martedì 21 giugno 2016

Top Ten: Classifica Primo Semestre 2016

10 - The Neon Demon - Nicolas Winding Refn
Il manierismo di NWR trova finalmente una sua ragion d'essere: questa volta il modello di riferimento è il Dario Argento di Suspiria, il ponte ideale per ritrarre un universo della moda abitato da corpi vuoti che camminano. Una forma che s'identifica perfettamente con il suo contenuto: come Spring Breakers è un film sulla consistenza della superficie, come Maps To The Stars sulla correlazione tra morte ed establishment. Visivamente, un pugno nello stomaco.

9 - 1981: Indagine a New York - J.C. Chandor
Fino a che punto possono coesistere la rettitudine e un mondo sempre più orientato verso il mito dell'affermazione economica e la violenza? Un magnifico Oscar Isaac è il self-made man che non rinuncia al confronto e alla razionalità, e che ribadisce l'onestà come base fondamentale del proprio successo. Attorno a sé, le regole della sopraffazione, della competizione e del sangue hanno preso il sopravvento.

8 - Microbo & Gasolina - Michel Gondry
Michel Gondry continua a osservare la meccanica delle emozioni con una creatività che non appartiene a nessun altro cineasta del nuovo millennio. Questa volta, si sofferma su un dolente romanzo di formazione, un teen-road movie magico e semplice che evita ricatti emotivi e sentimentalismi. E, con ironia e affetto, definisce l'amicizia come un incontro tra solitudini e anticonformismi per affrontare gli ostacoli della crescita e del tempo.

7 - Mistress America - Noah Baumbach
Dopo Frances Ha e Giovani si diventa, la conferma del talento di Noah Baumbach di ritrarre personaggi femminili sfaccettati e contemporanei, che si affannano goffamente per essere al passo coi tempi e che faticano a rinunciare ai propri obiettivi. Le donne del regista newyorchese sono come le sorelle di Hannah di Woody Allen: romantiche e imperfette, confuse e felici, ma nell'epoca dei social network.

6 - Batman v Superman: Dawn of Justice - Zack Snyder
Lo onorano nell'unico modo che sanno fare: come soldato. L'assalto frontale della DC Comics alla leggerezza e alla solarità della Marvel, un kolossal capace di raccontare lo spirito del tempo attraverso un mondo cupo e soffocante. Due supereroi sull'orlo di una crisi di nervi, che si fanno guerra tra di loro, disorientati e impotenti di fronte al Male. Cadendo sul campo di battaglia, i nostri miti si trovano costretti a celebrare il funerale di Dio.

5 - Veloce come il vento - Matteo Rovere
Emozioni fuorigiri, personaggi iconici e indimenticabili, una grande storia famigliare tipicamente italiana ma raccontata con l'adrenalina del miglior cinema americano di genere e senza la retorica e il familismo nostrani. Matilda De Angelis è una vera e propria scoperta, Stefano Accorsi balza in testa nella classifica degli idoli assoluti: dopo il Leonardo Notte di 1992, il suo Loris detto "Ballerino" entra con prepotenza nell'immaginario collettivo.

4 - Tutti vogliono qualcosa - Richard Linklater
Un college movie apparentemente innocuo, godibile, divertente, più intelligente e meno nostalgico della media. Fino al finale, quando Linklater lascia i puntini di sospensione, non chiude, e fa cominciare un altro film, fuori campo, quello del risveglio dopo il sogno. E così, retroattivamente, ci si accorge della precisa capacità di un cineasta che sa raccontare i dettagli della crescita e incasellare i momenti di passaggio della vita con una sensibilità commovente. Frontiers are where you find them.

3 - Julieta - Pedro Almodovar
Dopo tre film anomali e poco riusciti, Pedro rispolvera il suo cinema di pura passione: non con un almodrama, ma con un drama seco. E, tranne qualche tema fin troppo risaputo (il sesso che lenisce il dolore), riflette sulle vite che abbandoniamo e su quelle a cui siamo costretti ad affidarci per ripartire. Un'opera sui cambiamenti, sui punto e a capo, spesso dovuti all'ineluttabilità del fato che paghiamo con il senso di colpa. Meravigliosa Adriana Ugarte. 

2 - The End of the Tour - James Ponsoldt
Folgorante gioco di specchi, stima reciproca e invidie tra lo scrittore David Foster Wallace e il giornalista David Lipsky. Riflessioni dolorose di un'anima fragile e geniale su successo, depressione e relazioni umane, delineando i contorni di un'America innevata di fast food, televisione e grandi magazzini. Il distacco tra noi stessi e gli altri, tra noi stessi e la realtà: sono solo parole, ma fanno male e tramortiscono.

1 - Steve Jobs - Danny Boyle
Terzo capitolo di Aaron Sorkin su uomini visionari e sulla contemporaneità, dopo The Social Network e Moneyball. Tre atti shakespeariani, cinici, senza cuore, travolgenti. Una canzone rap tradotta in immagini, parole mitragliate, vere e proprie rasoiate che attraversano uno dei personaggi più controversi e decisivi per quello che siamo oggi. La vita è sempre dietro le quinte: sul palcoscenico va in scena solo una versione dei fatti, quella più commerciabile e concorrenziale. 



Cannes e Dintorni 2016 - Parte Seconda: The Salesman, Neruda, Juste La Fin Du Monde

Non è stata una delle edizioni più esaltanti di Cannes e Dintorni quella di quest'anno. Troppi i grandi nomi assenti, presenti invece in Concorso: Olivier Assayas, Jim Jarmusch, Park Chan-wook, Jeff Nichols, solo per citare i più amati dal sottoscritto. Difficile, quindi, valutare le scelte della giuria presieduta da George Miller. Non ci hanno convinto certamente quanto la Palma d'oro né il Premio per la miglior sceneggiatura né quello per il miglior attore, assegnati entrambi a 'The Salesman' (voto 5) di Asghar Farhadi. La narrazione del regista iraniano di 'Una separazione' e 'Il passato' si è ormai standardizzata: Emad e Rana, una coppia di intellettuali di Teheran, sono costretti a trasferirsi in un appartamento precedentemente abitato da una prostituta, e un cliente di quest'ultima entra in casa e violenta la donna. Farhadi sottolinea insistentemente la formazione culturale dei due protagonisti: attori in procinto di mettere in scena 'Morte di un commesso viaggiatore', lui in particolare è anche un insegnante amatissimo dai suoi studenti, brillante e autorevole. Dopo il fattaccio, il film diventa un prevedibile viaggio negli inferi di Emad, che rivela un carattere inquisitorio, assalitore, vendicativo. Troppo forzato il parallelismo tra vita e teatro e, soprattutto, troppo ovvia la trasformazione di un personaggio costruito a tavolino, che appare soltanto un pretesto per riflettere su una cultura della violenza insita in ogni dimensione sociale. C'è da chiedersi, invece, come sia possibile che non fosse in Concorso ma "solo" nella Quinzaine des Réalisateurs 'Neruda' (voto 8) di Pablo Larrain. Un biopic anticonvenzionale, non un film su Pablo Neruda ma un'opera nerudiana nello spirito e nella poetica. L'impressione è di una pellicola enormemente ambiziosa, nello stile e nei contenuti: il regista cileno si lascia andare, a tratti, a un eccesso di manierismi e di barocchismi, compensati però da alcuni passaggi di puro cinema, capaci di flirtare con generi come il noir, il thriller politico e il western. Il film racconta di una caccia all'uomo: quella dell'ispettore Oscar Peluchonneau (interpretato da un magnetico Gael Garcia Bernal) nei confronti del poeta e senatore comunista. E la carta vincente risulta essere proprio l'assunzione del punto di vista di un uomo di stato, il suo flusso di coscienza dettato dal suo ruolo e dal desiderio di arrestare Neruda per conoscerlo. Suggestivo, discontinuo, onirico: un'allucinazione, un trip lisergico tra festini erotici e paesaggi metafisici. Delude, purtroppo, enormemente 'Juste La Fin Du Monde' (voto 4) di Xavier Dolan, incomprensibilmente premiato con il Grand Prix. Il ventisettenne regista canadese, dopo tanti bei film e un capolavoro emozionale come 'Mommy', adatta una piéce di Jean-Luc Lagarce e sprofonda clamorosamente in un kitsch fine a se stesso, inanellando una serie di scelte finte e artefatte: dagli asfissianti primi piani sui volti dei personaggi a una scelta musicale totalmente stonata e incongruente, questa volta per nulla funzionale (i Blink 182! Dragostea Din Tei!); dalla quantità fluviale di parole che si vomitano addosso i protagonisti a trovate registiche quasi imbarazzanti (il rossastro delle immagini nel finale per rimarcare la violenza emotiva a cui stiamo assistendo). Incredibilmente sprecato il cast di attori: Léa Seydoux, Marion Cotillard e Vincent Cassel sembrano le guest star di una narcisistica autoaffermazione di autorialità.

Emiliano Dal Toso



giovedì 16 giugno 2016

Cannes e Dintorni 2016 - Parte Prima: I, Daniel Blake, Bacalaureat, Sieranevada

Lunga vita a Cannes e dintorni, che ci permette di recuperare dopo poche settimane alcuni dei film presentati sulla Croisette, il nome del viale che costeggia il litorale della città della Costa Azzurra. Un'edizione caratterizzata da numerose polemiche, con buona parte della critica radical-chic inferocita per l'assegnazione dei premi da parte della Giuria presieduta dall'australiano George Miller. La Palma d'oro è andata a 'I, Daniel Blake' (voto 9) di Ken Loach: per molti, una decisione presa per non scontentare nessuno, un compromesso per dare risalto agli intenti nobili del film piuttosto che alla sua effettiva qualità. Beh, teniamocelo stretto il cinema del compagno Ken: il regista britannico è ancora l'unico cineasta in grado di coniugare l'impegno civile con una narrazione e un linguaggio popolari e universali. Il suo è un film che emoziona, commuove, indigna. Vibra. L'odissea di un uomo umile, con seri problemi di salute, che lotta contro la burocrazia statale per ottenere l'indennità di malattia o, perlomeno, il sussidio di disoccupazione è raccontata con un'energia e una lucidità che dovrebbero essere la colonna vertebrale di un'opera cinematografica: come spesso accade nel cinema di Loach, non mancano momenti più rilassanti e leggeri, ma risultano funzionali a coinvolgere e scuotere lo spettatore che altrimenti si troverebbe di fronte a un manifesto politico. E invece Ken utilizza la sfera privata per parlare delle contraddizioni della macchina pubblica, entrando nella gola e nel cuore di chi guarda. Per questo ho trovato davvero surreali le accuse di "film-comizio" proprio da parte di quei critici che fino a pochi anni fa esaltavano gli ingredienti di Loach: complimenti a Miller e agli altri giurati che se ne sono infischiati delle mode e hanno riconosciuto il valore di una pellicola bella, dolorosa, attuale. Uno dei due vincitori del premio per la miglior regia, 'Bacalaureat' (voto 7) di Cristian Mungiu, invece pecca un po' di coinvolgimento emotivo. L'autore rumeno riflette sulla forma mentis di corruzione e interessi personali che si è ormai appropriata non soltanto degli apparati statali ma anche dei comportamenti degli onesti cittadini. Nuovamente, l'obiettivo è raccontare un dramma famigliare per porre una lente di ingrandimento sulla Romania di oggi. Una Romania che, a dire il vero, non ci sembra tanto diversa dagli scandali dell'Italia, a cominciare da Mafia Capitale. Mungiu sembra indeciso tra due storie che fanno fatica a coniugarsi: quella di un padre disposto a tutto pur di garantire un futuro migliore in un altro Paese; e quella che denuncia un modus operandi che ha vinto e rappresenta ormai la normalità per ottenere servizi e assistenza. Il risultato è così un ibrido tra racconto morale e analisi sociale che non porta fino in fondo i suoi spunti di partenza. Meglio comunque Mungiu di 'Sieranevada' (voto 4) del connazionale Cristi Puiu. Tre ore lunghissime, interminabili, verbosissime di kammerspiel, in cui una famiglia allargata di Bucarest si ritrova per commemorare il patriarca da poco scomparso. Tre ore dove non accade praticamente nulla, al di fuori di molto poco interessanti dialoghi su politica interna e politica estera che si alternano a qualche scheletro nell'armadio, a qualche fantasma del passato e alle solite immancabili questioni di corna. La scelta suicida di Puiu è di adottare uno sguardo molto distaccato, evitando chissà perché di voler entrare in empatia con i personaggi. Lo spettatore si trova così costretto ad assistere a una pesantissima riunione di famiglia, dove non può neppure esprimere il suo dissenso o, almeno, inventarsi una scusa per alzarsi da tavola.

Emiliano Dal Toso