venerdì 27 gennaio 2012

Mission: Impossible - Protocollo Fantasma (voto 8)

Brad Bird non è Brian De Palma e nemmeno John Woo, eppure, non stiamo parlando proprio di un Signor Nessuno, dal momento che il regista di 'Mission:Impossible' numero 4 ha già vinto un Oscar per il miglior film d'animazione grazie a 'Gli Incredibili'. E il passato nel cinema animato è palese nella sua pellicola di debutto con attori in carne ed ossa, poichè l'impronta stilistica che imprime a 'Protocollo Fantasma' è più vicina a quella di un cartoon impazzito alla Looney Tunes piuttosto che a una pellicola di spionaggio. Ethan Hunt e i suoi uomini della IMF non se la passano bene. Sono accusati di aver messo una bomba al Cremlino e rimangono soli, braccati e senza alcuna copertura. Ciononostante, sono al corrente del fatto che un pazzo magnate russo voglia far scoppiare una guerra nucleare tra Russia e Stati Uniti, nostalgico dei bei tempi che furono. I Nostri, mai domi, decidono autonomamente di salvare il destino del mondo a loro modo, con il loro coraggio, la loro astuzia e le loro inverosimili imprese. Quello che distingue 'Protocollo Fantasma' dai lavori precedenti è la solita poetica da action-movie dell'incredibile coniugata a una inedita dose di ironia e a una serie di situazioni sempre più portate all'estremo. Non c'è la minima traccia di autorialità, la differenza la fa nient'altro che il divertimento. Bird si disinteressa completamente di apparire come un regista alla ricerca del profondo e della verità del mondo ed è consapevole di che cosa vuole il pubblico da una puntata di 'Mission:Impossible': Tom Cruise a quasi cinquant'anni che rimane appeso per aria al Burj Khalifa di Dubai, il grattacielo più alto del mondo. Se De Palma e Woo avevano provato a nobilitare la materia con il loro stile da primi della classe senza però ottenere risultati davvero memorabili, Bird gira un film d'azione proprio come se fosse un cartone animato. Pura ignoranza. Un altro valore aggiunto è il cast, affiatatissimo. A parte il buon caro vecchio Tom, Simon Pegg si rivela forse il vero motore del film, inanellando una serie di battute esilaranti e calandosi magnificamente nel personaggio che si ritrova sempre nel posto sbagliato al momento sbagliato. Pegg possiede una vis comica devastante e Bird intuisce che concedergli molto più spazio significa regalare alla serie autoironia e freschezza. Non sottovaluterei neanche la presenza di Jeremy Renner, tosto, di Paula Patton, gnocca, e, soprattutto, di Michael Nyqvist, il protagonista di 'Uomini che odiano le donne', cattivo, cattivissimo. E se ci mettiamo dentro anche il bellissimo finale retorico, con la celebrazione dell'amicizia e del lavoro di squadra, non possiamo negare che la missione di Brad Bird sia indubbiamente quella più riuscita.

Emiliano Dal Toso


Report: Trieste Film Festival 2012

Microcosmo atipico. Sono queste le due parole che definiscono al meglio il Treste Film Festival. Microcosmo perchè questa non è una manifestazione che ama gli spazi faraonici. Qui non troverete nessun tendone da circo in stile PalaBiennale e nemmeno futuristici Auditorium o Palazzi del Cinema. Tutto si svolge all'interno di un edificio fatiscente e littorio, carico però di un incredibile fascino. Ricavato in una ex casa del lavoratore portuale, il Teatro Miela, ospita un universo magico e ovattato. Atipico, per l'appunto. Una terra franca che appartiene a tutti e a nessuno. Vanno in scena talenti provenienti da un Mondo geograficamente vicino ma culturalmente lontano, ignoto e ingiustamente misconosciuto: l'Est Europa. Il programma è denso e complesso allo stesso tempo. Tre le sezioni più importanti in concorso: Miglior cortometraggio, Miglior documentario e Miglior lungometraggio. A questi si affiancano una marea di eventi collaterali: due retrospettive, una sulla scuola di Wajda e l'altra su Grzegorz Krolikiewicz uno dei maggiori registi polacchi abbandonato in un ingiusto dimenticatoio. Inoltre, spazio all'incontro e al dibattito con le scuole di cinema provenienti da tutta Europa con due appuntamenti dal titolo "When East meets West" e "Eastweek Showreel". Chiudono la rassegna il Premio Corso Salani e la rassegna Zone di Cinema. Il festival del Cinema di Trieste è diverso da tutti gli altri perchè viene realizzato da ragazzi giovanissimi (la maggioranza dei registi è sotto i 30 anni) ma viene seguito da gente in età avanzata. Solitamente in Italia, avviene il contrario, ed è questo il grande punto di forza. Qui non c'è nessuna attenzione verso il clientelismo delle case di produzione e nemmeno verso il gusto di puntare a un successo di pubblico. Insomma si potrebbe definire Cinema allo stato embrionale, si percepisce una voglia dirompente in queste fervide menti, nel voler realizzare un sogno, prima che un'opera di valore artistico. I loro film non hanno sempre un elevato valore cinematografico ma hanno tutti un fattore comune: trasudano passione per il Cinema e desiderio di mostrare le proprie capacità. Alla fine il premio più importante per il miglior lungometraggio se lo è aggiudicato "Dom" (La casa), film slovacco diretto da Zuzana Liovà che parla di un padre padrone desideroso di costruire due case per le sue due figlie. Le incomprensioni e l'inevitabile svolgersi degli eventi trasformeranno il suo sogno in un incubo. Una serie di tematiche viste e riviste non fanno di questo film un'opera meritevole, soprattutto in confronto con altri due film in concorso: "Avè" di Konstantin Bojanov, storia di due ragazzi che si conoscono facendo autostop e "Elena" meraviglioso film diretto da Andrej Zvjagintsev (regista de "Il ritorno"). L'organizzazione del festival, possibile grazie ai molti ragazzi volontari, è lodevole anche se non sono mancati ritardi e piccoli incovenienti. In Italia insomma non sembra essere tutto perduto, piccoli miracoli come il Trieste film festival accadono molto spesso per nostra fortuna. Basta solo saperli riconoscere e trovare prima che la folata di vento che li ha fatti arrivare torni a portarseli via fino al prossimo anno.
Alvise Wollner

martedì 24 gennaio 2012

Opinions: Nomination Oscar 2012

La prima reazione che ho avuto seguendo l'annuncio dei candidati all'Oscar di quest'anno non è stata pacata. E' una vergogna che l'Academy perseveri con l'esclusione a priori di tutti quei film che hanno nella loro centralità l'abbattimento del mito americano. A tal proposito, il fatto che 'Shame' di Steve McQueen non abbia ricevuto nemmeno le nomination per gli straordinari, incredibili Fassbender e Mulligan testimonia che gli Oscar sono una premiazione che va presa con le pinze. Ha la sua credibilità solo se viene intesa come celebrazione del "buon prodotto", che è diverso dal concetto di buon film. Per quanto riguarda gli attori, tra i non protagonisti maschili c'è un quartetto di vecchi non male (Branagh, Nolte, Plummer, Von Sydow) insieme all'emergente Jonah Hill. Favorito è Christopher Plummer per 'Beginners', commedia molto carina distribuita in Italia solo in homevideo. Tra le donne, ci sono le due memorabili interpreti di 'The Help' Jessica Chastain e Octavia Spencer. L'unica che può scippare a una delle due la statuetta è la deliziosa Berenice Bejo di 'The Artist'. Nella categoria dei protagonisti uomini, considerato lo scandalo Fassbender, sarà una lotta a tre tra Clooney-Dujardin-Pitt. Personalmente tifo per l'attore francese, meno glamour degli altri due. Così come tiferò per la bellissima Michelle Williams ('My Week With Marilyn') tra le donne, a discapito delle già famose e celebrate Meryl Streep e Glenn Close. Osservando la categoria per il miglior film, salta all'occhio la presenza di 'The Tree Of Life' e 'Midnight In Paris'. Sorprendente. Difficile che uno dei due possa spuntarla, così come non credo che possano farcela Spielberg e Scorsese. I favoriti sono certamente 'The Artist' e 'Paradiso Amaro' con 'L'Arte Di Vincere' e 'The Help' nel ruolo di outsider. Aspettiamo di vedere tutti i film prima di indicare il nostro preferito, va detto che di certo non dispiacerebbe la vittoria di 'The Artist', un inno al Cinema e una spallata al tridimensionale.

Emiliano Dal Toso

domenica 22 gennaio 2012

Sette Opere Di Misericordia (voto 4)

Negli ultimi anni, è innegabile che il cinema italiano abbia regalato degli esordi molto interessanti, vivaci e graffianti. Penso a Gianni Di Gregorio con il suo 'Pranzo Di Ferragosto', capolavoro di semplicità e di umanità, piuttosto che ad Ascanio Celestini e a Gianni Pacinotti, che con i rispettivi 'La Pecora Nera' e 'L'Ultimo Terrestre' hanno dimostrato che il coraggio e la freschezza di idee possono prevalere anche sulle ingenuità di scrittura. I fratelli De Serio irrompono con il loro 'Sette Opere Di Misericordia' e sulla carta paiono possedere le migliori caratteristiche dei loro colleghi sopra citati. Purtroppo, però, in questa opera prima il coraggio è confuso con presunzione e l'essenzialità con pesantezza e compiacimento. Il film è suddiviso in sette capitoli, ciascuno con il nome delle sette opere di misericordia che, secondo la Chiesa Cattolica, un buon cristiano deve sostenere nella sua vita. I fratelli De Serio optano per un linguaggio delle immagini decisamente radicale: pochissimi movimenti di macchina, lunghi piano sequenza, praticamente nessun dialogo. Il loro registro stilistico è scarno e naturalistico, senza concessione a modalità distensive (nessuna colonna sonora, non un momento di rilassamento emotivo). Il tema principale è sicuramente quello della pietas, inteso come preoccupazione e sacrificio nei confronti dell'altro. Un sentimento religioso, spirituale ma nello stesso tempo carnale, fisico testimoniato dal corpo sfiancato dei due protagonisti così distanti per età e così vicini per necessità e bisogno per la sopravvivenza. I modelli di 'Sette Opere Di Misericordia' sono altissimi: da Bresson ai fratelli Dardenne. Ma il lavoro compiuto è troppo inaccessibile per essere apprezzato. Se, da una parte, la volontà di non cedere a compromessi narrativi è certamente funzionale, quella di rifiutarsi a ogni tipo di espediente cinematografico per coinvolgere in prima persona lo spettatore è imperdonabile. Stiamo parlando di cinema, concepito come strumento artistico attraverso il quale la collettività può riconoscersi e riflettere su se stessa. In questo caso, i registi si rivolgono esclusivamente a loro stessi e agli esperti del settore. C'è solo tanta arroganza in questa idea di cinema, in modo particolare se ad attuarla è chi ha le capacità per utilizzare questo meraviglioso strumento. Sicuramente, i fratelli De Serio conoscono la materia ma perdono completamente di vista quello che dovrebbe essere il fine principale: parlare della vita allo spettatore, quello che paga per vedere un film e vuole essere parte integrante di un discorso, di un emozione. Il cinema è condivisione e gli stessi Dardenne esprimono un linguaggio popolare prima che autoriale. Nel momento stesso in cui questo non avviene, le interpretazioni, la fotografia, gli aspetti tecnici si sviliscono e perdono il senso.

Emiliano Dal Toso
Foto Extracomunitaria occupa casa di un anziano malato e se ne prende cura

martedì 17 gennaio 2012

Shame (voto 9) IL FILM DEL MESE

Ho già parlato di 'Shame' nei post veneziani di settembre ma, trovandolo un film grande e importante, credo che sia il caso di analizzarlo ancora meglio ora che è uscito nelle sale. Per l'occasione, ho chiesto alla mia amica e dottoressa Linda Grazia Pola di farne una recensione psicologica-sociale-femminile. Penso ne sia venuto fuori qualcosa di molto bello.
Ps: la mia "solita" recensione la potete trovare, invece, sul sito
www.occhiomeccanico.com


La visione del film "Shame" permette diverse riflessioni sulla società contemporanea. Infatti è proprio nella ricerca del successo, del progresso e del controllo che l'uomo sfodera le sue più grandi insicurezze. Il protagonista del film, un eccezionale Fassbender, vive in due realtà parallele. Quella del brillante uomo d'affari e quella del brutale pervertito. Per sopravvivere in quella che potremmo definire la realtà "adatta", quella accettata socialmente, deve riversare tensioni e impulsi soffocati nell'intimità del suo sesso. Nel film ciò che viene considerato osceno nel suo termine originale, fuori dalla scena, diventa il protagonista indiscusso. La sessualità compulsiva di Brandon mostra l'estrema difficoltà e l'estremo bisogno di entrare in contatto con l'altro. Solo desiderando l'altro o sentendosi da esso desiderato riesce a sentirsi vivo, riesce a percepirsi come essere vivente. La brama di nudità può essere considerata come un rifiuto di rimanere chiusi in se stessi, di nascondersi. Essa comunica la necessità di un incontro reale tra due persone. Ma per incontrare una persona, devo a mia volta esistere. E, invece, l' alienazione del personaggio lo porta lontano dai suoi desideri, il suo corpo cerca l'altro ma non lo trova e spesso rimane solo circondato da pezzi di carne senza vita, immortalati su montagne di giornaletti porno e in tanti di quei filmati da ingolfargli il computer dell'ufficio. Quando poi trova il coraggio di mostrarsi ad una donna, di affacciarsi alla possibilità di un incontro con una persona vera, rimane fisicamente immobilizzato dall'insicurezza e dalla paura di ciò che potrebbe comportare. E così si ributta in un vortice di pelle, annullamento e perdizione. Spinge il suo corpo fino ai limiti, ricercando spasmodicamente un piacere che non lo sazia ma, quantomeno, gli permette di evadere da se stesso. La frattura dei due universi, quello di un Brandon bello e brillante e sicuro di sè e quello che lo mostra in quanto uomo impulsivo e psicologicamente fragile, è tanto più evidente quando essi si rincongiungono. Durante la fantastica interpretazione della sorella Carey Mulligan del pezzo "New York, New York", una lacrima sola scappa al suo controllo. Per un momento incontra se stesso, abbassa la guardia. Sente la presenza della sorella, di un altro essere umano, vivo e sofferente quanto lui. Nei suoi occhi ricompare un'onestà normalmente oscurata. Ma il momento finisce e le persone che lo circondano ignorano quasi quell'attimo di umanità. Il mondo intorno ricomincia subito a correre tra le insicurezze che caratterizzano tutte le persone che viaggiano, si perdono, corrono e si incontrano e si scontrano sulle metropolitane, così come nelle stanze da letto o contro le finestre. Persone esibizioniste e con così poco di umano da mostrare. Milioni di ombre che nascondono le loro vergogne, che non sono altro che l' espressione di una fragilità umana abbandonata a se stessa.

Linda Grazia Pola

domenica 15 gennaio 2012

L'Industriale (voto 5)

E' bello ritrovare un cineasta storico come Giuliano Montaldo, genovese, classe 1930, autore di grandissimo cinema italiano, che ha regalato pellicole infuocate, ancora oggi di grande potenza come 'Sacco e Vanzetti' e 'Giordano Bruno'. Qualche anno fa era già ricomparso dopo un silenzio ventennale con 'I demoni di San Pietroburgo', adottando un linguaggio molto vicino allo sceneggiato televisivo. 'L'industriale', però, segna il vero ritorno di Montaldo alla denuncia, a quel tipo di cinema che lo ha reso importante e per il quale verrà ricordato. Purtroppo, però, il tentativo di inquadrare il momento storico-politico-economico che il film si pone sin dalle premesse fallisce. Partiamo dai (pochi) lati positivi. Una grande eleganza caratterizza tutta l'opera, d'altronde il vecchio Montaldo conosce i trucchi del mestiere: la macchina da presa è sempre al posto giusto ma, soprattutto, una città come Torino viene fotografata in modo esemplare, cupissima e plumbea. La tonalità monocromatica grigio-scura che il regista utilizza è efficacissima, sia negli interni, ai fini della descrizione della buona borghesia, che negli esterni, come a voler sottolineare il fatto che non ci sia possibilità di fuga dalla drammatica situazione nella quale si ritrova il protagonista. A tal proposito. Pierfrancesco Favino si conferma un attore strepitoso, versatile, intensissimo. Lo stesso non si può dire di Carolina Crescentini, attrice che va ammirata sicuramente di più per la bellezza che per la bravura. Dopo i primi ottimi venti minuti, 'L'industriale' si perde in un feuilleton già visto più volte nel cinema italiano: la digressione sentimentale ingombra eccessivamente quello che doveva essere il fulcro del discorso e, alla fine, si ha l'impressione di aver assistito alla solita storiella della coppia in crisi piuttosto che a un'opera attuale e impegnata. Non si può negare che un capolavoro come 'Il Divo' di Sorrentino ha posto l'asticella per il cinema italiano di ricerca politica decisamente più in alto rispetto a prima: il ritmo indiavolato e aggressivo sono del tutto assenti nel lavoro di Montaldo e anche questa volta si fa fatica a negare che lo stile da fiction televisiva prenda il sopravvento. La lezione sorrentiniana, ad esempio, è stata del tutto appresa da Molaioli che ne 'Il Gioiellino' (il film sul crac Parmalat uscito qualche mese fa) utilizzava tutt'altro linguaggio, più violento e caustico, per raccontare le falle del sistema capitalistico. Ne 'L'industriale' non si capisce se il dramma del protagonista sia più per motivi economici o sentimentali e le conseguenze che la crisi comporta sono analizzate in maniera completamente superficiale. Per non parlare del finale, consolatorio e cerchiobottista. Ci prenderemmo in giro se dicessimo che un vecchio leone è tornato a ruggire. La verità è che un eccesso di glorificazione e di timor reverentia nei confronti di chi ha scritto parte della storia del cinema italiano porta a scambiare fischi per fiaschi. Il miglior omaggio che si può fare è quello di prendersi il dizionario del cinema e di andarsi a cercare i vecchi lavori di Giuliano Montaldo.

Emiliano Dal Toso

 

mercoledì 11 gennaio 2012

La Talpa (voto 5)

Vi è mai capitato di giocare ad "Acchiappa la talpa"? E' un gioco famosissimo in cui, da una serie di finte buche, spuntano delle talpe che voi dovete colpire con un martello. Bene, se l'equipe capitanata da Tomas Alfredson ci avesse giocato almeno una volta avrebbe di sicuro realizzato un film più interessante. Siamo a Londra nel 1973. Control, il capo del servizio segreto inglese, è costretto alle dimissioni in seguito all’insuccesso di una missione segreta in Ungheria durante la quale ha perso la copertura. Con Control se ne va a casa anche il fido George Smiley, salvo poi venir convocato dal sottogretario governativo e riassunto in segreto. Il suo compito sarà scoprire l’identità di una talpa filosovietica, che agisce da anni all’interno del ristretto numero degli agenti del Circus: quattro uomini che Control ha soprannominato lo Stagnaio, il Sarto, il Soldato e il Povero. Premettendo che John Le Carrè, creatore del romanzo ispiratore, è un autore di massimo rispetto, "La Talpa" è un'operazione totalmente sbagliata. Il film diretto da Alfredson parte male già dal titolo originale "Tinker, Tailor, Soldier, Spy", uno scioglilingua macchinoso che non si addice per nulla a un film di spionaggio. Questo genere deve essere accattivante da subito: i vari James Bond e Mission Impossible non potrebbero mai avere simili titoli. Attenzione però, questo è un film che pretende di appartenere al genere delle spy-story pur andando contro tutti i canoni del genere. In "La Talpa" non troverete azione, non troverete il colpo di scena (che si capisce già dopo i titoli di testa), non troverete un ritmo serrato e nemmeno belle donne che si fanno sedurre dalle spie. Vedrete una storia elegante, un cast stellare che recita in modo volutamente pacato (da Gary Oldman a Colin Firth), atmosfere molto british al servizio di una storia che sembra rimanere implosa in un ritmo che avvolge lo spettatore nelle sue spire ammalianti. La durata è eccessiva per un film che rinnega le scene d'azione nel suo svolgimento. Certo, molti l'hanno apprezzato proprio per la sua atipicità però, usciti dalla sala, "La Talpa" non lascia convinti o soddisfatti. Presentato all'ultima mostra del cinema di Venezia, è passato abbastanza in sordina, senza ricevere alcun premio o menzione. Insomma, per dirla con le parole di uno spettatore romano dopo la prima proiezione veneziana: "Aridatece Sean Connery!". Come dargli torto, quelli sì che erano veri film di spionaggio.

Alvise Wollner


domenica 8 gennaio 2012

Immaturi - Il Viaggio (voto 6)

"Le cazzate sono come le ciliegie: una tira l'altra." Questa battuta illuminante non è farina del mio sacco ma degli sceneggiatori di "Immaturi-Il viaggio" che in questo modo regalano ai critici più spietati degli ottimi agganci per iniziare una stroncatura. "Immaturi" (capitolo 1) era stato, a mio modo di vedere, una grande 'ciliegia', e, prima di vederlo, ero convinto che il sequel sarebbe stato una 'ciliegia' ancora più grossa. Non è stato così e ancora adesso mi sto interrogando sul perchè. In verità credo di aver individuato un elemento chiave che mi ha portato a questo giudizio. Quello che non andava nel primo film era il fatto che il mondo della scuola (una classe è costretta a ripetere l'esame di maturità dopo 20 anni per un cavillo burocratico) veniva usato solo come pretesto per raccontare le vicende sentimentali e le storie di un gruppo di quarantenni perdigiorno. Nel secondo capitolo non è più la scuola ma il viaggio di maturità ad essere preso come schermo per raccontare tutt'altro. Il punto è che il primo pretesto non funzionava perchè troppo irreale, assurdo direi, mentre il secondo funziona benissimo perchè fin troppo reale. Il gruppo dei protagonisti presi dalla Sindrome di Peter Pan va in vacanza non per condividere un periodo di tempo in compagnia dei vecchi compagni di scuola ma per farsi gli affari suoi. Ognuno vuole stare per conto suo ed è proprio quello che succede a molti, nella vita di tutti i giorni, andiamo in vacanza o facciamo qualsiasi altra azione pensando prima a noi stessi e poi agli altri. Una grande immediatezza nella narrazione, una sceneggiatura efficace e divertente e una regia con movimenti di macchina e soluzioni molto raffinate sono i corollari che fanno di "Immaturi 2" una commedia estremamente piacevole. Certo, Raoul Bova non dovrebbe recitare per evitare di far danni, alcuni siparietti comici si sono già visti in altre occasioni e i luoghi comuni trionfano bellamente. E se è vero che il cinema italiano si è arenato negli ultimi anni nella palude del genere comico, è altrettanto vero che molti lo criticano erroneamente a priori. Il mio invito è: liberiamoci di tutti i possibili pregiudizi e iniziamo a giudicare le cose per il valore che effettivamente hanno. In fondo, solo cambiando le nostre prospettive possiamo diventare finalmente maturi.

Alvise Wollner

sabato 7 gennaio 2012

Le Nevi Del Kilimangiaro (voto 7)

E' uscito da più di un mese ma consiglio, se possibile, di recuperare l'ultimo film di Robert Guediguian 'Le nevi del Kilimangiaro'. Come Loach, il regista francese ama raccontare storie di gente comune, di lavoratori che devono stringere i denti per condividere il pane. Nell'ultimo lavoro, si confronta con il prepensionamento forzato di un operaio che viene rapinato poco prima del viaggio in Africa sempre sognato. Scoprirà che il rapinatore è un operaio come lui, licenziato, con due fratelli minori a carico da mantenere. La grande facilità con la quale Guediguian riesce ad alternare ruvidità e durezza delle tematiche con leggerezza delle battute e delle situazioni ricorda, appunto, il grande Ken e ne 'Le nevi del Kilimangiaro' il tono ottimista e la celebrazione della solidarietà può invece riportare al recente capolavoro di Aki Kaurismaki 'Miracolo a Le Havre'. La differenza con quest'ultimo, però, consiste nel modo in cui si giunge all'affermazione dei valori morali. Se per Kaurismaki essi sono il trionfo dell'utopia e possono prevalere soltanto grazie alla potenza del linguaggio cinematografico, l'autore marsigliese mette in pratica la propria fiducia nei confronti del genere umano, confidando nella bontà e nella fratellanza di una certa classe sociale. Da un punto di vista stilistico, il cinema di Guediguian è molto più scarno e approssimativo proprio per dare rilevanza esclusivamente alla forza contenutistica. Oltre a Guediguian, Kaurismaki, Loach, nel panorama europeo ci sono i fratelli Dardenne, Meadows, Kechiche che mettono al centro del loro cinema l'importanza dei valori umani e sociali. Purtroppo, in Italia manca ancora chi utilizza il cinema per raccontare la realtà nei suoi aspetti più essenziali e, per quanto si rivelino continuamente esordi interessanti, l'ambientazione borghese è sempre quella più sicura e convenzionale.

Emiliano Dal Toso

giovedì 5 gennaio 2012

J.Edgar (voto 6)

Ho fede in Clint. Non è certamente opinabile il fatto che sia uno dei più grandi cineasti viventi, in modo particolare il vero cantore della settima arte del decennio passato, drammaticamente e coraggiosamente raccontato-analizzato-criticato in quella incredibile serie di capolavori/grandissimi film che vanno da 'Mystic River' a 'Hereafter'. Il filo rosso che ha condotto il suo approccio fino a ieri è stata la netta presa di posizione, la capacità di porre un argomento al centro del suo discorso e schierarsi, facendolo però sempre con intelligenza e argomentazioni. Questo succedeva, ad esempio, in 'Million Dollar Baby' e in 'Gran Torino', ovviamente, ma è successo anche nei più discussi 'Invictus' e 'Hereafter', nei quali Clint continuava a proporre la sua idea completamente libera di cinema, senza alcun compromesso narrativo e ideologico (vedi la descrizione senza chiaroscuri che viene fatta di un grande personaggio come Mandela) ma nemmeno suggestivo ed emozionale (la scelta di parlare della morte e del sovrannaturale in maniera secca, senza mezzi termini). Per 'J.Edgar', invece, Eastwood preferisce adottare uno sguardo decisamente diverso, più freddo e distaccato. Va assolutamente compresa la motivazione per cui il regista americano compie questa scelta: John Edgar Hoover, capo dell'Fbi per 48 anni, rappresenta quello in cui Clint ha sempre creduto e, ora, in maniera totalmente disillusa quello di cui constata e prende atto, ovvero il fallimento di un'ideale di democrazia. Come tutti i grandi coerenti, l'autore non cede al ritratto sarcastico e facile dell'uomo politico e nello stesso tempo non ne fa una agiografia. Preferisce raccontare la solitudine dell'uomo privato, con le sue contraddizioni e i suoi lati oscuri. Alcuni aspetti sono analizzati con la solita grande abilità, dal rapporto soffocante con la madre all'omosessualità repressa del protagonista. Purtroppo, i lati politici più accattivanti e doppiogiochisti non sono approfonditi e i singoli episodi (ad esempio, la caccia a Dilinger o al rapitore del figlio di Lindberg) non sono sostenuti da una sceneggiatura adeguata. Il ritmo lento del film non aiuta lo spettatore meno dotto sul personaggio di Hoover e sulle vicende di storia americana ad appassionarsi ai diversi intrecci e, oltretutto, i continui rimandi temporali contribuiscono a dare un senso di confusione e poca chiarezza. E così, ne viene fuori un ritratto piuttosto asettico e con poca personalità. Apparentandolo al recente 'Le idi di Marzo', 'J.Edgar' segna il ritorno di un cinema molto classico ma, a differenza del film di Clooney, non c'è alcun graffio, solo grande professionalità. Di Caprio è davvero eccezionale così come lo sono la segretaria Naomi Watts e la madre Judi Dench ma non bastano per accendere la fiammella del coinvolgimento emotivo. Tutto è fatto molto bene ma manca la scossa che ha sempre caratterizzato il cinema di Clint, anche a costo di farsi rifiutare. Per quanto un Eastwood sottotono equivalga comunque ad una sufficienza piena, 'J.Edgar' non è bello, non è brutto, non è cattivo.

Emiliano Dal Toso