Avevo quattordici anni quando accaddero i fatti del G8 di Genova. All’epoca, ero un neo-adolescente sbarbato, ancora impreparato ad affrontare temi politici in una discussione ma abbastanza maturo per interessarmene. Ricordo che osservavo con simpatia quei ragazzi un po’ più grandi di me che si definivano “No Global”, come loro ascoltavo Manu Chao e come loro condividevo quella presa di posizione un po’ confusa e genuina contro il sistema della globalizzazione e contro i suoi pochi burattinai, che si erano radunati a Genova per un weekend su uno yacht mentre milioni di persone si trovavano per le strade del capoluogo ligure, per manifestare. Guardando alla televisione quello che accadeva a Genova in quei giorni, ho pensato fra me e me che non sarei mai voluto essere lì in quel momento e ho pensato che ero molto fortunato ad avere ancora solo quattordici anni e a essere al mare con la nonna che mi preparava la cena. Per chi scrive, i fatti del G8 di Genova sono stati un punto di non ritorno per la generazione degli anni zero, per la fine delle ideologie, per quell’allontanamento dalla politica di tutti quei miei coetanei (incluso il sottoscritto) disillusi e disinteressati. Perchè c’è solo un punto di vista per quello che accadde a Genova in quei giorni. Ed è esattamente il punto di vista che assume il regista Daniele Vicari nel suo quarto, devastante film ‘Diaz’. Botte, schiaffoni, manganellate. ‘Diaz’ è la testimonianza di una guerra a senso unico, ad armi impari, nella quale c’è un predatore e c’è una preda. La polizia ha fatto irruzione nella Diaz e ha massacrato di botte chiunque fosse all’interno della scuola. Punto, non c’è molto altro su cui riflettere. Vicari è abilissimo nell’utilizzo dell’espediente fiction per parlare di individui singoli, di persone che fanno parte di una massa indistinta da picchiare e umiliare. Il cinema di finzione ha dalla sua la possibilità di far identificare lo spettatore nei personaggi, a differenza del linguaggio documentaristico, e per ciò di coinvolgerlo emotivamente in prima persona. Questo è ciò che differenzia ‘Diaz’ da tutti gli altri documentari sui fatti di Genova. La narrazione frammentaria e disomogenea è, appunto, finalizzata a comprendere il complessivo significato bellico che ha caratterizzato tutto ciò che ha riguardato Genova in quei giorni, dagli scontri per le strade ai massacri nelle scuole, fino all’epilogo delle espulsioni degli stranieri dall’Italia. ‘Diaz’ è, soprattutto, un film violento. E non ha intrecci narrativi da seguire. Perchè la violenza, di per sè, non va compresa, non va giustificata, non va motivata. La scelta di Vicari, coraggiosa, è semplicemente quella di riprendere, con il mezzo artistico della macchina da presa, l’evento della violenza. ‘Diaz’ non può essere tacciato di retorica nè di moralismo, è un lavoro politico che si distanzia anni luce dalle chiacchiere e dalla facile denuncia. Non è un film che si fa portatore di una teoria, nè di una tesi. E’ la ricostruzione di un agghiacciante evento storico, che sconvolge e ammutolisce. E’ il cinema italiano che prende di petto la Storia di questo Paese e la racconta. Ad ognuno, le proprie conclusioni. Ed è questo il legame che lo unisce con ‘Romanzo di una strage’. Se Giordana ha la lucidità e la complessività narrativa di un Martin Scorsese, Vicari ha la furia terrena e cinecritica di un Oliver Stone. Lunga vita a questo cinema italiano.
Emiliano Dal Toso
Emiliano Dal Toso
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