mercoledì 30 maggio 2012

Cosmopolis (voto 5)

Nel mio piccolo, nel mio piccolissimo, con il blog 'Il bello, il brutto e il cattivo' tento di sostenere una politica cinematografica ben precisa. Cerco, infatti, di prediligere quegli autori che provano a mettere in discussione l'immagine, che vanno alla costante ricerca di esplorare il lato bianco e il lato oscuro della vita e dell'animo umano. In modo particolare, coloro che sono interessati a una concezione di forza immaginifica, conturbante, espressiva della visione. Se uno vuole soltanto interessarsi a una storia, può tranquillamente leggersi un libro invece di guardarsi un film. A tal proposito, i miei punti di riferimento massimo sono certamente David Lynch, Lars Von Trier, Darren Aronofsky e David Cronenberg. Non ho visto tutti i film di Cronenberg ma buona parte: li ho amati quasi tutti. Portatore di una poetica costante, che viene messa in atto ogni volta con un'estetica e una narrazione differente, da 'Videodrome' a 'A Dangerous Method', quello che è al centro del suo discorso è sempre il mostro che abita dentro di noi, il non-controllo, l'infezione. Può trattarsi di mutazione genetica, di videogiochi, di psicoanalisi, di semplice innamoramento. Con 'Cosmopolis', Cronenberg utilizza come mezzo di comunicazione la macchina del capitalismo. E, per la prima volta, delude. Non ho letto il libro di Don De Lillo dal quale è tratto il film ma pare che la versione del regista canadese sia davvero molto fedele. Questo fa pensare al fatto che per una volta Cronenberg, probabilmente, si sia limitato a tradurre in immagini le parole di De Lillo. Può darsi che si sia trovato in incredibile consonanza con le posizioni dello scrittore, o può darsi che abbia preferito compiere un semplice lavoro meccanico, su commissione. Resta il fatto che 'Cosmopolis' risulta essere un film freddo, gelato, programmatico e autocompiaciuto. Il classico crescendo di tensione narrativa che caratterizza tutta la filmografia cronenberghiana è del tutto assente. La riproduzione di una società deviatamente tecnologica, claustrofobica sarà pure impeccabile ma sembra che anche il registro del film vada nella medesima direzione: a dirigere sembra essere il pilota automatico. I dialoghi innaturali, sentenziosi saranno pure voluti ma rischiano di risultare paradossali e involontariamente comici ("La mia prostata è asimmetrica", leit motiv del protagonista). E, infine, diciamolo, la metafora del capitalismo come discesa esistenzialista agli inferi e come regressione ontologica dell'essere umano non è per nulla originale. Sullo stesso tema, ben più efficaci sono 'Fight Club' e 'The Social Network' di David Fincher, ottimo regista, meno geniale di Cronenberg. E a fallire clamorosamente è il personaggio di Robert Pattinson, che rimane esangue, passivo, poco carismatico per tutta la durata di questo 'Cosmopolis'. Un'occasione persa per il simpatico belloccio idolo delle teenager, che recita vampirescamente esattamente come in 'Twilight'. A pochi mesi di distanza da un grandissimo film come 'A Dangerous Method', ingiustamente bistrattato, può succedere anche ai migliori di "bidonare" le aspettative dello spettatore più entusiasta.

Emiliano Dal Toso

mercoledì 23 maggio 2012

Tutti i Nostri Desideri (voto 9) IL FILM DEL MESE

Correrò il rischio di passare per noioso e fighetto, ma non mi stancherò di ripetere che la Francia è il paese più ispirato in questo momento storico, cinematograficamente parlando. Philippe Lioret lo avevamo conosciuto per il toccante 'Welcome'. Oggi, si ripropone con 'Tutti i nostri desideri', dramma privato e pubblico, più equilibrato, difficile, ostico del suo predecessore. Così come 'Welcome' era figlio dei tempi di Sarkozy, quest'ultimo sembra essere il primo rappresentante dell'era Hollande. La magnifica Marie Gillain è un giudice e una giovane madre, che scopre di avere un male incurabile. A fare da spalla è Vincent Lindon (il maestro di nuoto di 'Welcome', ancora indimenticabile), collega più maturo, al quale chiede di occuparsi del suo ultimo processo, dal quale è stata sospesa per legittimo sospetto. Lioret non è troppo interessato a quello che succede, ma a come succede. Il fulcro del suo cinema sono i legami che si evolvono e che si consolidano. Di fronte alla malattia, la protagonista sceglie di non condividere con i familiari il suo dolore ma di portare a termine i suoi obiettivi, affrontando il tempo che le rimane con dignità e coraggio. Il rapporto che instaura con il collega è uno dei più intensi, autentici e adulti ritratti di stima reciproca, professionale e umana, tra un uomo e una donna. Il regista bada al sodo, è asciutto e essenziale, ma si caratterizza per una abilità davvero rara: quella di far interessare lo spettatore all'evoluzione delle relazioni interpersonali, calorose, mai pericolose. Ed è clamorosamente onesto, dal momento che non si palesa mai il dubbio che possa sorgere la scorciatoia adulterina, bensì solo la possibilità di un ultimo grande approccio al genere umano. I due personaggi di Gillain e Lindon, infatti, sono di una bellezza straordinaria: dal vicendevole amore per la giustizia e per i più deboli al reciproco sostegno, fatto di nuove, semplici scoperte (il rugby, la musica di Rickie Lee Jones). Nel frattempo, Lioret affronta anche temi sociali, che rimangono però più sullo sfondo: le pubblicità ingannevoli delle società che propongono prestiti, la necessità di un lavoro che garantisca una sopravvivenza decorosa. E, soprattutto, una concezione del diritto da applicare in relazione alle singole necessità e non secondo l'interpretazione letterale. Come succedeva in 'Welcome', non è facile non abbandonarsi all'emozione e alla commozione di una storia che pone al centro le ingiustizie e i lati più teneri e gioiosi dell'esistenza (anche in questo caso, lo sport ha un ruolo fondamentale: non solo il rugby ma nuovamente il nuoto, centrale in una struggente sequenza). E, a differenza di 'Welcome', non è più il dramma sociale a scuotere ma quello privato. 'Tutti i nostri desideri' è solo un altro grandissimo film.

Emiliano Dal Toso


venerdì 18 maggio 2012

Football Movie: Il Mio Amico Eric

Quando i gabbiani seguono il peschereccio è perchè pensano che verranno gettate in mare delle sardine.
“Ooh Aah Cantona”, cantano i tifosi del Manchester United, mentre stanno andando ad assistere ad una partita della loro squadra preferita. Ma che c’entra Cantona in un film di Ken Loach? Semplicemente, fa le veci della coscienza di Eric, uomo sulla cinquantina con due figli che vivono sotto lo stesso tetto e una figlia più grande con un bambino; è ancora sconvolto, perché da sette anni ormai non riesce più a parlare alla sua ex moglie. Cantona riuscirà nell’intento di riavvicinarli.
In questo film Ken Loach abbandona i temi sociali, per abbracciare temi universali quali l’amore, l’amicizia, il passato e la disperazione. Ma, se ad un primo approccio ci troviamo spiazzati di fronte a questa pellicola, possiamo comunque trovare similitudini con gli altri suoi  lavori. Il punto d’unione è il protagonista, postino, che non ha ancora accettato la separazione dalla moglie. Loach è abilissimo a scavare nel profondo di Eric, mostrandoci un uomo molto impaurito. Questa sua paura è la paura di vivere, di accettare il volere del mondo e di crescere i suoi due figli. Ma il protagonista, grazie all'ispirazione del suo idolo Cantona, riuscirà a trovare la propria dignità e la forza di reagire. Fino a metà film, l’andamento è tranquillo, ma quando Eric scopre che uno dei suoi figli nasconde una pistola, appartenente a un boss, che lo porta a vedere le partite del Man Utd, il ritmo si fa più intenso, fino a un finale in cui il protagonista, grazie ai suoi amici più fedeli e ai tifosi del Manchester, riesce a sbeffeggiare il boss. A questo punto il regista si chiede: “Conosciamo veramente chi ci sta vicino e condivide la nostra quotidianità?” Loach, in opposizione, forse, con la dirigenza americana, fa indossare ad uno dei  suoi magnifici personaggi la maglia storica della squadra: una maglia carica di significato, che fa riferimento ad un periodo in cui contavano veramente la passione e i valori sani del calcio. Ma soprattutto quello che conta, ci fa intendere il regista, sono gli amici, pronti ad ascoltarti e ad aiutarti, qualunque sia il problema. Questo film è soprattutto un inno al Calcio e all’Amicizia.
Luca "Mauriziobertarelli" Recordati

martedì 15 maggio 2012

Molto Forte, Incredibilmente Vicino (voto 6)

Era meglio il libro. Quante volte siamo usciti dal cinema con la delusione stampata sul viso, per il fatto che l'adattamento cinematografico del nostro romanzo preferito non ha soddisfatto le nostre aspettative? Chi di noi non ha un libro amato, che conserva gelosamente nel cuore, del quale la riproduzione sullo schermo è assolutamente deplorevole ai nostri occhi? Personalmente, è successo anche a me, diverse volte, di sentirmi tradito. Eppure, bisogna andare avanti, farsene una ragione, perchè il cinema è il cinema, e la letterattura è un'altra cosa. Nel caso di 'Molto forte, incredibilmente vicino', ci saranno sicuramente tanti amanti del libro che rimarranno delusi. Perchè il libro faceva dell'originalità la sua forza principale, mentre il film è un classico dramma hollywoodiano per famiglie, come ne abbiamo visti tanti e ancora tanti ne vedremo. Stephen Daldry è regista bravo e scaltro. Arrivato al quarto film, ha centrato la terza candidatura agli Oscar per la statuetta principale. I temi della crescita e dell'abbandono dell'innocenza erano già stati affrontati in maniera più profonda e complessa nei precedenti 'Billy Elliot' e 'The Reader'. 'Molto forte, incredibilmente vicino' pecca di semplicismo e di prevedibilità. Per quanto Daldry non si sia mai caratterizzato per virtuosismi tecnici, la sua regia è professionale nei passaggi più emozionanti, anonima in quelli più deboli. Lavora di sottrazione, per lasciare spazio a un cast di buon livello. Il giovane Thomas Horn è credibile, Tom Hanks si fa voler bene e, stranamente, anche Sandra Bullock offre un'interpretazione stimabile. Domina, su tutti, il grande Max Von Sydow, in un ruolo molto sfumato e non semplice. Come le vecchie glorie a fine carriera, se la cava con classe ed esperienza. Non tutti i personaggi, però, lasciano il segno. Gli uomini e le donne che il protagonista incontra durante la sua ricerca sono delineati con eccessivo buonismo. Non convince nemmeno l'ambientazione newyorchese, che nel libro aveva un ruolo fondamentale. Malgrado i tanti difetti, però, il film riesce ad emozionare. Merito soprattutto di una solida base narrativa, dunque, merito di Safran Foer. Ma è anche merito del fatto che un paio di sequenze, quelle decisive, sono indubbiamente riuscite: la "resa dei conti" tra l'anziano vicino di casa e il piccolo Oskar, la delusione di quest'ultimo di fronte al reale significato della chiave lasciatagli dal padre. Difficilmente, chi possiede un cuore tenero riuscirà a non farsi coinvolgere. 'Molto forte, incredibilmente vicino' funzionerà benissimo in prima serata, su Canale 5, il lunedì sera. Quella è la sua collocazione. Un cinema medio e di consumo da una parte, popolare e classico dall'altra. Tanto spudoratamente ruffiano nella ricerca della lacrimuccia, da suscitare simpatia.

Emiliano Dal Toso

lunedì 14 maggio 2012

Football Movie: Febbre a 90

Noi non supereremo mai questa fase.
Tifare una squadra di calcio è un mistero della fede. Esattamente come l'essere adepti al cristianesimo o a Scientology, o l'innamorarsi di una donna ingrata, che fa di tutto per essere ignorata. Qualcosa che non può essere spiegato razionalmente. E' una vibrazione assolutamente non logica, che non ha provenienza e non ha destinazione. E' un dato di fatto con il quale bisogna convivere. 'Febbre a 90' è un film inglese del 1997, tratto dal romanzo di Nick Hornby, che ha curato anche la sceneggiatura. Appartiene sicuramente molto di più a lui che al regista David Evans, unico suo lavoro, del quale si sono persi immediatamente le tracce. Ma appartiene molto anche al grande Colin Firth, che interpreta il protagonista Paul Ashworth, un bravo insegnante single, tifosissimo dell'Arsenal. Uno al quale non interessa guadagnare molto, gli basta il necessario per sopravvivere ogni giorno, comprarsi un paio di dischi al mese e andare a vedere l'Arsenal tutte le domeniche. Un tipo assolutamente comune, regolare, anche piuttosto colto, ma che ha i risultati dell'Arsenal come pensiero principale. Fino a quando non piomba nella sua vita Sarah, collega molto carina ma nemmeno troppo, la quale si innamora di lui. Anche a Paul piace Sarah ma non così tanto da fargli sacrificare il tempo, i soldi, le esplosioni emotive, di rabbia e di gioia, che dedica all'Arsenal. Non credo che sia mai stato realizzato un film come 'Febbre a 90'. Questo non significa che sia un capolavoro ma semplicemente una commedia sentimentale, tutto sommato, molto godibile. Come dicevo, la regia di Evans è abbastanza insignificante. Quello che conta sono i dialoghi di Hornby e la descrizione che viene fatta del tifoso di calcio medio, quello che non va in curva e non ha niente a che fare con gli ultrà ma che è condizionato, quotidianamente, dall'andamento stagionale della sua squadra. Da questo punto di vista, 'Febbre a 90' è un indimenticabile cult. La sua forza è l'ironia, la tenerezza, la straordinaria sincerità che caratterizza ogni singolo passaggio, nel quale chiunque tenga a cuore undici uomini che corrono dietro a un pallone può identificarsi. Difficilmente 'Febbre a 90' sarebbe potuto essere un film italiano. In Italia, malgrado il calcio sia l'argomento di discussione numero uno, non potrebbe mai essere l'oggetto centrale di una cinematografia intellettualistica e autocelebrativa, che ha perennemente paura di non essere presa sul serio. In Italia, i film sul calcio li possono fare soltanto i Vanzina. In Inghilterra, esiste una cultura capace di comprendere che cosa è davvero universale, popolare. E il calcio ha con sè questa forza, di radunare attorno a sè persone di luoghi e ambienti assolutamente differenti. Perchè il calcio riempie i vuoti. Perchè col tempo cambia tutto lo sai e cambiamo anche noi, ma il calcio non cambia mai. A volte, può essere sufficiente un Michael Thomas che segna all'ultimo minuto il gol decisivo dello scudetto piuttosto che un Pippo Inzaghi che esulta sotto la curva all'ultima partita della sua carriera per digerire più dolcemente l'amara pillola della vita.

Emiliano Dal Toso


mercoledì 9 maggio 2012

Football Movie: Sognando Beckham

Calcio, multiculturalismo, pregiudizi, risate e romanticismo. Non è facile, nel momento in cui si realizza un film, tenere sotto controllo tutti questi elementi. In certi casi solo alcune parti riescono a essere piene di forza narrativa, mentre altre risultano un po' inutili. Il più grande pregio di "Sognando Beckham", diretto da Gurinder Chadha, è proprio quello di saper spaziare su un'incredibile vastità di temi senza mai farli pesare, creando un mix originale, fresco e divertente. Nell'Inghilterra di qualche anno fa, Jess, una ragazza indiana che ha come idolo David Beckham, è combattuta tra l'obbligo di rispettare le rigide tradizioni del suo Paese e la grande voglia di esprimere il suo talento nel gioco del calcio. Ci riuscirà grazie all'aiuto dell'amica Jules e dell'allenatore Joe, gli unici a credere fino in fondo nel talento della ragazza. In questa briosa commedia osserviamo come il Calcio sia usato in funzione di pretesto, una specie di sottofondo scenografico/narrativo, per fare da cornice a una storia che vuole parlare di tutt'altro. Alla regista, di origini indiane, interessa affrontare temi come il multiculturalismo o come la difficoltà di essere accettati. Viviamo in una società che noi amiamo definire moderna e all'avanguardia, ma continuiamo a diffidare del diverso (dell'Altro) e siamo ancora attaccati a pregiudizi medievali. C'è da dire che i difetti nel film non mancano, la sceneggiatura è in alcuni casi stentata, i personaggi (soprattutto quelli del mondo indiano) sono a dir poco degli stereotipi: la madre osservante e iper-protettiva, il padre duro a prima vista, ma pronto ad aiutare la figlia per garantire il lieto fine, l'amico gay e via dicendo. La regia è di chiara matrice televisiva ma tutto questo, se la storia funziona bene, diventa di relativa importanza. "Sognando Beckham" è uno dei film sul calcio che hanno avuto più successo al Cinema, la sua unione di commedia esplosiva in stile Bollywood e di temi cari al cinema commerciale americano, lo hanno trsformato in un piccolo cult. In fondo il suo messaggio è quello che anche il Calcio vorrebbe insegnare, a chi lo guarda: non importa chi siete, da dove venite, come la pensate. Tutti noi possiamo essere uniti e affiatati dalla voglia di correre dietro a un pallone, tutti noi siamo uguali nel momento in cui ci sediamo su una poltrona e aspettiamo che un proiettore alle nostre spalle inizi a farci sognare. Seduti al cinema, seduti allo stadio esiste un unico collante capace di spezzare qualsiasi differenza: si chiama PASSIONE.

Alvise Wollner

domenica 6 maggio 2012

American Reunion (voto 8)

Nella recensione del nuovo episodio di American Pie, Maurizio Porro ha scritto di non dare retta ai blog che diranno, a priori, che è fichissimo. Io dico, invece, di non leggere Maurizio Porro. Oltretutto, nella sua sua simil-stroncatura del film, il critico del Corriere della Sera sostiene che il primo della serie, datato 1999, sia stato il punto di riferimento per tutto il filone neo-demenziale, menzionando in modo particolare Apatow e i fratelli Farrelly. Peccato che i maggiori successi dei Farrelly risalgano al 1994 ('Scemo e più scemo') e al 1998 ('Tutti pazzi per Mary'). E, peccato, che il signor Porro di questo genere volgare, sboccato non ci abbia capito un fico secco. 'American Reunion' (titolo originale migliore di quello italiano, 'Ancora Insieme') è uno dei lavori più rappresentativi del cinema americano demenziale degli ultimi due decenni. L'asticella del politicamente scorretto era già stata alzata dai Farrelly, appunto, tempi orsono. Il gusto goliardico e liberatorio del loro cinema è stato integrato, nel corso degli anni, dall'umanissima descrizione dei rapporti interpersonali nelle storie dei goffi e perdenti protagonisti dei film di Apatow ('Suxbad', 'Molto incinta'). 'American Reunion' è derivativo della poetica di Apatow esattamente come 'American Pie' lo era di quella dei Farrelly. I cinque protagonisti storici della serie (l'imbranato Jim, il sedicente filosofo Finch, il rassicurante Kevin, lo sportivo Ostreicher, il vulcanico Stifler) si ritrovano dodici anni dopo il diploma, trentenni e piuttosto insoddisfatti. Sono un bell'esempio impietoso dell'americano medio. La maggior parte di loro è frustrata dal lavoro o, comunque, da una quotidianità che li imprigiona. Il sesso, ora, non è più una scoperta adolescenziale. Non è altro che un pretesto per ritrovarsi insieme e tentare di rivivere un determinato periodo della loro vita, destinato a non ripetersi più. 'American Reunion' rischia addirittura di rivelarsi il capitolo migliore, proprio perchè è una fotografia dolceamara dei sogni giovanili perduti. Ed è, comunque, sorretto da una vitalità comica straordinaria. Il colpo vincente di tutti gli American Pie è la caratterizzazione dei protagonisti, marcatamente diversi tra loro, eppure non stereotipati. Chiunque potrebbe riconoscersi in ciascuno di loro. Il capogruppo Jim è la gaffe per antonomasia, il bravo ragazzo che, per incredibile maldestrezza, si ritrova in situazioni esattamante opposte alla sua essenza. Finch è l'eterna illusione, l'intellettuale che inneggia alle donne mature, al buon vino e alla pace dei sensi ma che non è in grado di mettere in atto le sue aspirazioni. Kevin è il conformista, il ragazzo della porta accanto che si accontenta di poco ma che è ancora innamorato della ragazza del liceo. Ostreicher si rivela il personaggio più aspro: lo sportivo belloccio che finisce per essere un prodotto dello star system, contro la sua volontà. Quasi una demolizione del classico Sogno Americano. E, infine, Stifler, il ruolo-chiave del distruttore. Eternamente adolescente, immaturo, incapace di instaurare rapporti umani che vadano oltre lo scherzo e la goliardia. 'American Reunion' non è il classico sequel, finalizzato all'incasso immediato (arriva nove anni dopo 'Il matrimonio'). Sotto la risata grassa, nasconde una nostalgia canaglia, oltre alla solita celebrazione cameratesca dell'amicizia. E, come Apatow e i Farrelly, inquadra quel lato della vita perennemente fisso sullo specchio retrovisore. Alla faccia di Maurizio Porro.

Emiliano Dal Toso


venerdì 4 maggio 2012

Gli Infedeli (voto 7)

Non c'è che dire che questo sia un momento storico particolarmente felice per il cinema francese, fresco della vittoria del campionato mondiale del cinema con l'Oscar di 'The Artist', oltretutto giocando da ospite una competizione che viene vinta praticamente sempre dai padroni di casa. Lo hanno confermato anche il carino 'Quasi amici' (ottenendo un riscontro al botteghino molto più che carino) e l'ottimo 'Piccole bugie tra amici', dimostrando che si può fare del cinema medio, popolare, eppure intelligente, arguto, stimolante (alla faccia di Brizzi e delle sue "sparate" contro il cinema d'autore). Lo conferma 'Gli infedeli', operazione interessantissima nella quale sette registi differenti girano altrettanti episodi (più un prologo) sul tema dell'infedeltà maschile. I protagonisti dei diversi episodi sono sempre i due fantastici mattatori Jean Dujardin e Gilles Lellouche, autori anche dell'episodio finale 'Las Vegas' (il meno riuscito). L'aspetto più interessante de 'Gli infedeli' è proprio il fatto che ogni episodio abbia una forma e una caratteristica diversa. Si passa da quello più demenziale a quello più drammatico, passando per il genere noir o per la commedia di costume, con grande facilità, grande abilità da parte di tutti coloro che hanno preso parte a questo progetto. Tutti gli episodi sono assolutamente godibili, ma in modo particolare non possiamo non citare quello del premio Oscar, appunto, Michel Hazanavicius 'La coscienza pulita'. Interpretato da un Dujardin irrefrenabile, a metà strada tra un Vittorio Gassman e uno Steve Carell, riflette la solitudine di un uomo patetico e mediocre, alternando in modo fantastico riso e amaro. Riso amaro, appunto. La commedia all'italiana di qualche decennio fa, infatti, è proprio il modello dichiarato di Hazanavicius. Un altro episodio riuscitissimo è quello di 'Lolita' di Eric Lartigau. In questo caso, il ruolo principale è del bravo Lellouche, dentista innamorato di una diciannovenne universitaria. Ed anche in questo caso, sorprende la profondità del racconto, la capacità di raccontare universalmente qualcosa di controverso, il lato aspro dell'amore e della vita. Eppure, non c'è traccia di autorialità o intellettualismo (capito, Brizzi?). Va dato atto, dunque, che oggi come oggi la Francia riesce a produrre quel cinema medio di intrattenimento che noi non siamo più in grado di fare, di girare. Avremo pure i nostri Giordana e Taviani ma, dopodichè, c'è un vuoto pneumatico proprio nel genere, quello della commedia, per il quale una volta eravamo conosciuti in tutto il mondo.

Emiliano Dal Toso


 

martedì 1 maggio 2012

Football Movie: Maradona By Kusturica

I migliori film sullo sport più belo du mundo.
Se c’è una cosa che accomuna Diego Maradona ed Emir Kusturica, questa è indubbiamente la splendente genialità, la capacità di creare il bello per il popolo. Col corpo, il maestro Diego, con le sue immagini surreali e commoventi, il grande Emir. Sono popolari. Ciò non significa semplici, banalizzanti. Essere popolare significa trasmettere con semplicità un messaggio alto, l'arte, se volete. La banalizzazione è il popolaresco, altra cosa. Non voglio dire molto sul documentario Maradona by Kusturica: in molti mesi di riprese tra Argentina e Serbia, Emir segue Diego, corre appresso ai ricordi del Pibe de oro, vi aggiunge i propri, e ci regala quei due bellissimi minuti in cui Manu Chao canta La vida tombola per strada di fronte ad un commosso Maradona. "Che cos'è il genio?" ci e si chiedeva Mario Monicelli in un famosissimo film. Beh, nel calcio, ma vita e calcio si assomigliano, il genio è Diego Armando Maradona. Chi ha visto Diego giocare si sarà accorto di come Maradona in campo creasse qualcosa di distante dal semplice gesto sportivo. Ogni suo tocco, dribbling, tiro, pallonetto è un momento di umanità. Inaspettato, imponderabile, elegante, contro le regole (vedi la famosa mano). Devo dire che trovo offensivo il paragone, che purtroppo qualcuno fa, tra Diego e Lionel Messi. Messi sta a Maradona come l'odore della plastica sta all'odore dell'erba. In Leo non c'è creatività, ma un impressionante controllo di palla, una grande agilità, uno scatto breve fulminante, una tecnica mostruosa. Quando parte per le sue serpentine, più o meno tutti sappiamo come finirà l'azione, nessuna sorpresa, niente imponderabile maradoniano. Messi è stato praticamente allevato dal Barcellona, strappato alla sua culla argentina (gli argentini lo malsopportano proprio perchè non è nemmeno cresciuto in patria), imbottito di ormoni per la crescita e programmato per essere il più forte, nella squadra più forte. Un robot in una formazione che gioca seguendo parametri da programma informatico. Fuori dal recinto catalano i chip si inceppano, la macchina si rompe, perchè Leo non ha conosciuto nessun'altra realtà all’infuori del Barcellona. E, infatti, in Nazionale non gira. Messi non sarà mai popolare, non avrà mai la forza di caricarsi un paese sulle spalle e di sbeffeggiare l'Inghilterra con un gol di mano ai Mondiali. Nel 1986 quella mano non appartiene solo a Maradona: sono milioni di mani argentine. Milioni di sputi raggiungono simultaneamente Margaret Thatcher al di là dell'oceano e le restituiscono la sua stupida guerra delle Falkland, la sua violenza neocolonialista. La miseria schiaccia l'impero. Guardate Diego, guardatelo, ma guardatelo bene però. Ecco, state guardando un uomo. Te quiero Diego.

Ivan Brentari