E' un periodo particolare per il mercato cinematografico: non si sono mai viste così tante proposte di registi italiani, per lo più esordienti. Non riesco a capire da cosa abbia origine questo improvviso interesse nei confronti delle produzioni nostrane. Tanto meglio, soprattutto se si tratta di lavori, se non impeccabili, perlomeno stimolanti e interessanti. 'Scialla!' (voto 7) dello sceneggiatore e ora regista Francesco Bruni è un film tanto ruffiano quanto divertente e irresistibile. Se da un lato Bruni si abbandona a uno spaccato sociologico un po' superficiale dell'adolescenza, dall'altro regala dialoghi memorabili e momenti di grande intensità nei quali è molto facile rispecchiarsi per genitori e figli. Il risultato finale non sarebbe però tanto godibile se non fosse per la clamorosa interpretazione dello strepitoso Fabrizio Bentivoglio nei panni di un professore di lettere in pensione. L'attore milanese è riuscito nell'impresa di individuare il perfetto punto d'incontro tra il Jeff Bridges de 'Il grande Lebowski' e il Bill Murray di 'Broken Flowers'. Disilluso, caustico, un po' hippie e un po' radical-chic, il suo personaggio vale da solo il prezzo del biglietto, rendendo scoppiettanti e anche commoventi i duetti con il coatto deb Scicchitano e con la pornodiva Barbara Bobulova (anche lei, bravissima). Un rilancio in grande stile di un attore meraviglioso, spesso sottoutilizzato, capace di incarnare un ruolo ben scritto e finalmente inedito, che forse cancella definitivamente anni di muccinismo e di comencinismo. L'opera prima di Pippo Mezzapesa 'Il paese delle spose infelici' (voto 8), invece, risplende anche per quelle caratteristiche che sono apparse meno incisive nel lavoro di Bruni. Ambientato nei primi anni 90 in una piccola città della Puglia, il film tratteggia l'età adolescenziale, descrivendola nei suoi aspetti più autentici e controversi. I due giovani protagonisti possiedono rabbia e furore, candore e ingenuità. Fantasticamente sorretto da una fotografia stupefacente, Mezzapesa riesce nell'impresa rara di creare immagini in grado di restare nella memoria. Uno di quei film nei quali la grandissima abilità tecnica è al servizio del contenuto: una descrizione impietosa del meridione, tra delinquenza e destini già scritti; un verace racconto di formazione, nel quale la scoperta dell'universo femminile si fa idealizzazione e i sentimenti sono una viva, possibile alternativa alla disperazione. Il giovane regista lascia il segno con uno stile originale e folgorante, mentre la bellissima, fulminante Aylin Prandi è il valore aggiunto di un grandissimo esordio.
martedì 22 novembre 2011
giovedì 17 novembre 2011
The Twilight Saga: Breaking Dawn Parte 1 (voto 5)
La saga di 'Twilight' prende le distanze dalle varie saghe del signore degli anelli, delle guerre stellari e degli harrypotter per il fatto che il vero centro del discorso non sono i temi più classici del fantasy o della fantascienza. Infatti, gli elementi fantastici e orrorifici che vengono utilizzati nei diversi episodi sono puro contorno per ampliare il più possibile la fetta di pubblico di un prodotto che è palesemente commerciale. Il punto nevralgico del racconto twilightesco sono indubbiamente tutti quei sintomi che legano l'adolescenza e la post-adolescenza all'esperienza amorosa e sessuale. Non l'ho mai letto da nessuna parte in maniera esplicita ma il motivo di maggior interesse per cui milioni di ragazzi e, soprattutto, ragazze si sono innamorati di questa storia divisa in cinque capitoli cinematografici è il sesso. Sesso che viene continuamente rimandato, atteso, sospirato e che è la chiave di lettura implicita di diversi spunti narrativi. La diversità del vampiro Edward non è altro che la rappresentazione di un universo maschile che non ha più punti di riferimento machisti e si trova in un costante conflitto con quello femminile, rappresentato da Bella, che rimane sedotta sempre e solo per esigenze ormonali, sia da Edward sia, soprattutto, dal fisicato amico licantropo Jacob. Ci sono voluti quattro film perchè i due protagonisti finalmente copulassero e, difatti, 'Breaking Dawn' perde quasi immediatamente quell'alone di eterna attesa e di tensione erotica che caratterizzava gli episodi precedenti. Non c'è bisogno che nessuno stia a sottolineare che la saga di 'Twilight' ha pochissima qualità meramente cinematografica (tranne il primo bel lavoro della Hardwicke): dalla recitazione molto approssimativa dei protagonisti ai dialoghi da telefilm (splendido, però, il lavoro che viene fatto per le location e la fotografia). Le qualità di 'Twilight' sono esclusivamente contenutistiche, sia pur espresse con un mediocre linguaggio filmico. Personalmente, però, trovo che prediligere il contenuto alla forma non sia assolutamente poco, in particolar modo trattandosi di un'operazione finalizzata esclusivamente ai numeri da botteghino. E, dunque, anche in questo quarto episodio non mancano alcuni aspetti interessanti. Innanzitutto, l'attrazione/conflitto fisico di Edward e Bella viene meno in luogo di una tematica quasi cronenberghiana, ovvero il contagio che dà luogo al concepimento del mostro. Qualche settimana dopo aver consumato il proprio amore, la protagonista rimane immediatamente incinta di un Essere del quale non si può sapere se la sua natura sia umana oppure vampiresca. Questo porterà a un suo terribile spossamento fisico che culminerà nella sua definitiva morte da umana. Non va sottovalutata nemmeno la presenza dell'efficacissimo personaggio di Jacob, che rappresenta l'impossibilità di un amore esclusivo e si pone soltanto come una apparente alternativa normale a Edward, dal momento che anche la sua natura è a metà strada tra uomo e animale. Per tutto il film, la sua costante presenza di terzo è funzionale ad una ulteriore evidenziatura della demolizione del coronamento utopistico dell'innamoramento. Queste sono solo alcune chiavi di lettura di un racconto che avrà pure "una messa in scena scolastica e approssimativa" (mereghetti dixit) ma che al suo interno riserva allegorie e riflessioni ben più complesse di quanto possa apparire ad una prima superficiale analisi.
mercoledì 16 novembre 2011
Festival di Roma - Speciale Italians: La Kryptonite Nella Borsa, I Primi Della Lista, Il Mio Domani
Mi va abbastanza di parlare di tre film italiani ora nelle sale, che sono stati presentati all'ultimo festival del cinema di Roma. Tre opere sulla carta molto interessanti ma dai risultati non proprio identici. Infatti, il primo che ho visto, 'La kryptonite nella borsa' (voto 5) dell'esordiente Ivan Cotroneo l'ho trovato piuttosto debole, eccessivamente programmatico e furbetto. Ci sono parecchi passaggi divertenti e godibili (grazie, soprattutto, alla coppia hippie Capotondi - De Rienzo) ma l'impressione finale è che Cotroneo abbia voluto privilegiare lo stile un po' wesandersoniano con personaggi stilizzati, look e ambienti impeccabili e stilosi alla sostanza. E alla fine non resta altro che una descrizione dell'ambiente familiare trita e ritrita, consolatoria e perbenista. Va decisamente meglio con un altro esordiente, l'italianissimo Roan Johnson, che con 'I primi della lista' (voto 8) firma una vera commedia all'italiana, leggera, garbata, sottilmente appuntita e affettuosamente malinconica. Un'opera prima in equilibrio tra autoironia e abilità narrativa, tra racconto di formazione e commedia degli equivoci, interpretata magnificamente dai tre protagonisti (tra i quali, un Claudio Santamaria davvero esilarante). Una delle sorprese della stagione, un American Graffiti alla pisana che prende in giro con rispetto e intelligenza una buona fetta di quell'intellettualismo impegnato di sinistra del quale, francamente, cominciamo a essere tutti un po' stanchi. Toni più drammatici e riflessivi sono, invece, quelli utilizzati dalla bravissima Marina Spada per il suo terzo lungometraggio, 'Il mio domani' (voto 7). Il film si regge, in modo particolare, su una prova intensissima di Claudia Gerini, splendida quarantenne in carriera, che scopre che il suo lavoro serve a licenziare la gente e che i suoi rapporti interpersonali non sono certamente soddisfacenti. La Spada ha un talento unico nel descrivere Milano e le sue solitudini, i suoi spazi vuoti, i suoi silenzi, le sue assenze (da recuperare il bellissimo 'Come l'ombra'). Per farlo, adotta uno stile da prendere o lasciare, molto antonioniano, con diversi piani sequenza e visivamente molto efficace. Per quanto non sempre l'intreccio narrativo sia all'altezza del talento tecnico e descrittivo, 'Il mio domani' è la conferma di una delle poche autrici con una impronta molto personale e riconoscibile e con una capacità di raccontare i luoghi senza pari nel panorama italiano.
sabato 12 novembre 2011
One Day (voto 8)
Il tema dei rapporti interpersonali tra uomo e donna non è certo nuovo, da 'Harry ti presento Sally' al più recente 'Amici di letto' la domanda se sia possibile un'amicizia senza implicazioni sentimentali è stata proposta ormai in tutte le possibili salse, e la risposta è generalmente che alla fine l'amore trionfa, malgrado forse nella vita vera vada diversamente. 'One Day' utilizza un meccanismo molto originale per raccontare la storia d'amore e d'amicizia di due ventenni nell'Inghilterra degli anni Ottanta: focalizzarsi su un solo giorno all'anno, esattamente il 15 luglio, in un arco temporale che va dal 1988 al 2011. Va detto che la prima parte del film ricorda eccessivamente (seppur involontariamente, suppongo) un bel gioiellino italiano di qualche anno fa, 'Dieci Inverni', che raccontava la stessa identica storia in meno tempo ma con location diverse (Venezia e Mosca). 'One Day', invece, è ambientato tra Londra, Edimburgo e Parigi e la regista Lone Scherfig riesce a trasmettere con grande eleganza e cura dei dettagli tutto il fascino e la bellezza di queste splendide città. Il film non convince immediatamente. Troppo incerottato tra un protagonista maschile piuttosto antipatico (Jim Sturgess, meglio che in 'Across the universe') e una Anne Hathaway come sempre smorfiosetta, e per una buona mezz'ora ci chiediamo per quale motivo dovremmo identificarci in due personaggi così fighetti e perbene. Poi, piano piano, 'One Day' prende letteralmente il volo e da una commedia sentimentale già vista si trasforma in un caldo melo d'altri tempi. I due protagonisti entrano sotto pelle, non sono più i figli di papà della prima mezzora ma due bellissimi personaggi di un romanzo appassionato, gestito magnificamente dalla Scherfig in ogni minimo particolare: non solo le location, ma la colonna sonora, i ruoli di contorno, i dialoghi, tutto quanto riporta a un cinema rigoroso ma di gran classe, come sembrava ormai non se ne facesse più. Ed è proprio questo gusto retro che fa innalzare 'One Day' dalle basse commedie sentimentali degli ultimi anni. Insieme a 'Non lasciarmi' di qualche mese fa, rappresenta il ritorno del melodramma classico, il bisogno di un cinema che non si riduca all'ennesima battuta modaiola sui gay ma che recuperi e insegua un genere e una tradizione che hanno fatto la Storia. E anche noi, solitamente duri, non abbiamo potuto evitare di emozionarci di fronte a una storia d'amore così autentica, reale, struggente.
Warrior (voto 8) IL FILM DEL MESE
Non è certamente l'originalità uno dei fattori vincenti del film di Gavin O'Connor. Il regista americano recupera un classico topos del cinema americano, ovvero il riscatto (sociale, economico, umano) attraverso il successo sportivo che si afferma mediante il duro allenamento fisico, e lo connubia a una storia di famiglia frantumata, un padre, ex marine ed ex alcolizzato, e due fratelli, l'uno disertore della guerra in Iraq e incattivito col mondo, e l'altro professore di fisica in crisi economica disposto a tutto pur di assicurare una esistenza dignitosa alla propria famiglia. Entrambi si ritroveranno a scontrarsi l'uno contro l'altro nella finale di un torneo di MMA (arti marziali miste), certamente non proprio la nobile arte che è stata celebrata in 'Rocky' e in 'Toro scatenato' ma qualcosa di più vicino al kick-boxing delle pellicole con Jean Claude Van Damme. Ci vuole, dunque, un talento straordinario per riuscire a cavare fuori un grandissimo film da un soggetto così risaputo. E Gavin O'Connor dimostra di avercelo. 'Warrior' è un film di due ore e venti orchestrato da qualcuno che del cinema ama il virtuosismo tecnico quando fa rima con contenuto, con sostanza. Da questo punto di vista, Michael Mann ha ridisegnato il cinema d'azione con capolavori quali 'Heat' e 'Collateral'. E per questo mi distacco da tutti quei cinefili che hanno visto in Winding Refn, il regista di 'Drive', il suo degno erede (là è solo tecnica, il resto è un puro pretesto). Piuttosto, O'Connor dimostra di essere un allievo meraviglioso. 'Warrior' trasuda di carne al macello come 'Fight Club' e di poetica da strada come il miglior Spike Lee. Non c'è un attimo di tregua, nè nella prima parte "familiare" gestita con una macchina a mano rudimentale, nè nella entusiasmante seconda parte nella quale le riprese aerodinamiche regalano alcuni dei massacri fisici più crudi e autentici mai visti sullo schermo. E', dunque, l'essenzialità stilistica e contenutistica di O'Connor che sorprende. Non c'è spazio per storie o personaggi di secondo piano (per dire, c'è solo una donna in tutto il film) ma solo una grandissima attenzione a ogni minimo dettaglio relativo ai tre protagonisti, interpretati magnificamente dallo stupendo vecchio Nick Nolte, dall'ottimo Joel Edgerton ma, soprattutto, dal bestiale (in tutti i sensi) Tom Hardy. Rispetto al recente 'The Fighter', più canonico e paraculo, 'Warrior' è soprattutto un grezzo e grandioso inno allo sport. Impossibile non entusiasmarsi di fronte alla forza di volontà del fratello più vecchio di "rimettersi in carreggiata", consapevole di essere fisicamente meno prestante dei concorrenti ma confidando soltanto nella propria straordinaria tecnica. Non solo, 'Warrior' è anche una clamorosa fotografia di oggi: lo spunto narrativo proviene, infatti, da una parte dal senso di frustrazione per la partecipazione a una delle sporche guerre di Bush, dall'altra dalla disperazione causata dalla crisi economica. E quando si ha a che fare con un cinema così pieno e senza concessioni, non si può far altro che alzarsi in piedi e applaudire. Bello e Cattivo.
sabato 5 novembre 2011
I Soliti Idioti (voto 6)
Pietro Valsecchi non è una bella persona. L'ho conosciuto durante il Festival di Bellocchio a Bobbio e mi sono trovato di fronte a un personaggio veramente cinepanettonesco, il classico produttore che vuole spennare il più possibile le sue gallinelle dalle uova d'oro (in questo caso, Checco Zalone) e mettere sempre al di sopra di tutto il tornaconto. Pietro Valsecchi non è uno stupido. Ha capito molto più di altri che cosa sia l'Italia oggi e dove sta andando e ha fiutato immediatamente il profumo dei soldi che gli avrebbe portato il talento straordinario di Checco Zalone. Il fatto che Valsecchi sia il produttore de 'I soliti idioti' sta a dimostrare che ha una comprensione dell'Italia di oggi decisamente superiore a un qualsiasi critico cinematografico intellettualoide che scambia per capolavoro un film di una banalità agghiacciante come 'Corpo Celeste' di Alice Rohrwacher. 'I soliti idioti' non è cinema, non è arte, è una roba. Come programma televisivo è inattaccabile, come prodotto cinematografico è la negazione di ogni possibile concezione di cinema inteso come sviluppo narrativo. Abbiamo diversi sketch della coppia gay (uno che pensa di essere incinto e l'altro che passa il tempo davanti al cellulare), della famiglia borghese piena di pregiudizi e del postino metallaro disadattato che si trova sempre di fronte a imprevisti burocratici. E soprattutto, abbiamo gli eroi della serie, ovvero Ruggero De Ceglie e suo figlio Gianluca, gli unici a cui la sceneggiatura ha previsto un minimo di trama (delirante, Ruggero impedisce il matrimonio di Gianluca perchè vuole, per scommessa, che faccia sentire la "presenza" alla modella di 'Smutandissimi'). Chi ama la comicità demenziale, avrà pane per i suoi denti. E' evidente che siamo di fronte a un prodotto di bassa qualità cinematografica ma sbolognare in due parole 'I soliti idioti' sarebbe un errore. Per quanto lontani dal genio assoluto di Zalone, Biggio e Mandelli sono lo specchio di una Italia eccessiva, esasperata e disperata. Prendiamo l'esempio dei due preti che vogliono modernizzare la Chiesa (assenti nel "film", peccato, li avremmo preferiti al posto della debole coppia borghese): un solo sketch è cento volte più graffiante e corrosivo di due ore di corpoceleste o di un qualsiasi film della comencini (così come lo era il grandioso cardinale di Tullio Solenghi in 'Che bella giornata'). Credo che il cinema debba essere inteso come mezzo per scuotere, per farci vedere il nero là dove sembra tutto bianco e il bianco là dove appare tutto nero. Un pilastro del cinema italiano e, diciamolo, della sinistra italiana come Nanni Moretti lo sa bene e, ogni volta, un suo film è sempre diverso da quello che ci si aspetta. Quando, invece, vengono celebrati "autori" che ripetono quello che ci sentiamo dire da anni e che piacciono a me, a te e a qualche lettore di Repubblica, dovremmo cominciare a renderci conto che c'è un serio problema di incapacità di lettura della realtà. A quel punto, io mi tengo stretto quelle risate liberatorie che la bravura di due simpatici comici come Biggio e Mandelli riescono a dare con la loro sana, ignorante e rigeneratrice demenza.
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