domenica 25 giugno 2017

Cannes 2017: Ismael's Ghosts, L'amant d'un jour, How to Talk to Girls at Parties, Le Redoutable

Non ci sono dubbi che l'ultima rassegna di 'Cannes e dintorni' sia stata tra le più deboli di sempre: pochissimi titoli in Concorso, assenti la Palma d'oro 'The Square' di Ruben Ostlund e gli attesissimi 'The Beguiled' di Sofia Coppola, 'The Killing of a Sacred Deer' di Yorgos Lanthimos e 'The Meyerowitz Stories' di Noah Baumbach - che recupereremo però a breve su Netflix. Non sono mancate in programma, invece, le proiezioni del discusso film d'apertura del Festival, Ismael's Ghosts (voto 5) di Arnaud Desplechin. Dopo averlo visto, ci iscriviamo al partito di chi pensa che questa scelta sia stata dovuta soltanto al cast di stelle del cinema francese da far passeggiare sul red carpet: Mathieu Amalric, Marion Cotillard, Charlotte Gainsbourg e Louis Garrel. L'impressione è quella di un'opera autorializzante e confusa, che attraversa molti temi e suggestioni e si affida a numerosi riferimenti letterari (James Joyce), incapace però di prendere una precisa direzione poetica. Troppi personaggi, troppi punti di vista che vorrebbero rappresentare l'incapacità di oggi di poter dare una sola prospettiva ai racconti e alle storie. Ma la riflessione del regista è troppo intellettualizzante e compiaciuta e il risultato è poco nitido, disinteressato alla ricezione dello spettatore. Francesissimo e garanzia di un cinema d'autore militante è il Philippe Garrel di L'amant d'un jour (voto 6), cineasta che porta avanti da decenni un'idea visiva di Settima Arte sempre fedele a se stessa. Quest'ultimo lavoro non raggiunge però le vette emotive e commoventi di Les amants réguliers e La gelosia, risultando più autoreferenziale che personale, un po' ingabbiato in uno schema narrativo troppo esile: una ragazza torna a vivere a casa del padre dopo la fine di una relazione, ma quest'ultimo ora convive con una coetanea della figlia. Tranne la solita raffinatissima attenzione ai dettagli, a dialoghi e a situazioni così credibili, non sembra che ci si discosti dai più classici temi edipici senza aggiungere alcun elemento innovativo. Un po' sgangherata ma vitale e originale è la fantascienza punk di How to Talk to Girls at Parties (voto 7) del regista cult John Cameron Mitchell (Hedwig, Shortbus), dove un gruppo di adolescenti fa conoscenza di una comunità aliena dalle sembianze umane: tantissimi i riferimenti cinefili e pop, che spaziano da Arancia meccanica a The Rocky Horror Picture Show, dal cinema camp di John Waters al David Bowie di Labyrinth e L'uomo che cadde sulla terra. Un frullato ironico che ricalca i tipici percorsi dei "coming of age": innamoramenti, goffi approcci sessuali e spirito ribelle. Da segnalare le irresistibili interpretazioni della sempre più brava Elle Fanning e di una Nicole Kidman in versione leader anarchica. Un elogio debosciato dell'anticonformismo e dell'uguaglianza tra specie (e razze) diverse. Che grandissima sorpresa, invece, Le Redoutable (voto 9) di Michel Hazanavicius: ecco il film che ci aspettavamo dal regista parigino dopo il trionfo di The Artist. Non sorprende che abbia infastidito i critici più attempati e puristi: il ritratto del Jean-Luc Godard nella sua fase più militante è semplicemente impietoso. Hazanavicius si diverte come un matto a sfottere il mito di Godard utilizzando proprio le forme e i vezzi del suo stile, come se fosse uno studente irrispettoso, irriverente e talentuosissimo. Esilarante come The Artist, ma ancora più politico e radicale: scomponendo e mettendo assieme gli stereotipi della Nouvelle Vague, il risultato è un atto d'amore alla forza popolare e iconografica del Cinema. Louis Garrel è in stato di grazia, ma a donare bellezza e luminosità è un'incantevole Stacy Martin, nei panni dell'attrice Anne Wiazemsky, vittima dell'amore per un artista geniale e arrogante.

Emiliano Dal Toso




mercoledì 7 giugno 2017

Top Ten: Classifica Primo Semestre 2017

10 - Ritratto di famiglia con tempesta - Hirokazu Koreeda
La vita dal punto di vista di un irresistibile loser: scrittore fallito, scommettitore incallito, goffo investigatore privato e padre affettuoso ancora innamorato della ex cerca di ricomporre il nucleo famigliare sfruttando il riparo della casa materna dalle intemperanze meteo. Ma dopo la tempesta, la presa di consapevolezza della sconfitta lo porterà verso un nuovo domani. Grande Hiroshi Abe, interprete comico e struggente, e bravissimo Koreeda a raccontare con equilibrio e delicatezza la tragicommedia dei nostri giorni.

9 - Dopo l'amore - Joachim Lafosse
Un dolente kammerspiel sulla fine di un matrimonio con prole, radiografia di un divorzio che coinvolge anche tutto ciò che lo circonda. Straordinari Cédric Kahn e Bérénice Bejo, che donano a litigi, ritorsioni ed esplosioni di rabbia quel senso di verità che appartiene soltanto al cinema d'autore più attento e raffinato, che non diventa mai presuntuoso. Assente ogni tipo di retorica moralista e familista, ma anche eccessi di pessimismo: non è altro che il tempo a cambiare geometrie e declinazioni emotive.

8 - Cuori puri - Roberto De Paolis
Ottimo esordio italiano, duro e tenero come il miglior Jacques Audiard. Nella periferia romana, due personaggi quasi agli antipodi si attraggono e si innamorano, ma devono affrontare difficoltà economiche, disagi sociali e il senso di colpa cattolico. Sorprendono istintività, rabbia e romanticismo, all'altezza di un cinema europeo in grado di raccontare il presente senza scorciatoie consolatorie. E attenzione a una delle scene di sesso più autentiche, emozionanti e naturali degli ultimi anni, caratteristiche rare per il nostro cinema cattofustigato.

7 - Victoria - Sebastian Schipper
Il film più riuscito che sia stato realizzato sinora con un unico piano sequenza. Certo, la scrittura non è sempre del tutto credibile ma la mano di Schipper è travolgente e immerge lo spettatore nel trip notturno vissuto da una ragazza spagnola a Berlino che esce da una discoteca techno e si fa coinvolgere da quattro ragazzi in una rapina in banca. Dalle quattro alle sei e venti del mattino succede di tutto: ma è un cinema sperimentale e febbrile che ipnotizza e coinvolge. Straordinaria la protagonista Laia Costa.

6 - Arrival - Denis Villeneuve
La fantascienza più colta, raffinata e profonda del nuovo millennio. Ogni opera di Villeneuve si rivela diversa da quella precedente, capace di apportare stimolanti interrogativi intellettuali agli archetipi dei generi. E quelli che arrivano nel cuore sono gli stessi che riportano a La donna che canta: l'importanza della comunicazione tra specie diverse, e l'amore di una madre che si manifesta attraverso la scelta di vivere. Utilizzando, nello stesso tempo, la forza di un cinema interessato prima di tutto a nutrire gli occhi.

5 - L'altro volto della speranza - Aki Kaurismaki
Stupendo Aki: un altro grandioso tassello di una filmografia dedicata esclusivamente agli ultimi, ai perdenti, ai ribelli e ai dimenticati. Si parla di nuovo di immigrazione e disperato bisogno di integrazione: perché nell'Europa di oggi è necessario. Lo stile è sempre unico, immediatamente riconoscibile, caratterizzato da quell'ironia secca e da quel minimalismo colorato che riesce a non diventare mai maniera. E un paio di sequenze sono da antologia della risata: la partita a poker, la birreria che si reinventa ristorante giapponese per essere alla moda. 

4 - Jackie - Pablo Larrain
Immensa Natalie Portman: non ci sono più aggettivi per questa piccola e meravigliosa donna. Il primo film statunitense di Larrain è il suo capolavoro privato, dove i virtuosismi del regista cileno si attenuano a favore di un intimismo sempre più marcato, interrogandosi su vita e morte, suicidio e dignità. Pablo si incolla a Jacqueline e segue il suo percorso di elaborazione del dolore, che contrasta con il suo ruolo e con le aspettative del popolo americano. E ci mostra un altro memorabile cigno nero.

3 - Vi presento Toni Erdmann - Maren Ade
Può esistere una commedia tedesca di 2 ore e 45 minuti capace di divertire e commuovere, senza mai annoiare? Sì, sempre che si sia disposti a qualche mazzata emotiva per nulla indifferente: il rapporto tra il papà burlone Winfried e la figlia workaholic Ines è di quelli che improvvisamente lacerano l'anima. Perché è un gioco di maschere che rivela l'incomunicabilità affettiva che caratterizza il nostro presente. E perché semina il dubbio che tolti i panni del clown si faccia davvero fatica a rimanere soli.

2 - Manchester By The Sea - Kenneth Lonergan
La forza insopprimibile del dramma famigliare. Amore, lutto, crollo, rinascita e romanzo di formazione: un cinema classico ed eterno, che si regge sull'intensità degli attori (Casey Affleck e Michelle Williams magnifici e struggenti), sulla potenza della narrazione e sullo sguardo di una regia delicata, impeccabile e funzionale al fattore umano. Ed è anche la fotografia di un pezzo d'America che combatte quotidianamente con solitudine e senso di colpa. Il terzo film di Kenneth Lonergan in diciassette anni, dopo Conta su di me e Margaret: a different class.

1 - Personal Shopper - Olivier Assayas
Assayas riflette sull'immaterialità del nostro tempo, sugli schermi, le immagini e i riflessi che rispecchiano il nostro narcisismo social e l'idea di mondo di cui siamo prigionieri: la messaggistica istantanea che si consacra come unico strumento di comunicazione, ed emozione. Il corpo di Kristen Stewart insegue un segno, una reazione proveniente da un Altrove, rivolgendosi sempre verso qualcosa che carnalmente non c'è più. Il film definitivo sulla nuova configurazione del nostro modo di (non) essere. Gli inganni della vita e del cinema alle estreme conseguenze: non esistono, ma siamo convinti che ci siano.



lunedì 5 giugno 2017

Teatro: Buon anno, ragazzi.

Non mi capita spesso di rimanere favorevolmente impressionato da uno spettacolo teatrale, tanto che sulle pagine di questo blog finora non me n'ero occupato. Ma per Buon anno, ragazzi. farò un'eccezione, e magari inaugurerò un nuovo corso che mi porterà a includere anche il teatro tra gli argomenti trattati. Non sono riuscito a rimanere indifferente di fronte al talento di Francesco Brandi, attore e drammaturgo trentacinquenne, che avevo visto al cinema in pellicole come Dieci inverni e Habemus Papam, seppur in ruoli secondari. Ma la faccia, un po' buffa e stralunata, mi era rimasta impressa. Ed è stata una splendida sorpresa scoprire che dietro a questa faccia si nasconde un autore di teatro in grado di radiografare l'umore e la disillusione di una generazione di trentenni con una penna deliziosa, amara e pungente. Brandi interpreta Giacomo, uno scrittore destinato a non affermarsi e già consapevole della sua sconfitta. Tutto attorno a lui è precario e trasmette un senso di instabilità: dal rapporto controverso con il suo migliore amico (Sebastiano Bottari), mai uscito dai "fumi" dell'adolescenza, a quello ancor più complicato con i genitori (Daniela Piperno e Miro Landoni), probabilmente più interessati a loro stessi e più legati all'idea di un figlio ideale piuttosto che attenti alle sue reali necessità e alle sue vere attitudini. Ma ovviamente la relazione più difficile e dolorosa per Giacomo è quella con la ex compagna attrice (la bravissima Camilla Semino Favro, che proprio in queste settimane stiamo ammirando nella serie 1993), nonché madre di una bimba che i due hanno avuto insieme ma che è stata cresciuta senza il supporto materno. Eppure l'amore di Giacomo per la ragazza non si è mai davvero affievolito, nonostante si sia inevitabilmente confuso con l'amarezza dovuta all'abbandono e il risentimento. Sullo sfondo, la notte di un Capodanno sarà il pretesto per far ritrovare tutti i personaggi e costringerli a mostrare i conti con loro stessi, sfidandosi con affetto represso e senza protezioni sul ring della vita e delle emozioni. Non siamo di fronte a un semplice ritratto generazionale, ma a un'opera teatrale rara, capace di incasellare il mood pessimista e non privo di autoironia che appartiene a tutti coloro a cui questo mondo non permette di realizzare in pieno sogni e talenti, e che costringe a non potersi concedere garanzie e certezze. Ed è così che lo spettro della normalità e della mediocrità ingabbia chi insegue il romantico miraggio di una vita artistica e intellettuale. Brandi non si piange addosso, e non oltrepassa mai il limite per cui il proprio personaggio rischi di diventare troppo autoriferito. Il suo è un elogio e, nello stesso tempo, una condanna, quella di un loser che non si compiace e a cui è impossibile non volere bene: si ride tanto, ma senza mai cadere nell'eccesso farsesco.

Emiliano Dal Toso