive le azioni e i pensieri del protagonista), un bianco e nero travolgente e una straordinaria fotografia. La forza di questo immenso capolavoro consiste, però, in quelle idee che stanno dietro ad una grande sceneggiatura. Infatti, ci viene mostrato il netto contrasto tra un modo di fare e di intendere il cinema, risalente al periodo del muto, e un altro modo, giovane e nuovo, che si stava affermando. Il cinema muto è  rappresentato dalla figura della protagonista Norma Desmond (Gloria Swanson, regina del cinema pre 1929, mette in questa interpretazione tutta la sua storia personale), una diva che vive nei ricordi, di quello che è stato, del suo splendore e della sua fama. Questo suo essere ancorata al passato si nota anche dalle lettere che numerosi fan le mandano, dalla vecchia casa arredata con uno stile démodé e dall’automobile ormai da antiquariato. Oltre a ciò, si circonda di amici, anch'essi decaduti, come Buster Keaton, Hedda Hopper, Anna Q. Nilsson, mentre nella parte del maggiordomo Max troviamo Erich Von Stroheim, famosissimo regista che fece un controverso film con Gloria Swanson, mai terminato. Sintomatica di questa situazione la scena in cui Max, con tono nostalgico, elenca al giovane scrittore i tre maggiori registi del muto: Cecil B. De Mille, D. W. Griffith e, appunto, Erich Von Stroheim. Il personaggio dello scrittore disoccupato (William Holden), invece, è la metafora della voglia del nuovo cinema di uscire allo scoperto, di superare i fantasmi del passato. Nel mezzo, troviamo Cecil B. De Mille (ha diretto numerosi film con Gloria Swanson), nel ruolo di se stesso, metafora di un cinema che fu, ma che ha avuto però la lungimiranza di capire che il sonoro sarebbe stato il futuro e, quindi, di rimettersi completamente in gioco. Tutto, in questa pellicola, concorre a rappresentare un manifesto della grandezza del cinema hollywoodiano e della sua Storia. Il titolo in inglese si riferisce a una delle vie più lunghe e famose di tutta Los Angeles, dove vivono alcuni tra gli attori più famosi, mentre il titolo in italiano fa riferimento ai divi che furono, quelli del cinema muto.


Luca Recordati



venerdì 26 ottobre 2012

Le Belve (voto 3)

Quando vado al bagno ogni mattina, amo portare con me una copia del 'Corriere della Sera' o di 'Repubblica', per leggere le recensioni di critici come Maurizio Porro o Paolo D'Agostini. Di rado, capita di trovarmi d'accordo con le loro opinioni. Non è certamente stato il caso di 'Amour', dal momento che entrambi hanno osannato il film per la sua "pesantezza". Stamattina, è successo, però, che riprendessi in mano la copia di 'Repubblica' di ieri e leggessi il pezzo che ha scritto D'Agostini sull'ultimo lavoro di Oliver Stone, 'Le belve', visto ieri sera. Incredibile, la sua stroncatura traduceva in maniera civile quello che ho pensato alla fine del film. Scrive D'Agostini: "Regista prolifico e spesso in sintonia con il suo tempo, di affascinante qui Oliver Stone non presenta proprio niente. Il film è un collage di luoghi comuni ed è un prodotto di serie B... La sua estetica è semplicemente quella di aumentare le dosi in maniera parossistica. Ma senza la più lontana ombra dell'ironia parodistica dei maestri di questa pratica, da Leone a Tarantino. Sostanzialmente ci comunica, come se fossimo dentro il cinema ingenuamente razzista uscito dalle fucine hollywoodiane di sessanta o settant'anni fa, che sopra il Rio Bravo c'è l'indiscussa civiltà e sotto il Rio Bravo c'è un branco di scimmie senza valori." Ancora più efficace l'analisi dello stimato Mauro Gervasini: "Per Stone, il sesso è una plasticosa combinazione di attori insapori e incolori... Per come il regista si è immaginato le situazioni hard pare di giochicchiare con una Barbie e due Ken. Non è un'eccezione all'interno di un film che parla d'altro (la guerra tra due spacciatori bianchi e un cartello di messicani), perchè si tratta della cifra stilistica di un cineasta che è da tempo la parodia di se stesso. Privo di una precisa idea di narrazione, chiude con un doppio finale e ogni sequenza pare concepita per convincere che non siamo di fronte a un fumetto o a un pulp movie, ma al film di un grande autore. E invece, l'impressione è che si tratti solo di una violenta e patinata soap opera, senza alcun appeal." Ho preferito utilizzare le parole di altri per descrivere quello che è forse il più brutto film degli ultimi anni. Probabilmente, mi sarei fatto trasportare dall'esagerazione e avrei scritto cose brutte e anticostituzionali. Ciononostante, i motivi per cui 'Le belve' (titolo che sarebbe stato più adatto a un cinepanettone di Massimo Boldi) non merita il voto più basso in pagella ma addirittura 3 sono, appunto, tre: 1) la scena in cui Salma Hayek si strappa il parucchino fa molto ridere; 2) Emile Hirsch è uno dei miei attori emergenti preferiti e, benchè relegato in un ruolo di secondo piano, è l'unico che tenta perlomeno di recitare; 3) pensare alle belve di oliver stone sarà un'ottima alternativa alla lettura del 'Corriere' o di 'Repubblica', quando vado al bagno ogni mattina.

Emiliano Dal Toso
 


giovedì 25 ottobre 2012

Bidoni D'Autore: Amour (voto 5)

Nella recensione di 'Amour', il critico cinematografico di 'Repubblica' Paolo D'Agostini elogia l'austriaco Michael Haneke, perchè è uno dei pochissimi registi che continua a "fare un cinema pesante". Ecco perchè, secondo me, 'Repubblica' non andrebbe letta. In poche righe, D'Agostini inquadra perfettamente la stupidità intellettuale di chi pensa, a priori, che il cinema europeo sia per forza migliore di quello americano, che i film lenti abbiano per forza più significati di quelli d'azione, che gli sbadigli siano per forza sinonimo di qualità. Tutto quello contro cui cerco di "combattere", nel mio piccolissimo, col mio umile blog. Certo, i fratelli Dardenne sono degli autori, Ken Loach è un grande autore, Mike Leigh e Laurent Cantet sono degli autori, ma lo sono anche Michael Mann, Darren Aronofsky, Quentin Tarantino. No, "fare un cinema pesante" significa fare un cinema noioso e basta, non significa fare un buon cinema. E tutto ciò che annoia, che non emoziona, che non percuote, non è interessante. Haneke ha girato bei film, alcuni per nulla noiosi come 'Funny Games', altri più ostici ma affascinanti come 'Niente da nascondere'. Ha girato un grandissimo film, lento sì ma ipnotizzante, come 'Il nastro bianco', ed effettivamente intriso di significato. Nel nuovo 'Amour', il tocco di Michael Haneke è immediatamente percepibile: salotti borghesi, grande eleganza stilistica, un sottile senso di fastidio pronto ad esplodere in tragedia. Se nei precedenti lavori, però, il centro del discorso era smascherare le ipocrisie, provocare i suoi personaggi affinchè emergesse il loro lato peggiore, talvolta mostruoso, occultato dai formalismi derivanti dalla loro educazione e dal loro status sociale, con 'Amour' il dramma conturbante non è più la conseguenza degli eventi ma il presupposto dal quale, poi, tratteggiare i comportamenti dei protagonisti. I pur bravi Jean-Louis Trintignant e Emmanuelle Riva sono due ottantenni e potrebbero essere benissimo gli stessi personaggi, un po' cresciuti, di 'Funny Games' o di 'Niente da nascondere': rispetto ai film precedenti, Haneke ribalta la prospettiva, e offre una descrizione meravigliosamente umana del modo con cui il primo si prende cura della moglie malata. Il senso di pietas come unica possibile rappresentazione dell'amore, autentico, immacolato. Peccato che per giungere a questa conclusione, Haneke ci impieghi due ore e un quarto lunghissime, interminabili, nelle quali non succede praticamente niente. Noia totale, per una conclusione che non ha davvero niente di originale. Non ci sorprendiamo che un radical-chic come Nanni Moretti si sia entusiasmato di fronte ad 'Amour', attribuendogli la Palma D'Oro all'ultimo Festival di Cannes. I film di Nanni, però, sono indubbiamente più inventivi, più profondi, più vivi di questa versione intellettualoide di 'Autumn in New York', indigeribile anche per chi è abituato ai ritmi dell'ospizio.

Emiliano Dal Toso



lunedì 22 ottobre 2012

Cartoon Record: Gladiatori Di Roma (voto 6)

Da oggi nasce una nuova rubrica, dedicata all'animazione e curata da una delle nostre firme, Luca Recordati. Record utilizzerà gli occhi e il cuore del bambino, uniti alla competenza dell'esperto, per parlare di un genere ormai fondamentale per interpretare le evoluzioni del cinema contemporaneo.
        
 
Il piccolo Timo, rimasto orfano dopo la terribile eruzione di Pompei, viene adottato dal generale Chirone per essere cresciuto all’accademia di gladiatori più famosa di tutta Roma. Cercherà di riconquistare il cuore di Lucilla, figlia di Chirone, anche grazie all’aiuto degli amici Ciccius e Mauritius e della personal trainer Diana.
'Gladiatori di Roma 3D' è realizzato da Iginio Straffi, già creatore del cult per i più piccoli, 'Winx Club'. Dobbiamo essere fieri di Straffi poiché, insieme all’aiuto di un valido team di oltre quattrocento persone, ha messo in piedi gli studi della Rainbow C.G.I., che si occupano di animazione tridimensionale e di pubblicità, oltre a ricerche nel settore del 3D. Questo cartone non ha la forza di un Miyazaki, della Disney o della Dreamworks, poiché l’intento è di catturare soprattutto i bambini più piccoli; ed un tempo era anche la prerogativa dei cartoni della Disney. Se paragonato ad essi, 'Gladiatori di Roma 3D' soccombe di fronte agli indiscussi maestri americani. Quello che lo rende un prodotto fruibile da tutti i bambini è la semplicità della storia, dell'intreccio, infarcito di insegnamenti sulla vita: uno su tutti, quello di non arrendersi subito alle  prime difficoltà, perchè tutto si può conquistare con la fatica e con il sudore. Questo è il significato di questo cartone. Inoltre, la descrizione dell’antica Roma può aiutare i bambini a comprendere meglio quel preciso periodo storico. I personaggi sono ben definiti e, come vogliono le favole, c’è un buono, c'è un cattivo e c'è anche una strega, oltre ad animali simpatici, come una tigre, un orso ed un cavallo. Il doppiaggio è di buon livello e vede Luca Argentero dar la voce a Timo, la bella Laura Chiatti a Lucilla e la bellissima Belen Rodriguez a Diana. Nulla da eccepire per quanto riguarda il 3D. La colonna sonora è di Bruno Zambrini, uno dei compositori italiani con maggiore esperienza. Ha scritto 'La Fisarmonica' per Gianni Morandi, 'Bambola' per Patty Pravo, oltre a tante colonne sonore, tra cui spiccano quelle di 'Notte prima degli esami' e, soprattutto, quelle della celebre saga di Fantozzi. Se analizziamo questa pellicola da un punto di vista meramente filmico, meriterebbe un voto non troppo alto. Se la analizziamo con gli occhi e la mente di un bambino, ci divertiamo, impariamo e ridiamo. Ai più grandi che non sono genitori, zie o baby sitter, consiglio di virare su un film di Miyazaki.

Luca "Skywalker" Recordati


    

 



lunedì 15 ottobre 2012

Un Giorno Speciale (voto 5)

Cristina Comencini è uno dei grossi mali del cinema italiano. Da 'Va dove ti porta il cuore' a 'Quando la notte', passando per 'Bianco e nero' e 'La bestia nel cuore' (veramente orribile), la regista romana non è mai stata in grado di girare un lavoro perlomeno dignitoso. Figlia del grande autore di 'Pane, amore e fantasia' e di 'A cavallo della tigre', è una delle principali rappresentanti di quello pseudo-intellettualismo retorico e cerchiobottista, che si indigna di fronte ai successi dei cinepanettoni ma che dietro la facciata finto-impegnata nasconde un banalissimo e stucchevole contenuto. Nel suo cinema: soltanto personaggi benestanti, soltanto drammi famigliari, soltanto problemi sentimentali. Ha una sorella un po' più giovane, Francesca, autrice di teatro e documentarista, che cinque o sei anni fa ha girato un film molto bello, 'A casa nostra', che descriveva impietosamente che città dimmerda sia diventata Milano negli ultimi dieci anni. Attenti, dunque, a non confondere Francesca con Cristina. Francesca è anche la regista di 'Un giorno speciale', presentato all'ultimo Festival di Venezia in Concorso. Purtroppo, 'Un giorno speciale' assomiglia troppo a un film della sorella Cristina e non è lontano, per banalizzazioni e approssimazioni, alla descrizione degli adolescenti/giovani adulti dei libri di Moccia. La diciannovenne Gina si sta preparando a un incontro con un parlamentare, che le dovrebbe garantire un posto sicuro in televisione. Ad accompagnarla all'appuntamento è Marco, suo coetaneo e autista al primo giorno di lavoro. L'incontro viene rimandato a sera, a causa degli appuntamenti del parlamentare. Durante la mattina e il pomeriggio, però, i due baldi giovani avranno modo di approfondire la loro conoscenza, di confidarsi e di confrontarsi, forse di innamorarsi. Molto avviene all'interno dell'auto blu guidata da Marco, manco fossimo nell'ultimo di Cronenberg. Dopo una partenza interessante e simpatica, 'Un giorno speciale' si perde in dialoghi pressochè imbarazzanti e in una caratterizzazione dei personaggi iper-stereotipata. Tanto la regista era riuscita a individuare il marcio che invade banchieri e politicanti in 'A casa nostra', quanto non risulta assolutamente in grado di percepire i reali sentimenti e pensieri di due ventenni, costretti a inseguire i sogni che vengono loro imposti dalla società dell'apparire e della superficie. I riferimenti al velinismo e al berlusconismo sono di una sciatteria senza pudore. Se il risultato finale non è penoso come i film di Cristina, lo dobbiamo ai protagonisti. Filippo Scicchitano è di una simpatia naturale, immediata e, dopo 'Scialla', si tratta di una bella conferma. Giulia Valentini non è soltanto un gran bel biscottino. In fondo, 'Cosmopolis' è ancora più brutto.

Emiliano Dal Toso


 



sabato 13 ottobre 2012

On The Road (voto 7)

Nessuno sa quel che succederà di nessun altro se non il desolato stillicidio del diventar vecchi.
 

Ha lavorato otto anni ininterrottamente Walter Salles per trasportare sul grande schermo il romanzo di Jack Kerouac 'Sulla strada'. Il regista brasiliano de 'I diari della motocicletta' ha terminato un'impresa che altri registi sono stati costretti sempre ad abbandonare, a causa della grandissima difficoltà di trasformare in immagini le parole del libro. Stiamo parlando di progetti che vedevano Godard dietro la macchina da presa con Marlon Brando protagonista oppure di Francis Ford Coppola regista con Brad Pitt in prima linea. Salles, invece, ha scelto per i ruoli principali due attori poco conosciuti, Garrett Hedlund nei panni di Dean Moriarty e Sam Riley in quelli dell'alter-ego di Kerouac, Sal Paradise. Quest'ultimo lo ricordiamo, però, per un altro ruolo maledetto, quello di Ian Curtis nell'ottimo 'Control' di Anton Corbijn. 'Sulla strada' è sicuramente uno dei libri più belli che abbia mai letto nella vita. Come tanti altri, la grande attesa di vedere la traduzione cinematografica di uno dei propri libri più amati non può che comportare enormi delusioni. Oltretutto, quando si tratta di un capolavoro letterario riconosciuto all'unanimità (e in questo caso, sinceramente, i bastian contrari sono dei cretini). Non stiamo certamente parlando de 'La solitudine dei numeri primi'. Ad ogni modo, l' 'On the road' di Walter Salles è un buon film. Chi ama veramente il cinema, non può non riconoscere la grandissima precisione del lavoro di Salles, sotto ogni punto di vista: ricostruzione storica, ambienti interni ed esterni, musiche, paesaggistica, vestiti, tutto viene riportato in maniera semplicemente magnifica. Ottima anche la scelta del casting, non solo Hedlund e Riley sono indovinati ma soprattutto una favolosa Kristen Stewart/Mary Lou e un simpaticissimo Tom Sturridge/Carlo Marx. Belle anche le brevi apparizioni di Viggo Mortensen e Steve Buscemi. E' probabilmente questa straordinaria precisione formale a essere, nello stesso tempo, il maggior pregio e il maggior difetto del film. Se, da una parte, il risultato è quello di un'operazione impeccabile, dall'altra proprio questo sapore così vintage, così patinato, appare essere quasi un tradimento all'anarchia e alla potenza dello spirito di Kerouac. Questo è l'appunto principale da fare all'opera di Salles. Per il resto, il film scivola via benissimo, e nel finale riesce anche ad emozionare (bellissima, in modo particolare, la parte messicana). Ciononostante, va detto che si esce dal cinema con l'amaro in bocca, ma la colpa non è del regista. Si esce dal cinema con l'idea che si sia assistito alla storia di due ragazzi, di due amici troppo lontani e distanti, ormai. Si è assistito a una storia, a un racconto, a un'utopia che non esistono più. Oggi, 'Sulla strada' è un documento storico, un capolavoro letterario del Novecento. Ma è un'illusione pensare che parli ancora di quelli come noi. Tanto di cappello, comunque, a Walter Salles, che dopo aver affondato il colpo nelle radici del Che, conferma di non aver paura a rincorrere e ad aggredire il Mito.
 
Emiliano Dal Toso



venerdì 12 ottobre 2012

Billy Wilder Gallery: A Qualcuno Piace Caldo

Capostipite del Cinema giocato sul travestimento, pietra miliare della Commedia e saggio impeccabile di regia e recitazione. Non si esagera mai quando si danno queste definizioni a un film come 'A qualcuno piace caldo'. La commedia più rappresentativa e, forse, più celebre di Billy Wilder. Siamo nel 1959 e partendo da un fatto di cronaca realmente accaduto, il regista austriaco naturalizzato statunitense, tesse una vicenda che pone le basi nel fenomeno del travestismo. Con sapiente maestria, rovescia tutti gli stereotipi sessuali dell'epoca e crea qualcosa di assolutamente unico. Non una semplice commedia, ma una farsa geniale dai risvolti picareschi e in certi casi noir. Sorretta da un ritmo infallibile, riesce a trattare di Amore e Morte con una leggerezza, ma anche con un'intelligenza così grande, da lasciare estasiati. Jerry e Joe, protagonisti, loro malgrado, di tutta la vicenda, saranno risucchiati dalla spirale della sessualità, diventando donne per necessità, impossibilitati a esprimere la loro virilità. Per salvare la pelle, dovranno insomma cambiare la loro pelle. Dimostrandosi sempre a suo agio nel genere comico, qui Wilder mette in mostra tutta la sua modernità. Non a caso, un anno dopo l'uscita del film (1960), Alfred Hitchcock fece uscire 'Psyco', facendoci capire come sarebbe stata la pellicola di Wilder in salsa thriller. Fu il film preferito da Freddie Mercury, diede origine al musical 'Sugar', e molti riferimenti si possono trovare anche in 'Priscilla-La regina del deserto', film cult degli anni 90. Insomma, se la battuta finale ci ricorda come nessuno di noi sia perfetto, "A qualcuno piace caldo" ci fa intravedere da vicino cosa voglia dire la perfezione quando si parla di Cinema comico.
Alvise Wollner



mercoledì 10 ottobre 2012

Un Sapore Di Ruggine E Ossa (voto 10) IL FILM DEL MESE

- Baby you're a firework, come on, show'em what you're worth - Katy Perry

- Siamo carne e fiato - Gianna Nannini

 

E' così che vanno fatti i film. Jacques Audiard è un regista che parla della vita per quella che è, senza intellettualismi, senza fronzoli. Racconta di uomini e di donne sempre al limite, ai margini, che si affannano e che sono disperatamente alla ricerca di un appoggio per poter stare nel mondo, a loro modo. Questo accadeva nei strepitosi lavori precedenti ('Sulle mie labbra', 'Tutti i battiti del mio cuore', 'Il profeta'), questo accade nel nuovo 'Un sapore di ruggine e ossa'. Sa parlare di persone, sa raccontare la sconfitta e il riscatto, la sensualità e il dolore. Senti i sospiri, le lacrime, la rabbia dei suoi protagonisti. Glieli senti addosso. Senti i magoni, i batticuori. I graffi, sulla pelle, nell'anima. Stringere i denti, e poi ripartire. 'Un sapore di ruggine e ossa' parla di corpi, come unica risora quando tutto sembra perduto. Per Ali, l'utilizzo del corpo è l'unico modo per sopravvivere, sfruttandolo nei più disparati lavori, da quello di buttafuori a quello di vigilante, fino a quello di pugile di strada. Se non fosse per i suoi muscoli, per la sua prestanza fisica, non sarebbe nessuno. Non avrebbe niente. Per Stephanie, invece, recuperare il proprio corpo, riappropiarsene, restituirne una dignità significa tornare a vivere, tornare a sentire. Entrambi sono due solitudini, che per necessità, per solidarietà, si trovano indissolubilmente legate, strette per la vita, per i fianchi, per i sessi. Entrambi sono spigolosi, irrequieti, non riconciliati. Lui è tanto brutale e inadeguato (nel ruolo di padre, di amante, di fratello), quanto inconsapevolmente capace di attenzione. Lei ha pochissimi affetti personali, una volta era la femmina che amava essere inseguita e guardata, che amava sedurre e abbandonare. E' bellissima e, fino ad ora, è sempre stata consapevole di esserlo. Lei è Marion Cotillard, che offre l'interpretazione della sua carriera, che allunga gli arti verso il cielo, verso l'alto, quando riscopre il piacere che può offrire un'esistenza, seppur dimezzata. Lui, invece, è Matthias Schoenaerts, che respinge la possibilità di provare sentimenti ed emozioni, fino a quando non porta all'estremo la propria forza, le proprie ossa, per salvare tutto quel poco di buono che è presente nella sua vita. Jacques Audiard è un cineasta che ti stringe per il collo e ti molla solo quando hai raggiunto il limite. E' un regista pieno, che non dimentica che il cinema è anche genere, azione, intreccio narrativo, tensione. Ma è, soprattutto, un tripudio di esperienza vissuta. All'ultimo Festival di Cannes, la giuria fighetta di Nanni Moretti ha preferito il pietismo senile di Haneke. Eppure, il regista francese è uno dei pochi autori che hanno dimostrato nel nuovo millennio di saper coniugare l'espediente della finzione, dell'intrattenimento, con quello della rappresentazione della realtà (gli altri sono Paul Thomas Anderson, Darren Aronofsky, Park Chan-Wook, altri straordinari "controversi"). La "sua" macchina da presa è una donna che hai sempre amato ma che sai di non poter avere. A sbattere la fronte contro il muro, gli altri riprenderebbero il sangue sulla fronte, lui riprende quello sul muro. Bello e impossibile.

Emiliano Dal Toso




venerdì 5 ottobre 2012

Billy Wilder Gallery: La Fiamma Del Peccato

Qui parliamo di due fottuti geni. Billy Wilder, il regista celebrato nello speciale che Emiliano ha scelto per questo mese, e Raymond Chandler, semplicemente lo scrittore divenuto padre del Noir mondiale, con buona pace dei francesi. Wilder e Chandler hanno scritto insieme la sceneggiatura de "La fiamma del peccato" (1944). È piuttosto evidente che l'impronta principale sulla pellicola sia di Ray. Chi ha letto i suoi libri può ritrovare nelle battute del film la stessa ironia alcalinica, corrosiva. C'è il marcio che abbraccia le vite degli uomini. Però non solo. Un intempestivo senso morale emerge alla fine, quando è troppo tardi, talmente tardi che l'unica cosa che resta da fare è morire. Los Angeles 1938, che già solo questo basterebbe. Un assicuratore, Neff, stanco del suo lavoro, si fa convincere da una bella e ricca signora, mrs. Dietrichson, ad uccidere il consorte di lei, inscenando un'infortunio in circostanze inconsuete, in modo da riscuotere l'indennità doppia prevista in quei casi (il titolo originale è "Double indemnity"). L'assicuratore, che nel frattempo si zompetta mrs Dietrichson, assicura il cornuto, poi organizza e svolge l'omicidio a dovere. Sa il fatto suo perchè con quelle cose ci lavora. Frega anche l'investigatore privato Keyes, suo amico, che viene pagato dalla società di assicurazioni per indagare sui casi di indennizzo sospetti. Però poi non regge. Perchè l'azzardo di quella morte così assurda, quasi improbabile, perlomeno strana? Così tutto puzza di più sotto al naso dei segugi. Neff ha voluto il doppio, non avrà nulla. Si infila di notte nell'ufficio deserto del detective e racconta tutto al registratore. Se la cosa non lo redime, perlomeno gli dà sollievo. Un sollievo limitato, perchè nella clavicola c'ha un proiettile ammaccato, e perchè ha perso sangue, parecchio. Il film inizia così, quasi dalla fine. È qui che dalla porta laterale entra Wilder e mescola alle idee di Chandler le proprie. Tutta la torbida vicenda è raccontata da Neff in prima persona, il che se da un lato toglie qualcosa alla suspence, dall'altro permette al regista di lasciar andare Ray a briglia sciolta coi testi della voce fuori campo, di sfruttarlo appieno, di fargli plasmare una sorta di videolibro. Chandler plasma, Wilder resta intelligentemente lì a fianco, un po' in disparte, con una regia dimessa, perfetta per il genere. E gira un capolavoro del cinema noir. Occhio, fare un film di genere non significa limitarsi. Il noir è profondo come una coltellata, ma bisogna saper guardare nella ferita. Non mi piacciono quelli che considerano i film (o i libri) di genere delle opere minori. Un noir, per esempio, può dire di più sull'animo umano, o sulla società, di cinquemila preti e tremila antropologi. Ripeto, bisogna saperlo guardare. E poi, cazzo, in questo film ci sono certe gemme obiettivamente fantastiche, anche se prese da sole, senza concetti, senza sottotesti. Ness ci ha appena provato in maniera abbastanza sbrigativa con la signora Dietrichson, durante il loro primo incontro, e lei sbotta. D: «C'è un limite di velocità, signor Neff, 45 miglia.» N: «A quanto andavo, brigadiere?» D: «Attorno ai 90.» N: «Supponiamo che mi fermiate per arrestarmi». D: «Supponiamo che vi lasci andare... per questa volta». N: «Supponiamo che sia recidivo». D: «Supponiamo che io vi picchi sulle mani». N: «Supponiamo che io mi metta a piangere sulla vostra spalla». D: «E supponiamo che la spalla sia quella di mio marito». Figata.

Ivan Brentari

mercoledì 3 ottobre 2012

Billy Wilder Gallery: L'Appartamento

Fa' le carte e poi ridimmelo.


Billy Wilder non ha mai considerato 'L'appartamento' una commedia ma, a mio modesto parere, 'L'appartamento' è la commedia per eccellenza: perfetto equilibrio tra critica sociale e storia d'amore, magnifica descrizione della contemporaneità, straordinari chiaroscuri scavati sui visi dei protagonisti. Che cosa conta nel cinema? Che cosa cerchiamo? Intrattenimento, riflessione. Il giusto mix tra relax e stimolo intellettuale. Forse. Io, personalmente, mi considero un romantico, e il cinema è il miglior mezzo per saziare gli appettiti dei sognatori e di tutti coloro che amano il lato platonico dell'amore. Guardi 'L'appartamento' alla Mostra del Cinema di Venezia del 1960 e ti innamori di Fran Kubelik, il personaggio dell'"addetta agli ascensori" interpretato da una sublime Shirley MacLaine. Magari, lo riguardi 52 anni dopo su uno di quei canali via digitale, in una serata d'autunno, mangiando distrattamente una coscia di pollo sul divano, e ti rinnamorerai nuovamente di Fran Kubelik. Perchè il grande cinema (così come il vero amore) è destinato a durare per sempre, a non morire mai, ed i suoi protagonisti sono incarnati da quegli attori che hanno la capacità di dare vita a qualcosa che è istantaneo ed eterno allo stesso istante, particolare ed universale. Nel 2000, Kevin Spacey vinse l'Oscar per miglior attore protagonista per 'American Beauty' e il suo primo pensiero andò a Jack Lemmon, ringraziandolo per l'interpretazione indimenticabile di CC Baxter ne 'L'appartamento'. Qualche anno fa, Silvio Orlando ha dichiarato che non avrebbe mai deciso di tentare la carriera di attore se non avesse visto 'L'appartamento' e se Jack Lemmon non avesse incarnato tutto quello che avrebbe voluto essere, rappresentare, interpretare. Non esistono confini territoriali nel grande cinema. 'L'appartamento' è culturalmente americano, irrimediabilmente americano, nei ritmi, nelle caratterizzazioni, nei contenuti (per detta dello stesso Wilder, è un film sulla "tipica solitudine americana prefabbricata"); detto ciò, racconta una storia che potrebbe essere ambientata ovunque, a Berlino, a Londra, ad Amburgo, a Tokyo, anche a Gallarate volendo (citata genialmente nell'incipit dalla voce fuori campo); ha una sensibilità, un modo di descrivere i rapporti umani ed i sentimenti che è globale. Credo che il cinema non debba essere considerato semplicemente un'arte. E' di più: un mezzo in grado di unire, di influenzare, di creare una cultura condivisa (come ha spiegato ottimamente Massimiliano Gavinelli). Insieme alla musica, è l'unico strumento artistico che può essere compreso e vissuto da chiunque, senza distinzioni di razza, religione ed estrazione sociale. Questo miracolo il cinema (e il cinema americano, in particolare) lo ha compiuto, almeno fino agli anni 70. Billy Wilder ne è stato uno dei principali fautori. Per Jack Lemmon e Shirley MacLaine, invece, è stato sufficiente recuperare una partita di carte non conclusa per fare in modo che non venga mai posta la parola fine a un Sogno.

Emiliano Dal Toso