venerdì 27 aprile 2012

The Rum Diary - Cronache Di Una Passione (voto 4)

La carriera di Johnny Depp si divide in due parti, l'una pre-Jack Sparrow, l'altra post-Jack Sparrow. Nella prima, Depp si è rivelato probabilmente il miglior attore della sua generazione. Lanciato da Tim Burton nell'insuperato 'Edward mani di forbice', ha attraversato gli anni 90 inanellando un ruolo indimenticabile dopo l'altro. Ricordo solo alcune tra le grandi interpretazioni dell'attore americano: l' 'Arizona Dream' di Kusturica, il 'Dead Man' di Jim Jarmusch e, soprattutto, quelle per cui viene maggiormente ricordato e amato, 'Donnie Brasco' e 'Paura e delirio a Las Vegas'. A un certo punto, pareva che Depp potesse fare qualsiasi cosa. Con l'inizio del nuovo millennio, diventato un'icona anti-hollywoodiana, il suo nome ha superato la consistenza dei prodotti cinematografici che lo hanno visto protagonista: 'Blow' e 'From Hell' sono due esempi di film sopravvalutati tra i tanti, sottotono, di questo periodo della sua carriera. Arriva, poi, il personaggio che lo rende un divo universale, divenendo anche un idolo delle nonne e dei loro nipotini: il famigerato Jack Sparrow della serie dei 'Pirati Dei Caraibi'. E qua, arriva il ribaltamento di tutto ciò che rappresentava. Tutto ciò che prima lo rendeva ribelle, anticonformista e imprendibile non esiste più. Ora, è un marchio più che un attore. I suoi ruoli non si sganciano più dallo stereotipo del bello e maledetto, perduti perennemente nella barocca estetica timburtoniana, nell'immagine del dandy tenebroso e sopra le righe. Non l'ho visto ma è come se l'avessi già visto. Negli ultimi dodici anni, un solo grande film: 'Public Enemies' di Michael Mann, uno che sarebbe in grado di far recitare anche Gabriel Garko e Raz Degan. E, ora, arriviamo a questo 'The Rum Diary', che rientra perfettamente nella macchietta contemporanea di Johnny Depp. Il personaggio è quello di 'Paura e delirio a Las Vegas', più annoiato e meno divertente. La qualità sostanziale del film è mediocre. Regia e sceneggiatura sono sotto il livello medio delle produzioni americane. Il minimo lato positivo può derivare dal gusto vintage degli oggetti e delle musiche. Bellissimi occhiali, bellissime macchine, bellissime canzoni, in grado di far rivivere in pieno l'atmosfera portoricana degli anni Sessanta. Johnny è sempre in postumo, con quello sguardo sperduto di chi vorrebbe essere in camera da letto, balconata con vista sulla Tour Eiffel, abbracciato a una modella meravigliosa, piuttosto che su un set cinematografico. D'altronde, è molto più chic tenersi distanti da quei cattivoni di Hollywood, girare soltanto brutti film, per poi prendersela con un'industria che ragiona esclusivamente attraverso il dio denaro.

Emiliano Dal Toso


mercoledì 25 aprile 2012

Pollo Alle Prugne (voto 5)

C'è un critico cinematografico francese bravissimo, Eugenio Renzi, che ogni mese pubblica sul mensile di cinema italiano più glamour una recensione negativa di un film generalmente celebrato. Ogni volta, rimango tremendamente affascinato e divertito dal suo stile e dalla sua intelligenza, tanto che, per questa volta, mi affiderò alle sue parole per descrivere l'impressione che ho avuto di 'Pollo alle prugne'.
"Pollo alle prugne. Ingredienti. Mathieu Amalric nel ruolo del pollo. Un pollo mollo da batteria, di quelli che uno sguardo basta a staccarne la carne dall'osso. Come prugna secca, due qualità: l'Isabella Rossellini, sempre più apprezzata nel ruolo di genitrice avvizzita, e la Maria de Medeiros, appena meno stagionata, di certo meno pregiata, ma perfetta in un ruolo che, se la pietanza fosse stata cucinata alla maniera di Cinecittà, sarebbe stato di Milena Vukotic. Per ottenere un vago profumo di medioriente, prevedere almeno un'attrice iraniana, che non importa se incespica con il francese, tanto tutto è ripassato nella padella insipida del doppiaggio italiano. Se in frigo vi è rimasto qualche avanzo della vostra cena precedente ('Persepolis'), tipo la nonna simpatica che fuma come un turco o lo zio intellettuale comunista che esce e entra di prigione, non esitate a tirarli fuori, tutto fa brodo. Per finire, dotarsi di una dose abbondante di animazione Satrapi. Preparazione. Prendete una storia vagamente autobiografica. Ambientatela in Iran, colorate copiosamente i disegni di foggia orientale con toni Montmartre e nevischio parigino. Cucinare a fuoco alto, finchè il tutto non prende un colorito Amelie Poulain. A quel punto, mettete tutto quello che avete nel calderone: scenette simpatiche, tristi, pop...Date libero sfogo al cattivo gusto. E continuate la cottura a fuoco lento, lentissimo. Quando non ne potete veramente più, ravvivate mettendo l'ingrediente principale, la storia d'amore, che avevate precedentemente scottato e messo da parte senza un vero perchè. Ridate un po' di fiamma, servite come vi pare e non dimenticate di mettere la parola fine. Ecco, la frittata è fatta." Vorrei che tutte le stroncature venissero scritte con l'arguzia, il sarcasmo, l'inventiva della penna di Eugenio Renzi.


lunedì 23 aprile 2012

Music And Life: Amadeus

Biografia di un genio-folle, ottimo esempio di recitazione attoriale, tripudio scenografico e costumistico. "Amadeus" di Milos Forman, come tutti i film importanti nella Storia del Cinema, possiede ognuna delle qualità appena elencate. Prendendo come spunto le vicende biografiche del più celebre compositore musicale al Mondo, il regista ci parla di come, nella vita, sia importante cercare di uscire dalla mediocrità per esprimere se stessi nel modo che sentiamo più vicino a noi, non imitando sempre gli altri. La forza di "Amadeus" è tutta qua: nell'essere riuscito a mostrare l'eterna competizione a cui ci spinge la nostra società, il fatto che l'aspetto più importante nella vita sia quello di primeggiare sugli altri (a scuola, nel mondo del lavoro, ecc..) e, magari, goderne sadicamente, una volta dopo esserci riusciti. Ambientato tra Vienna e Salisburgo, ma girato a Praga, il film di Forman non è rimasto esente da critiche. La trama prende spunto dalla (falsa) confessione di Antonio Salieri, compositore contemporaneo a Mozart, il quale rivela a un incredulo sacerdote come la sua vita sia stata distrutta ma, allo stesso tempo, 'salvata' dall'incontro con il prodigioso Amadeus. Un uomo pieno di stranezze e difetti, a cui era stato assegnato il dono di trasmettere la Parola di Dio tramite la Musica. E' grazie a lui che Salieri capì quanto fosse importante lasciare un segno nella Storia, vedendo la Musica come un'Arte che eleva lo spirito, non come un mestiere meccanico. I musicologi più accaniti hanno eccepito sulla fedeltà storica, specialmente sulle libertà prese per la genesi del Requiem, essendo un Mozart visto dal punto di vista di Salieri. Ma in fondo è una critica un po' fine a se stessa dato che il Cinema, nel momento in cui viene creato, mette sempre in scena il punto di vista soggettivo di chi lo realizza. Il genio di Mozart, insomma, è come un urgano: arriva inaspettato e sconvolge le vite che incontra nel suo percorso. Una volta sparito, però, lascia dietro di sè un meraviglioso arcobaleno per farci capire quanto sia straordinaria la vita.

Alvise Wollner

giovedì 19 aprile 2012

Bel Ami - Storia Di Un Seduttore (voto 6)

Robert Pattinson mi è molto simpatico ed è il motivo che mi ha spinto ad andare a vedere una delle tante (e nessuna indimenticabile) delle versioni cinematografiche del romanzo di Maupassant 'Bel Ami'. Non dico che sia bravo, o almeno non lo è ancora. D'altronde, all'inizio delle loro carriere, pareva non lo fossero nemmeno Leonardo Di Caprio e Brad Pitt. E' dotato però di quel physique du role giusto, che lo porta a essere uno degli attori più ambiti dalle illuminanti teenager del nuovo secolo e, nello stesso tempo, a diventare potenzialmente un'icona del cinema hollywoodiano. Io su di lui ci scommetto, a partire dal prossimo lavoro cronenberghiano che lo vedrà protagonista, 'Cosmopolis', quasi certamente in concorso all'imminente Festival di Cannes. Nel film di Donnellan e Ormerod, interpreta Georges Duroy, emblema dell'opportunismo e dell'arrivismo. La sua scalata sociale da ex soldato squattrinato a giornalista, frequentante dell'alta società e dei salotti buoni, non è dovuta al suo talento da scrittore, quanto piuttosto alle sue conoscenze ma, soprattutto, alla complicità di alcune donne che vengono sedotte dal suo fascino e dalla sua prestanza. Una sorta di "velino" di fine ottocento, un precursore del tronismo, un Fabrizio Corona apparentemente più elegante ma altrettanto furbo e machiavellico. Il grande pregio di 'Bel Ami' è quello di riportare in auge un capolavoro letterario incredibilmente lungimirante e attuale, destinato probabilmente a rimanere tale. La versione che viene data dai due registi è il classico compitino. Non c'è alcun guizzo registico autoriale, sembra di assistere quasi a un lavoro per la televisione, data la prevedibilità e la poca originalità di ogni sequenza. Va detto, però, che il lavoro di costumi e fotografia è, invece, di ottima fattura, così come il sapiente utilizzo della colonna sonora. Per quanto riguarda il cast femminile, sembra essere la meno dotata Christina Ricci quella a crederci di più e, difatti, i passaggi più intriganti e coinvolgenti sono proprio i duetti tra la morettina e il pennellone Pattinson. La Thurman e la Scott Thomas, invece, paiono essere presenti soltanto per timbrare il cartellino e per portare a casa la pagnotta. Peccato, perchè due attrici di tale nome dovrebbero sempre dare il massimo. Questo 'Bel Ami' è, comunque, un'operazione che non mi sento di bocciare. La presenza di Pattinson porterà certamente molte ragazzine che leggono i romanzi di 'Twilight' o, peggio ancora, di Federico Moccia al cinema e, magari, ad interessarsi a una letteratura di maggiore qualità. L'intreccio narrativo, poi, è talmente intelligente e arguto che non viene intaccato nemmeno da una messinscena elementare. Una visione, dunque, abbastanza godibile, che non insulta l'intelligenza dello spettatore, e che lo invita a riflettere all'incredibile e spaventosa contemporaneità dei temi affrontati da Maupassant, esattamente 127 anni orsono.

Emiliano Dal Toso


martedì 17 aprile 2012

Music And Life: Control

I film sulle band musicali e sugli artisti sono spesso molto, quasi sempre troppo, celebrativi; eccessi di droga, eccessi di donne, eccesso di rock'n'roll e poi, misteriosamente, un'innata genialità che porta il protagonista (quasi per predestinazione) a entrare nella storia. La bellezza di questo film sta innanzitutto nel non cadere in questo stereotipo dell'artista dannato che brucia se stesso vivendo per sempre nella musica.Certo, Ian Curtis - cantante dei Joy Division - si è sposato troppo presto, ha avuto un figlio non programmato e si è suicidato a ventitre anni, ma era un ragazzo normale a cui piacevano le donne, le droghe e la musica, proprio come a tutti noi. Un giovane cupo, silenzioso, introverso all'estremo, che ha "solo" il merito di aver tradotto la sofferenza in musica.  La pellicola è quasi un film d'autore: il bianco e nero spezza ogni euforia e misura il film tenendolo sotto l'asticella dell'entusiamo, proprio nel limbo in cui era intrappolato Curtis e, più in generale, come il clima e la routine dell'operaia Manchester anni '70. Numerosi i silenzi, mentre i dialoghi sono pochi e, spesso, anche unilaterali come quello tra i due sposini Curtis, quando la povera Deborah (bene Samantha Morton) capisce che Ian potrebbe avere un interesse per una certa Annik. Parlano molto, invece, le canzoni; testi originali dei Joy Division (bravissimo Sam Riley, che non canta in playback), ma anche Sex Pistols, Lou Reed e il buon David Bowie – del resto il post rock di Curtis e soci nasce proprio dalla fusione di questi tre. Nella narrazione (che è ispirata dal libro di Deborah Curtis Touching from a distance), tutto si complica con l'avvento dell'epilessia, che deprime ulteriormente Ian e ne fa crescere la tensione nei rapporti, rendendo sempre meno sopportabile la vita di Curtis. Il film, tuttavia, continua tale e quale, perché l'epilessia è solo un elemento aggiunto alla sofferenza già presente nel cantante: la malattia la rende irreparabile, ma non ne aumenta (né diminuisce) l'intensità. Pare che ai tempi il regista Anton Corbijn. oltre che fotografo, fosse un fan dei Joy Division e per questo avrebbe scelto di girare il suo primo film su Ian Curtis. Sicuramente la comunicatività della band rimane superiore a quella di Corbijn – nel suo film sono infatti indispensabili le musiche dei suddetti – ma resta comunque un buon film, che aiuta a contestualizzare e, forse, ad apprezzare ulteriormente un piccolo gruppo di musicisti che, pur con soli tre album, ha dato tanto.

Giancarlo Mazzetti


lunedì 16 aprile 2012

Diaz (voto 8) IL FILM DEL MESE

Avevo quattordici anni quando accaddero i fatti del G8 di Genova. All’epoca, ero un neo-adolescente sbarbato, ancora impreparato ad affrontare temi politici in una discussione ma abbastanza maturo per interessarmene. Ricordo che osservavo con simpatia quei ragazzi un po’ più grandi di me che si definivano “No Global”, come loro ascoltavo Manu Chao e come loro condividevo quella presa di posizione un po’ confusa e genuina contro il sistema della globalizzazione e contro i suoi pochi burattinai, che si erano radunati a Genova per un weekend su uno yacht mentre milioni di persone si trovavano per le strade del capoluogo ligure, per manifestare. Guardando alla televisione quello che accadeva a Genova in quei giorni, ho pensato fra me e me che non sarei mai voluto essere lì in quel momento e ho pensato che ero molto fortunato ad avere ancora solo quattordici anni e a essere al mare con la nonna che mi preparava la cena. Per chi scrive, i fatti del G8 di Genova sono stati un punto di non ritorno per la generazione degli anni zero, per la fine delle ideologie, per quell’allontanamento dalla politica di tutti quei miei coetanei (incluso il sottoscritto) disillusi e disinteressati. Perchè c’è solo un punto di vista per quello che accadde a Genova in quei giorni. Ed è esattamente il punto di vista che assume il regista Daniele Vicari nel suo quarto, devastante film ‘Diaz’. Botte, schiaffoni, manganellate. ‘Diaz’ è la testimonianza di una guerra a senso unico, ad armi impari, nella quale c’è un predatore e c’è una preda. La polizia ha fatto irruzione nella Diaz e ha massacrato di botte chiunque fosse all’interno della scuola. Punto, non c’è molto altro su cui riflettere. Vicari è abilissimo nell’utilizzo dell’espediente fiction per parlare di individui singoli, di persone che fanno parte di una massa indistinta da picchiare e umiliare. Il cinema di finzione ha dalla sua la possibilità di far identificare lo spettatore nei personaggi, a differenza del linguaggio documentaristico, e per ciò di coinvolgerlo emotivamente in prima persona. Questo è ciò che differenzia ‘Diaz’ da tutti gli altri documentari sui fatti di Genova. La narrazione frammentaria e disomogenea è, appunto, finalizzata a comprendere il complessivo significato bellico che ha caratterizzato tutto ciò che ha riguardato Genova in quei giorni, dagli scontri per le strade ai massacri nelle scuole, fino all’epilogo delle espulsioni degli stranieri dall’Italia. ‘Diaz’ è, soprattutto, un film violento. E non ha intrecci narrativi da seguire. Perchè la violenza, di per sè, non va compresa, non va giustificata, non va motivata. La scelta di Vicari, coraggiosa, è semplicemente quella di riprendere, con il mezzo artistico della macchina da presa, l’evento della violenza. ‘Diaz’ non può essere tacciato di retorica nè di moralismo, è un lavoro politico che si distanzia anni luce dalle chiacchiere e dalla facile denuncia. Non è un film che si fa portatore di una teoria, nè di una tesi. E’ la ricostruzione di un agghiacciante evento storico, che sconvolge e ammutolisce. E’ il cinema italiano che prende di petto la Storia di questo Paese e la racconta. Ad ognuno, le proprie conclusioni. Ed è questo il legame che lo unisce con ‘Romanzo di una strage’. Se Giordana ha la lucidità e la complessività narrativa di un Martin Scorsese, Vicari ha la furia terrena e cinecritica di un Oliver Stone. Lunga vita a questo cinema italiano.

Emiliano Dal Toso


venerdì 13 aprile 2012

Music And Life: La Vie En Rose

"Non, rien de rien
Non, je ne regrette rien
C'est payé, balayé, oublié
Je me fous du passé"

Con l’esibizione di questa canzone all’Olympia del '63, si chiude il biopic-melo di Olivier Dahan su Edith Piaf, una delle più grandi cantanti della musica francese. “Non Je Ne Regrette Rien” ci immerge profondamente nella persona, più che nell’artista, Edith Piaf (tradotto dal francese all’italiano, Piaf = passerotto). Ne emerge una donna tormentata e sfortunata, che ha sempre dovuto barcamenarsi tra falsi amici, alcol e morfina. Il film inizia facendoci vedere la prima tra le tante cadute della Piaf, avvenuta il 16 Febbraio del ’59 a New York. Subito dopo, grazie ad un flashback, si viene catapultati nel 1918 a Belleville, sobborgo poverissimo di Parigi, quando Edith era ancora bambina. In queste poche scene, dapprima scopriamo che la madre è una cantante di strada e poi che il presunto padre è un soldato. Già da questo inizio possiamo capire che la cantante de “La Vie En Rose” non ha vissuto una vera e propria infanzia, ma piuttosto una vita da “grandi”. Momento fondamentale è l'educazione avuta, intorno ai dieci anni, in un bordello gestito dalla nonna paterna. Dove non solo ha avuto una madre nella persona della prostituta Titine, ma ha provato anche per la prima volta, sulla sua pelle, cosa significano le parole sofferenza e malattia. Dopo questa tappa di grande dolore ma anche di crescita, viene prelevata dal padre, che, tornato dalla guerra, riprende il suo vecchio lavoro di saltimbanco e la porta con sé a lavorare in un circo. Affezionatasi al luogo e alle persone, per una sorte di disgrazia voluta dal cielo e a causa di un papà scontroso,  è costretta a far ritorno a Parigi, dove per la prima volta la gente si accorgerà della bellezza della sua voce. Successivamente, vengono mostrati i vent'anni di Edith pieni di alcol, frequentazioni sbagliate, la nascita di un figlio che morirà di meningite acuta, i primi successi e la conoscenza di un impresario, interpretato dal bravissimo Gerard Depardieu. Come già accaduto in passato, il destino malvagio bussa e si porta via l’impresario che l’aveva scoperta. Più o meno, il film continua su questa falsa riga tra flashback e flash-forward fino ad arrivare a metà pellicola a una delle scene più belle: la morte improvvisa del pugile da lei amato, apparsale in sogno. Da questo momento inizierà la lenta discesa negli inferi, fatta di morfina e di tanto alcol, fino alla morte a Grasse nell’ottobre del ’63. Quello che però vince sopra tutto e tutti, compresa la regia e la sceneggiatura, è la prova maestrale, sontuosa, magnifica, incredibile di Marion Cotillard che riesce non solo grazie al trucco, ma anche in veste canora ad assomigliare quasi alla perfezione ad Edith Piaf e a renderci in maniera stratosferica la fragilissima cantante.

Luca "Skywalker" Recordati





 





















mercoledì 11 aprile 2012

Hysteria (voto 7)

E' già uscito da un po' nelle sale, ricevendo buoni riscontri al botteghino e dividendo la critica, il film di Tanya Wexler 'Hysteria', del quale si è chiacchierato molto per il suo contenuto un po' smaliziato e provocante. "L'eccitante invenzione del vibratore" recita il sottotitolo e chissà in quanti sono andati al cinema con eccessiva curiosità, ma si sono trovati di fronte a tutt'altro film. Effettivamente, le premesse irriverenti e anticonformiste sono disattese, il tono è molto ironico, garbato, educato. Molto british. Non è poi così centrale il tema dell'invenzione del vibratore, ciò che interessa per davvero alla regista è il contrasto tra due visioni opposte del mondo, quella di una medicina approssimativa e borghese, che etichetta ogni donna sull'orlo di una crisi di nervi come "isterica" e che la considera malata, e quella di "un altro mondo è possibile", per la quale gli unici problemi reali sono quelli di procurarsi un pezzetto di pane e non invece le "sbroccate", legittime per qualsiasi donna di questo mondo. A rappresentare quest'ultimo ideale è Maggie Gyllenhaal, per la quale ho da sempre un debole, e che considero un attrice di rara bravura. Maggie incarna nuovamente uno di quei suoi personggi irresistibilmente femminili, combattivi, cazzuti. 'Secretary' è il film cult che l'ha lanciata ma il lavoro per la quale l'ho maggiormente apprezzata è lo strepitoso 'Vero come la finzione', una delle migliori commedie degli anni zero, nella quale interpretava una panettiera anarchica in grado di far perdere la testa all'esattore delle tasse Will Ferrell (film davvero splendido, recuperatelo per forza). Con 'Hysteria' prosegue il suo percorso di ruoli schierati, eccezionali modelli di donne da prendere come esempio. Anche nella vita, Maggie è un'artista impegnata, che si è battuta in prima linea contro la guerra in Iraq e che sostiene la campagna American Civil Liberties Union e l'organizzazione Witness, le quali denunciano le violazioni dei diritti umani. Maggie è un esempio più unico che raro di attrice bella, bravissima, coerente, indipendente. Come era successo un po' di tempo fa con 'Amici di letto', mi sto rendendo conto che sto divagando un po' troppo dalla valutazione del film, per parlare invece della sua protagonista. Ma tant'è, 'Hysteria' è una visione tutto sommato piacevole, senza troppe pretese, che si caratterizza essenzialmente per le sue battute tipiche da humour inglese. E' evidente che se le aspettative erano quelle di assistere a un umorismo malizioso e politicamente scorretto, il risultato finale delude. Se lo si prende, invece, per un prodotto abbastanza intelligente, simpatico ed educato, allegandovi una storia d'amore un po' più originale del solito, allora i cento minuti del film passano piuttosto volentieri. Con la consapevolezza che prima di prenotare una visita medica, potrebbe essere più conveniente fare una capatina in un sexy shop.

Emiliano Dal Toso






venerdì 6 aprile 2012

17 Ragazze (voto 4)

Probabilmente sono io a essere un insensibile ma questo film non l'ho proprio capito. Credo che molti degli elogi che sono stati fatti a '17 ragazze' siano dovuti all'allucinante divieto ai minori di 14 anni (poi tolto) che è stato dato dalla "commissione censura" ministeriale. Paradossalmente, è stato un discreto modo per fare pubblicità al film, nei limiti dovuti. Ad ogni modo, le cose vanno pressochè così. In un liceo di Lorient, una ragazza di 16 anni annuncia alle amiche che è rimasta incinta. Attorno al tavolo di un fast food, una di loro propone alle altre: "Ehi, ma perchè non lo facciamo anche noi?". E le altre: "Massì, che grande idea", tranne una che timidamente sostiene che, forse, sia una "cavolata". Non mi sembra che ci sia qualcosa di politico in una bischerata del genere. Semplicemente, le fanciulle si annoiavano. Bene, a questo punto, tolti i possibili sottotesti socio-politici che si dimostrano essere inesistenti, sulla carta '17 ragazze' delle sorelle Coulin poteva essere un ottimo racconto sull'età acerba, un bel romanzo di incoscienza e di turbe giovanili. Purtroppo, si annoiavano le ragazze e si annoia anche il pubblico. Chi mi conosce, sa che ho un debole per i romanzi di formazione e che adoro i film sugli adolescenti. "Il saggio non è che un fanciullo che si duole di essere cresciuto." Questo, però, è forse il più piatto e didascalico che abbia mai visto. Le protagoniste sembrano essere delle fredde calcolatrici che elaborano gravidanze e non c'è la minima traccia di introspezione psicologica. E poi, l'intreccio narrativo non è credibile. Possibile che tutte quante le ragazze rimangano incinte al primo colpo dopo una sveltina durante una festa, tranne una? Ma dai. Eppure, pare che questa sia una storia vera. Ciò non giustifica che bisognava per forza farne un film. Nella recensione di 'Quasi amici' ho fatto gli elogi al cinema francese di oggi ma mi riferivo ad autori "eccezionali" come Leconte, Audiard, Jeunet, Hazanavicius. In Italia, di "eccezioni" ne abbiamo meno. Di "17 ragazze", invece, ne abbiamo fin troppe.

Emiliano Dal Toso

mercoledì 4 aprile 2012

Music And Life: Walk The Line

What have I become, my sweetest friend
Everyone I know goes away in the end
And you could have it all my empire of dirt
I will let you down, I will make you hurt


'Walk the line' è un film sui demoni. Dei quali non riusciamo mai a liberarci. E' un film sull'amore, che forse può salvarci la vita. Johnny Cash ama June Carter e la insegue per una vita intera. Nel frattempo, si sposa con una donna che lo malsopporta, si abbandona a una dipendenza tossica dalla quale uscirà soltanto una volta che l'amore della sua vita lo avrà preso con la forza e lo avrà trascinato via dalle fiamme. Anche June fa parte dei demoni, delle ossessioni di Johnny Cash. Perchè l'amore quando non è corrisposto, quando brucia l'anima, è un diavolo che ti rende un peso morto. La musica fa da sfondo nella vita di Johnny Cash, è praticamente il suo solo e unico modo autentico, sincero per esprimersi. Ma non basterebbe a impedirgli di autodistruggersi. Come tutti coloro che hanno intrapreso la strada del rock'n'roll nel verso sbagliato, come tutti quelli che, è più forte di loro, hanno un dolore più forte di tutto quanto che è devastante. Se Johnny è sopravvissuto a un decennio di tribolazioni, depressione e anfetamine lo deve soltanto a June Carter, la donna che amava e che ha amato sempre. C'è il country, c'è il successo, ci sono i concerti, e poi ci siamo noi, dai quali non riusciamo a fuggire. La traduzione di 'Walk the line' è riga dritto. Quello che Johnny Cash per quasi una vita intera non è riuscito a fare, malgrado le buone intenzioni, malgrado il bisogno di redenzione. Non tutti noi abbiamo un miracolo che si chiama June Carter. Cash è stato un miracolato. Se non ci fosse stata lei che lo sollevasse di forza da ciò che è più pesante del cielo. 'Walk the line' è uno di quei film di cui personalmente me ne frego di dare un giudizio critico, oggettivo. E' un film che amo e basta perchè parla di Johnny Cash. Per me, questo è assolutamente un motivo valido per considerarlo uno dei miei capolavori preferiti. Non ho aggettivi sufficientemente adatti per definire l'interpretazione di Joaquin Phoenix, talmente è mimetico, talmente Joaquin e Johnny siano la stessa persona, talmente rappresentino l'espressione dello stesso identico  maledivivere. Reese Witherspoon è celeste, una Madonna, una Vergine. Santa subito. Se non inseguiamo la nostra June Carter, d'altronde dove cazzo andiamo. Ma dove cazzo vogliamo andare. Tanto vale non rigare dritto per niente. Quando l'amore brucia l'anima è il titolo italiano tradotto e, tutto sommato, non mi dispiace. Probabilmente, i distributori hanno pensato che avesse un maggiore appeal commerciale appioppare questo titolo apparentemente romantico-sdolcinato e, invece, al termine di 'Walk the line', ti rendi conto che i graffi e le ustioni dell'anima non possono essere eliminati, tutt'al più disinfettati e, di conseguenza, bruciano. Johnny Cash è morto a 71 anni il 12 settembre 2003, cinque mesi dopo che morì June Carter, la sua seconda moglie. In quel periodo, tra i video musicali più trasmessi, c'era una cover di Cash di un pezzo dei Nine Inch Nails. L'inizio della canzone fa I hurt myself today, esattamente il significato opposto di I walk the line.

Emiliano Dal Toso

martedì 3 aprile 2012

Quasi Amici (voto 6)

Inizialmente, non avevo troppa voglia di andare a vedere questo film. Ho deciso di andare dopo che è rimasto inaspettatamente tra i primi posti della classifica degli incassi per diverse settimane, ed è ancora lì. Bene, mettiamo subito le cose in chiaro. Benchè sia un film francese, 'Quasi amici' non è un film d'autore. Tutt'altro, è cinema medio, commerciale, secondo i canoni francesi, che sono qualitativamente una spanna sopra i nostri. In Francia questo film ha incassato più di quanto faccia da noi una commedia di Brizzi. Questo è sintomatico della differenza di livello cinematografico tra i due paesi, oggi. Ci sono, dunque, due punti di vista diversi per parlare del film di Nakache e Toledano. Il primo è che si tratta di un prodotto meravigliosamente popolare. Prendiamo due protagonisti, un miliardario paraplegico e un franco-senegalese ai margini, disoccupato. Mettiamoli insieme e facciamo un film sul loro rapporto, rimarcandone le differenze culturali ma arrivando alla conclusione che la bontà, la solidarietà e l'amicizia trionfano. Tutto molto bello, caloroso. Il cinema serve anche a questo, a far sognare e a far commuovere, in maniera molto diretta, semplice, universale. 'Quasi amici' riesce a fare tutto questo. Però esiste anche un altro tipo di cinema, appunto, quello degli autori, quello che si contraddistingue per i valori artistici. E 'Quasi amici' non ha praticamente niente di questa categoria. I due personaggi, interpretati dai bravi e simpatici Francois Cluzet e Omar Sy (imparagonabili, però, al Dujardin di 'The Artist', che ha vinto l'Oscar ma che è stato sconfitto nei Cesar proprio da Sy), hanno una caratterizzazione molto favolistica e, spiace dirlo, stereotipata. Il cinema francese ama questo tipo di storie incentrate sull'amicizia tra due personaggi agli antipodi: penso a 'L'uomo del treno' e a 'Il mio miglior amico' di Patrice Leconte o a 'Il mio amico giardiniere' con Daniel Auteuil. Onestamente, si tratta di un altro approccio, più maturo, nel quale i personaggi hanno più sfumature. E l'ottimismo un po' compiaciuto, buonista di 'Quasi amici' non è nemmeno paragonabile allo straordinario Jean Pierre-Jeunet de 'Il favoloso mondo di Amelie'. Quest'ultimo, infatti, era un capolavoro teorico sull'ottimismo, mentre Nakache e Toledano marciano in maniera utopistica su una storia che fa piacere ascoltare e alla quale fa piacere credere. Restano, comunque, degli aspetti positivi. Il film è godibilissimo e parecchie sequenze fanno veramente ridere. E' praticamente impossibile non uscire dalla sala con il buonumore. Infine, hanno un ruolo fondamentale le magnifiche musiche di Ludovico Einaudi, trascinanti e commoventi. Senza di loro, 'Quasi amici' avrebbe una costituzione scheletrica. Contemporaneamente, è uscito nelle sale 'Cosa piove dal cielo?' (recensito su www.occhiomeccanico.com), film argentino vincitore del Festival di Roma, che parla praticamente degli stessi temi. Meno furbetto, più corposo e surreale.

Emiliano Dal Toso

domenica 1 aprile 2012

Music And Life: Ray

L'approfondimento del mese di aprile è dedicato al rapporto tra cinema, musica e vite. Le nostre firme ci racconteranno di uomini e donne e delle loro ossessioni, delle loro storie al limite tra baratro e rivincita, tra dannazione e redenzione.
Ray Charles mi piace, la sua musica è fantastica, ma il film di Taylor Hakford (quello de L'avvocato del diavolo e Ufficiale e gentiluomo) è piuttosto modesto. Non c'è nulla di registicamente notevole, nulla di autoriale. Forse però è giusto così, in questi casi un regista deve saper sparire di fronte alla grandezza del personaggio che sta analizzando. Analizzando e non celebrando, perchè questo film è una biografia, non un'agiografia. Ray non era un santo, ci dava dentro con l'eroina e si trombava greggi di donne, purchè le fanciulle superassero la prova della stretta del polso, visto che questo era l'unico modo per un cieco di immaginare l'avvenenza femminile. Polso magro, buono, polso grasso, no buono. Se il regista si inabissa, emerge il protagonista Jamie Foxx, qui davvero ai livelli dell'interpretazione notevolissima di Collateral, nonostante il suo improbabile nome da pornodivo. Due ore e passa di film che potrebbero annoiare chi non ama blues e soul. Molta musica, in effetti. A me quel sound piace e quindi la pellicola non mi ha asciugato, ma nemmeno mi ha fatto strillare come un porco scannato. Sì, Ray è stato un fenomeno, ma io personalmente preferisco altri bluesman, tipo il meraviglioso John Lee Hooker (1917-2001), ex-operaio della Ford di Detroit, analfabeta, sempre in seconda linea ed arrivato al successo quello grosso solo in tarda età, alla fine degli anni Ottanta. Perchè poi, stringi stringi, il blues è la musica di quelli che non ce l'hanno fatta. Però è anche la musica del riscatto, della lotta, dell'amore, del sesso, della rabbia, della vita. Tutto è diretto, semplice. Difficile sentire JLH suonare con un'orchestra al completo, come è capitato a Ray in certi momenti. Se devi dire alla tua donna che la ami, glielo dici. Se devi dire che hai le pezze al culo, nei tuoi testi parli delle cipolle che butti giù ogni sera, la tua unica cena. Se vedi per strada due bei chiapponi neri che ti eccitano, ci fai una canzone (I get so excited, see you walking down the street). A volte un solo accordo, martellante, ripetitivo, ossessivo. E sopra ci ballano le parole, spire viscide di quella brutta puttana che è la vita, come direbbe Enzo Jannacci. Una volta ho sentito un bluesman, Bob Brozman, dire che anche un uomo che batte il pugno sul tavolo sta facendo blues. E funziona così per tutti noi, tutti i giorni, appunto, è la vita. C'è sempre qualcosa contro cui battere il pugno.

Ivan Brentari