martedì 22 dicembre 2015

Il Pagellino: I film del Natale

Il ponte delle spie - Steven Spielberg 9: una dichiarazione d'amore al diritto e un inno alla diplomazia. Spielberg al suo meglio: attenti a non confondere retorica con le sfumature di un cinema morale, giusto, che ridefinisce il significato dell'espressione "uomini tutti d'un pezzo". E due personaggi memorabili: l'avvocato semplice, ordinario Tom Hanks e la spia russa sincera, orgogliosa Mark Rylance.

Star Wars - Il risveglio della Forza 8: J.J. Abrams omaggia il Mito e lo rinnova, bilanciando perfettamente adrenalina e nostalgia canaglia. Il film che può accontentare ogni target di pubblico: dai fan di vecchia data che negano l'esistenza della seconda trilogia fino al bambino che si appassiona alla saga grazie ai LEGO comprati dal papà. Furbo ma poderoso.

Quel fantastico peggior anno della mia vita - Alfonso Gomez-Rejon 8: un equilibrio quasi miracoloso tra ironia e tragedia, e tante strizzatine d'occhio al cinema indie più amato degli anni Duemila (Wes Anderson, Michel Gondry). Si ride molto, a volte di gusto, altre volte con un senso di infinita tristezza destinato a prendere il sopravvento.

La isla minima - Alberto Rodriguez 7: l'intenzione di utilizzare il noir per parlare di uno stato d'animo diffuso appare evidente: lo schema narrativo è corretto e archetipico, il comparto tecnico robusto e professionale. Dagli ambienti cupi e desolati fino ad atmosfere tra il marcio e l'occulto, sembra di assistere a un riadattamento di True Detective, ma non ci sono Harrelson e McConaughey.

Mon Roi - Maiwenn Le Besco 7: può un solo attore salvare un film di per sé piuttosto banalotto e un po' fighetto? Decisamente sì se si chiama Vincent Cassel. L'ex marito di Monica Bellucci è un vero spettacolo nei panni di un adorabile figlio di puttana, dongiovanni indefesso, menzognere e cialtrone di prima categoria. Eppure, riesci sempre a volergli bene.

Francofonia - Aleksandr Sokurov 7: cinematograficamente, è il solito Sokurov un po' naif che onestamente non amo. Ma, questa volta, il discorso che sta dietro alla confezione da festival è mai come ora necessario: l'importanza di ribadire un'identità europea, attraverso l'arte e i volti in cui ci rispecchiamo e ci riconosciamo. E il Louvre è la nostra arca di Noè.

Mustang - Deniz Gamze Erguven 6: per quanto nobile, l'intento dell'esordiente regista turca è riuscito a metà: il ritratto di cinque adolescenti alla ricerca della felicità, e di diritti, non è privo di passaggi ruffiani e prevedibili. E così sembra di assistere a un remake de Il giardino delle vergini suicide più serio e impegnato, ma senza i guizzi pop-rock di Sofia Coppola.

Heart of the Sea - Ron Howard 5: si può dire cinema vecchio? Anacronistico? Forse no, dato che l'assenza di coinvolgimento emotivo è il maggior difetto di un film che non ingrana mai e che cerca di collegarsi macchinosamente ai soprusi ambientali di oggi. E, a differenza di Michael Mann in Blackhat, Ron Howard non compie il miracolo di rendere funzionale l'inespressività di Chris Hemsworth.

Perfect Day - Fernando Leòn de Aranoa 5: il tentativo di raccontare l'assurdità della guerra con un taglio non privo di battute ironiche e di dilemmi sentimentali rimane sospeso a metà senza incidere, come se il regista non fosse mai convinto del tutto. Resta così un po' incerto quale sia il vero senso dell'operazione: non dobbiamo disperarci troppo ma neanche ridere eccessivamente. E quindi?

Le ricette della signora Toku - Naomi Kawase 5: una robina-ina-ina, anche piacevole ma assolutamente trascurabile. Ci chiediamo se sia questo il cinema che debba essere visto anche da noi. E se pensiamo che per vedere Love di Gaspar Noè potremmo essere costretti a compiere atti illegali, la carineria diventa irrito, prurito, insensibilità nei confronti di una storiella per appassionati di cucina.

Irrational Man - Woody Allen 4: "ehi Woody, dai, veloce che dobbiamo andare!" Sembra che qualcuno dai piani alti abbia messo il fiato sul collo di Allen, sia in fase di sceneggiatura che di regia, talmente questo film è svogliato e raffazzonato. Ed è un peccato ancora più grande se i protagonisti sono Joaquin Phoenix e un'incantevole Emma Stone. Il bigino nichilista del Woody-pensiero in versione depressa.

Il professor Cenerentolo - Leonardo Pieraccioni 0: ho sempre pensato che Pieraccioni sia molto peggio dei cinepanettoni. I cinepanettoni sono prodotti intellettualmente onesti, sinceramente beceri, consapevoli di avere un target di pubblico ben definito. Pieraccioni, invece, è becero e ipocrita, e ormai non riesce a far ridere più neppure involontariamente. Questo film è un ulteriore conferma.










martedì 8 dicembre 2015

I Film del 2015 degli Amici Lettori

Dominio assoluto di Paolo Sorrentino con Youth - La Giovinezza. Non era mai successo nella storia del blog che un film fosse così tanto votato; ed è la prima volta che il vincitore non viene decretato al fotofinish. Il film con Michael Caine ha avuto 11 segnalazioni ed è seguito dalla sorpresa Whiplash che ne ha avute 6. Si posiziona al terzo posto l'amato Pixar Inside Out. Delusione per Matteo Garrone: Il racconto dei racconti ha avuto soltanto un voto.

Alice Grisa
Birdman
Youth
The Lobster

Alvise Wollner
The Tribe
The Lobster
Youth

Angelica Gallo
Non essere cattivo
Birdman
Mustang

Arianna Montanari
Inside Out
Il racconto dei racconti
The Tribe

Davide J. Giordano
Mad Max: Fury Road
The Visit
Sicario

Fabio Beninati
Vizio di forma
Youth
Non essere cattivo

Francesca Peralti Macalli
La scomparsa di Eleanor Rigby
Youth
Inside Out

Giancarlo Mazzetti
Mia madre
Mon Roi
Giovani si diventa

Giovanni Dal Toso
Youth
Black Mass
Alaska

Graziano Biglia
Mia madre
The Lobster
Whiplash

Juxhin Myzyri
Whiplash
Bota Café
Calvario

Linda Grazia Pola
Youth
Forza maggiore
Inside Out

Lorenzo Gramatica
Mad Max: Fury Road
Ex Machina
Vizio di forma

Luca Ottocento
Vizio di forma
Mustang
Foxcatcher

Luca Recordati
Birdman
Whiplash
The Lobster

Marco Dal Toso
Youth
E' arrivata mia figlia
La felicità è un sistema complesso

Marco Solè
Whiplash
Sicario
Foxcatcher

Massimiliano Gavinelli
White God
Youth
Whiplash

Mattia De Gasperis
Youth
Inside Out
James White

Mattia Palma
Mia madre
Forza maggiore
Hungry Hearts

Melis Rossi
Youth
Inside Out
La famiglia Belier

Paolo Quaglia
Francofonia
American Sniper
The Green Inferno

Riccardo Tanco
Blackhat
Foxcatcher
45 anni

Roberto Ciliberto
E' arrivata mia figlia
Tutto può accadere a Broadway
Forza maggiore

Simone Carella
Whiplash
Youth
45 anni

11 Youth 
6 Whiplash
5 Inside Out
4 The Lobster
3 Birdman, Forza maggiore, Foxcatcher, Mia madre, Vizio di forma
2 45 anni, E' arrivata mia figlia, Mad Max: Fury Road, Mustang, Non essere cattivo, Sicario, The Tribe
1 La felicità è un sistema complesso, La famiglia Belier, Black Mass, Alaska, White God, Bota Café, Calvario, Ex Machina, James White, Hungry Hearts, Tutto può accadere a Broadway, The Visit, Il racconto dei racconti, Francofonia, American Sniper, The Green Inferno, Blackhat, Mon Roi, Giovani si diventa, La scomparsa di Eleanor Rigby 

I FILM DELL'ANNO DEGLI AMICI LETTORI
2011 - Melancholia - Lars von Trier
2012 - Moonrise Kingdom - Wes Anderson
2013 - Django Unchained - Quentin Tarantino
2014 - The Wolf of Wall Street - Martin Scorsese
2015 - Youth - Paolo Sorrentino



sabato 5 dicembre 2015

Superclassifica: I Migliori Film del 2015

20 - Quel fantastico peggior anno della mia vita - Alfonso Gomez-Rejon
Un equilibrio quasi miracoloso tra ironia e tragedia, e tante strizzatine d'occhio al cinema indie più amato degli anni Duemila (Wes Anderson, Michel Gondry). Ma è un film che si fa voler bene: si ride molto, a volte di gusto, altre volte con un senso di infinita tristezza destinata a prendere il sopravvento.

19 - Babadook - Jennifer Kent
Horror profondo e viscerale, che si confronta con le paure e le ossessioni dell'infanzia, nascoste nella cameretta e nel buco nero emotivo di ogni bambino. E, in fondo, non sono altro che le stesse di una mamma vedova dalla mente devastata: il mostro convive con la nostra quotidianità, e abita a casa nostra. All'esordio, la regista firma un nuovo must di un genere finalmente in ripresa.

18 - La felicità è un sistema complesso - Gianni Zanasi
Esilarante, anarchico, agrodolce. Storie di individui che stanno consapevolmente per affondare ma capaci di ritrovare il piacere di giocare, di perdere tempo con la bellezza delle piccole cose. E se c'è un filo conduttore quello è il rapporto tra padri e figli: seguendo le orme dei genitori, si va a fondo. Abbiamo il diritto di poter essere sempre alla ricerca del nostro posto nel mondo.

17 - Un mondo fragile - César Augusto Acevedo
Ritratto intimo di una famiglia contadina, asciutto e mai ricattatorio, privo di consolazioni. Un'America latina lontana da tentazioni cartolinesche in un lavoro esteticamente perfetto, che getta una luce dolorosa su un mondo ai margini della sopravvivenza. Il rigore formale è ripagato da passaggi di grande emozione nelle dinamiche tra esseri umani.

16 - Giovani si diventa - Noah Baumbach
Incontro e scontro generazionale: il quarantenne che si serve del processo tecnologico per paura di non essere al passo coi tempi contro il venticinquenne che ribadisce la propria mondanità vintage, modaiola e pseudo-alternativa. Un'impietosa descrizione degli hipster di oggi: abituati a costruire la forma prima del contenuto, schiavi delle pose e del trend estetico del momento.

15 - Inside Out - Pete Docter, Ronaldo Del Carmen
Si rimane meravigliati di fronte all'architettura mentale congegnata dall'abile creatività della Pixar. Si ride, si piange, in un tripudio di emozioni destinato a rappresentare un nuovo punto di svolta tecnica e, soprattutto, intellettuale del cinema d'animazione. E con il sacrificio del bellissimo personaggio di Bing Bong siamo tutti costretti a fare i conti, prima o poi.

14 - Sangue del mio sangue - Marco Bellocchio
Marco Bellocchio al suo meglio: famiglia, religione, borgo antico, uno sguardo tra l'incredulo e l'onirico. Impagabile Roberto Herlitzka, emblema del vampiro dei giorni nostri, ma in decadenza; lucido e graffiante il duetto con Toni Bertorelli in uno studio dentistico, forse la scena dell'anno. Nel frattempo, il Paese si rifiuta di apprendere dalla propria Storia e, imperterrito, sorridendo peggiora.

13 - The Lobster - Yorgos Lanthimos
Disturbante e perversa riflessione sulle mediocrità dell'uomo, contrapposte a una società che non può fare a meno di catalogare e di etichettare. Come in un libro di Michel Houellebecq, Lanthimos bilancia ottimamente registri surreali e tragicomici, riflettendo sulla contemporaneità con ironica disillusione: il merito è anche di un immenso Colin Farrell. 

12 - Leviathan - Andrey Zvyagintsev
La sofferenza della vita terrena è in contrasto con l'indifferenza di una Natura che giganteggia, e che procede in direzione opposta rispetto all'incapacità dell'essere umano di liberarsi dalle catene. Sullo sfondo, l'unica consolazione in grado di riscaldare il gelido vivere è la vodka: la compagna fedele nei momenti di distensione, di rassegnazione, di solitudine.

11 - Ritorno alla vita - Wim Wenders
Wenders è ancora desideroso di sperimentare e riflettere sulle potenzialità inesplorate della Settima Arte. Un utilizzo del 3D apparentemente innocuo, ma fondamentale per penetrare nell'anima persa di un dolente James Franco, scrittore in crisi artistica e personale. Un'opera raffinatissima, dove la fotografia plumbea possiede la stessa importanza dell'intensità delle interpretazioni.

10 - White God - Sinfonia per Hagen - Kornél Mundruczò
Rabbiosa e sovversiva denuncia nei confronti dello sfruttamento delle minoranze, dei soggetti deboli e dei rifiutati. Cani bellissimi e maltrattati che si organizzano per prendere il controllo di Budapest e per ribellarsi al genere umano: non ci sono dubbi per chi parteggiare. Dalla relazione tra cinefilia e cinofilia, è uno dei risultati più potenti ed emozionanti.

9 - Foxcatcher - Bennett Miller
Il corpo non tiene, è destinato a consumarsi, ed ognuno di noi è facilmente corruttibile dal richiamo del denaro e dell'autodistruzione. Uno stile classico al servizio di un terzetto d'attori in stato di grazia (Steve Carell, Channing Tatum, Mark Ruffalo) e funzionale al grigiore d'America: una parabola sul dominio economico e culturale di chi ha sempre inseguito l'apparenza come punto d'arrivo.

8 - Il ponte delle spie - Steven Spielberg
Una dichiarazione d'amore al diritto e un inno alla diplomazia. Spielberg emoziona, come solo lui può, supportato da una sceneggiatura memorabile di Joel ed Ethan Coen e dalle prove dell'avvocato Tom Hanks e della spia russa Mark Rylance. Perfetto, attuale, commovente per il valore e il significato che riassegna all'espressione "uomini tutti d'un pezzo".

7 - Whiplash - Damien Chazelle
Racconto di formazione furente, che riflette sull'impossibilità di non rinunciare agli aspetti più lievi e superficiali della vita, dovendoli sacrificare con l'applicazione e la tensione costante di riuscire a realizzare i propri sogni. Psicosi a due tra maestro e allievo, tra vittima e carnefice, tra padre e figlio, sulle note di un pezzo jazz nervoso e sincopato.

6 - 45 Anni - Andrew Haigh
I segni, i volti, le rughe degli indimenticabili Tom Courtenay e Charlotte Rampling sono il cuore pulsante di un grande film che scava nelle pieghe profonde di chi è in grado di conservare l'eternità di un sentimento, per quanto possa rimanere apparentemente congelato. L'amore non è mai una cosa semplice, forse è soltanto un'invenzione dei poeti.

5 - Youth - La Giovinezza - Paolo Sorrentino
C'è tanto, c'è tutto in quella che è una partitura musicale più che una sceneggiatura: eppure, Sorrentino si rivela meravigliosamente coerente, diretto e brutale, sincero e mai cervellotico. Una serie di personaggi immensi, ribadendo ciascuno il proprio ruolo e inneggiando alla leggerezza e alla canzone semplice.

4 - Blackhat - Michael Mann
Mann continua a interrogarsi sull'Uomo, a osservare i suoi addii. In un mondo virtuale che si riproduce e si copia a propria immagine e somiglianza, lui continua a riprendere una scena d'azione come se fosse una scena d'amore, e una scena d'amore come se fosse una scena d'azione. Lo può fare soltanto chi non conosce la differenza tra la passione per una donna e quella per un eroe.

3 - Sicario - Denis Villeneuve
Va avanti il processo di rivisitazione del poliziesco, in chiave nera, disperata, senza nessuna via d'uscita. Questo è il mondo che ci meritiamo, ed è un mondo di lupi, dove chi si illude di rispettare i protocolli e la legge ne esce sconfitto. Si astengano moralisti e femministe: nella guerra tra il vendicativo Benicio Del Toro e la straordinaria Emily Blunt, fragile agnellino, vince il primo.

2 - Vizio di forma - Paul Thomas Anderson
PTA ci ha fregato anche questa volta. Dopo un primo approccio alla visione un po' nebuloso, il film cresce e non se ne va più, rimane impresso per le sue esplosioni improvvise di genio, di follia, di allucinazione. Si resta inebriati e attoniti, mentre la controcultura si accartoccia malinconicamente su se stessa e la macchina capitalista entra nelle nostre vite con prepotenza, corrompendole per sempre.

1 - La scomparsa di Eleanor Rigby: Lei/Lui - Ned Benson
L'elaborazione di un lutto e la fine di un amore da due punti di vista, quello femminile e quello maschile. Un esperimento cinematografico magico, magistralmente incastrato, doppio ma unico, differente tra sé per umori e temperature emotive. Come in Boyhood, il Tempo è il vero grande protagonista. E specchiandoci in James McAvoy, piangiamo con una magnifica, inarrivabile Jessica Chastain.

ATTORE DELL'ANNO: Colin Farrell (The Lobster, True Detective)

ATTRICE DELL'ANNO: Jessica Chastain (La scomparsa di Eleanor Rigby)

I MIGLIOR FILM DE 'IL BELLO, IL BRUTTO E IL CATTIVO'

2011 Il cigno nero - Darren Aronofsky
2012 Un sapore di ruggine e ossa - Jacques Audiard
2013 The Master - Paul Thomas Anderson
2014 Boyhood - Richard Linklater
2015 La scomparsa di Eleanor Rigby: Lei/Lui - Ned Benson









mercoledì 2 dicembre 2015

Flop Ten: I Bidoni del 2015

10 - Irrational Man - Woody Allen
Joaquin Phoenix perfetto, Emma Stone incantevole, purtroppo chi non risponde all'appello è proprio lui, Woody. Giunto a ottant'anni, sembra girare sempre più svogliato, col pilota automatico, sempre più pigro e sbrigativo nell'illustrazione delle ragioni del suo nichilismo. Midnight in Paris rimarrà, probabilmente, l'ultimo colpo di genio purissimo.

9 - Suburra - Stefano Sollima 
Prodotto cinematografico prestampato, preconfezionato, stilizzato, fumettistico senza avere il coraggio di ammetterlo. Non c'è traccia di riflessioni serie sul Paese, ma non si conoscono neppure così bene le regole del noir: la sceneggiatura è confusa, alcune trovate sono inspiegabili, e la sovrabbondanza di personaggi e situazioni è funzionale soltanto al lancio della serie su Netflix.

8 - Selma - Ava DuVernay
Precious, The Help, Django Unchained, Lincoln, 12 anni schiavo. Da quando le nomination all'Oscar si sono allargate fino a un massimo di dieci, la comunità afroamericana deve sentirsi rappresentata almeno da una pellicola. Questo deve succedere anche se ci si trova di fronte a un lavoro incredibilmente compassato, didascalico, cronachistico. Un'interminabile lezioncina di Storia.

7 - Life - Anton Corbijn
Anton Corbijn, noto fotografo, deve aver messo tutto se stesso per raccontare la genesi di James Dean, una delle più grandi icone del Novecento. Purtroppo, la cura formale ed estetica non va mai di pari passo con l'abilità drammaturgica di rendere davvero vibranti le inquietudini dei protagonisti. E un film talmente moscio su un artista così bello e maledetto è un paradosso.

6 - Spectre - Sam Mendes
Non che avessi mai avuto chissà quali aspettative per un film di James Bond ma ammetto che Skyfall era stata una grandissima sorpresa. Questa volta è l'indigesta sagra delle mossettine, delle cartoline e delle cazzatine: il sospetto che Christoph Waltz non sia altro che un grandissimo cialtrone è diventato una certezza. Possiamo salvare soltanto loro, le femmine: una seducente Léa Seydoux e Monica Bellucci, orgoglio MILF.

5 - Operazione U.N.C.L.E. - Guy Ritchie
L'unico aspetto positivo è quell'Alicia Vikander di una bellezza sconvolgente. Per il resto, l'operazione Ritchie di divertire con il vintage si squaglia inesorabilmente in due ore patetiche e interminabili. Non aiutano gli interpreti maschili: Armie Hammer e Henry Cavill sono meno carismatici di un buttafuori dell'Hollywood.

4 - Terminator Genisys - Alan Taylor
Il trionfo del ridicolo involontario. Il buon Schwarzy deve trovarsi di fronte a problemi finanziari: non c'è altra spiegazione per poter giustificare un pasticcio del genere, recitato da cani, più vicino a una parodia che a un remake-sequel-reboot del capolavoro di James Cameron. Anche in questo caso salviamo soltanto la presenza femminile della gradevole Emilia Clarke.

3 - American Sniper - Clint Eastwood
Il film con cui Clint Eastwood contraddice se stesso, rinnegando le parole pronunciate in Flags of Our Fathers, ovverosia che "gli eroi non esistono". Una celebrazione agiografica di un eroe di guerra, abbandonata allo stereotipo dello yankee col cappellino tutto famiglia e muscoli, tra hamburger e partite di football, che, una volta tornato dallo scontro a fuoco, ha bisogno ancora delle armi per sentirsi vivo.

2 - Everest - Baltasar Kormakur
Catastrofico film d'apertura all'ultima Mostra di Venezia. Una parata di stelle per un polpettone ad alta quota, poco avvincente e per nulla convincente. Non si fa niente per rendere interessante una storia già nota, prevedibile in tutti i suoi aspetti psicologici e narrativi. E, sul finale, non c'è dubbio che anche lo spettatore si ritrovi travolto: da una valanga di noia.

1 - Crimson Peak - Guillermo del Toro
L'ennesima ciofeca horror di uno dei registi più sopravvalutati del millennio. Nessun brivido, nessun interesse per i protagonisti: da una Mia Wasikowska completamente esangue e inespressiva a un Tom Hiddleston imbambolato e "tronista". Gli amanti sopravviveranno pure, ma lo spettatore fa grande fatica a non sprofondare nel sonno più profondo.


PEGGIOR ATTORE: Christoph Waltz (Spectre, Big Eyes)
Un uomo che ha vinto due Oscar e poi ha costruito una carriera facendo sempre la parodia di se stesso.

PEGGIOR ATTRICE: Mia Wasikowska (Crimson Peak)
Siamo ormai certi che sia uno dei grandi fraintendimenti degli ultimi anni: non si è mai allontanata dal paese delle meraviglie.

I BIDONI D'ORO DE 'IL BELLO, IL BRUTTO E IL CATTIVO'

2011 La pelle che abito - Pedro Almodovar
2012 Le belve - Oliver Stone
2013 Solo Dio perdona - Nicolas Winding Refn
2014 12 anni schiavo - Steve McQueen
2015 Crimson Peak - Guillermo del Toro





venerdì 13 novembre 2015

Il Pagellino: Novembre 2015

45 Anni - Andrew Haigh 9: i segni, i volti, le rughe degli indimenticabili Tom Courtenay e Charlotte Rampling sono il cuore pulsante di un grande film che scava nelle pieghe profonde di chi è in grado di conservare l'eternità di un sentimento, per quanto possa rimanere apparentemente congelato. L'amore non è mai una cosa semplice.

By the Sea - Angelina Jolie Pitt 8: un'opera fuori dal tempo, capace di destrutturare tutto ciò a cui il postmoderno ci ha abituato. Un cinema spavaldo e oltraggioso, che recupera il gusto semplice di riprendere la bellezza immobile dei corpi, dei gesti, dei dettagli. La confessione vintage e dolorosa di una coppia di divi e dei loro limiti, tra schiuma dei giorni e voyeurismo. Sicuro flop al botteghino, ma sarà un cult alla distanza.

Kreuzweg - Le stazioni della fede - Dietrich Bruggemann 8: una discesa agli inferi, un graduale processo di autodistruzione attuato in nome di valori presunti come redenzione, fede e beatificazione. Un racconto di de-formazione che soffoca ogni speranza di ribellione o di illusoria reazione laica da parte di una giovane protagonista, mentre sfiora soltanto il desiderio di esprimere una femminilità repressa.

Belli di papà - Guido Chiesa 7: commedia italiana leggermente sopra la media, apprezzabile per un Abatantuono piuttosto in forma e un trio di giovani attori sciolto e divertente. Non si urla al miracolo, ma ci si accorge che una visione piacevole, un po' frivola, in grado di intrattenere con garbo e senza la presunzione di essere lo "specchio" del Paese è sempre più merce rara.

La legge del mercato - Stéphane Brizé 7: amara riflessione sulla degenerazione del liberismo, su condizioni di precarietà lavorative e umane sempre più esasperate e su un mondo interessato ormai soltanto alla convenienza e al profitto. Meraviglioso Vincent Lindon, uno degli attori francesi più grandi di oggi, premiato meritatamente con la Palma d'oro a Cannes.

Snoopy & Friends 7 - Steve Martino 7: tanta simpatia per il film dei Peanuts. Riuscito il tentativo di ricollocare la poetica tenera ma caustica di Schulz ai ritmi e al linguaggio dei prodotti per bambini di oggi, senza snaturare la colonna vertebrale. Ad ogni modo, fa sempre più piacere vedere i piccoli ridere ed entusiasmarsi per Snoopy e Linus piuttosto che per i Minions.

Tutto può accadere a Broadway - Peter Bogdanovich 7: bellissime Imogen Poots e Jennifer Aniston, irresistibili Owen Wilson e Rhys Ifans, ritmo, battute divertenti, omaggiando la cara vecchia screwball comedy di tanto tempo fa. Non gridiamo al capolavoro, però, perché il grande vecchio Bogdanovich non aggiunge davvero niente di nuovo. 

Malala - Davis Guggenheim 6: che bella la storia di Malala Yousafzai ma che brutto questo vizio di doppiare anche i documentari. Cosa c'entra la voce di Filippo Timi con quella del papà della protagonista? Il film ha sicuramente un valore più pedagogica che strettamente artistico e, infatti, a breve sarà trasmesso da National Geographic.

Rams - Grimur Hakonarson 6: un discreto esempio di cinema finalizzato a sconfessare stereotipi e a proporre uno sguardo reale sulla quotidianità di individui fuori dal nostro tempo, ma umani, a cui ci si affeziona proprio per la loro spigolosità. Certo, bisogna essere interessati alla vita d'Islanda o a quella delle pecore, altrimenti si rischia il colpo di sonno.

Il segreto dei suoi occhi - Billy Ray 6: dignitoso remake americano del bellissimo thriller argentino di Juan José Campanella, a distanza di tempo forse troppo breve per suscitare vero interesse. Bello ritrovare Julia Roberts, un po' imbruttita ma dolente, e Nicole Kidman, un po' ageé ma ancora piena di fascino. 

Premonitions - Alfonso Poyart 5: dopo più di un'ora di noia mortale, appare finalmente il nostro amato Colin Farrell, l'unico motivo di interesse di un mezzo thriller paranormale buono soltanto per la terza serata di ReteQuattro. Consigliamo a Anthony Hopkins di trascorrere una serena pensione, per mantenere il ricordo dei bei tempi che furono.

Spectre - Sam Mendes 4: da non-bondiano, avevo riconosciuto la grandezza di Skyfall, il coraggio di mostrare un Bond affaticato, costretto a confrontarsi con il tempo che passa. A parte un grande inizio, Spectre è tutto quello che un disinteressato a 007 teme di vedere: mossettine, dialoghi riciclati, cartoline, donnine, cazzatine. E Christoph Waltz è già diventato la macchietta di se stesso. 




martedì 3 novembre 2015

45 Anni

Nonostante il titolo del fortunato album di Tiziano Ferro, l'amore non è mai una cosa semplice. E proprio alcuni film che sono attualmente al cinema lo testimoniano: non lo è durante gli anni dell'adolescenza, in quanto castigato dalla presenza suprema e inesistente di un fondamentalismo cattolico che non permette spiragli emotivi (Kreuzweg - Le stazioni della fede); non lo è con l'arrivo della mezza età, in quanto messo a repentaglio dalla vitalità di una irresistibile escort che sogna di diventare un'attrice (Tutto può accadere a Broadway); e, soprattutto, non lo è all'alba dell'anniversario dei quarantacinque anni di matrimonio, come è magnificamente provato dal terzo film del regista inglese Andrew Haigh, intitolato proprio 45 anni, presentato all'ultimo Festival di Berlino e vincitore dell'Orso d'Argento per l'interpretazione dei suoi due protagonisti, gli inarrivabili Tom Courtenay e Charlotte Rampling. I loro personaggi si trovano di fronte al momento più complesso della loro vita coniugale: Courtenay è Geoff, un uomo sconvolto dalla notizia del ritrovamento del cadavere intatto della sua prima fidanzata, scomparsa durante un'escursione avvenuta proprio qualche anno prima di conoscere la sua attuale consorte. Una relazione la cui importanza è sempre stata nascosta da Geoff a sé e alla moglie Kate, ma che, adesso, riemerge in maniera incontrollabile nella sua devastante rilevanza emozionale. Haigh pone allo spettatore un quesito già frequentato, come quello di un passato sentimentale impossibile da rimarginare nel momento in cui la sua ferita viene riaperta: la grande originalità del suo adattamento (il film è tratto da un racconto di David Constantine), però, è quella di collocare la questione all'interno della dinamica di una coppia che ha trascorso quasi una vita insieme e si appresta a celebrare la duratura solidità del proprio rapporto. Non soltanto: il terzo incomodo, in questo caso, è un morto. Ed è proprio nella sensibilità con cui viene percepito un tradimento che abita esclusivamente nelle emozioni del protagonista che il regista compie un vero miracolo di sfumature e suggestioni: i segni, le rughe, i volti di Courtenay e della Rampling sono il vero cuore pulsante, sicuramente più emblematici delle (poche) parole che si scambiano. Non esiste certezza. 45 anni assume il punto di vista femminile, quello di una donna che deve confrontarsi con il crollo improvviso delle proprie convinzioni, ma è anche un grande ritratto maschile, che scava nelle pieghe profonde di chi è in grado di conservare l'eternità di un sentimento, per quanto possa rimanere apparentemente congelato. Ribadendo che tutti noi abbiamo soltanto un gettone per incontrare l'amore della vita. E la tragicità del destino, spesso e volentieri, si pone in direzione ostinata e contraria, ostacolando la coordinazione delle emozioni.

Emiliano Dal Toso


giovedì 15 ottobre 2015

Il Pagellino: Cinemadays 2015

Inside Out - Pete Docter, Ronaldo Del Carmen 9: si resta meravigliati di fronte all'architettura mentale congegnata dall'abile creatività della Pixar. Si ride, si piange, in un tripudio di emozioni destinato a rappresentare un nuovo punto di svolta tecnica e, soprattutto, intellettuale del cinema d'animazione.

Black Mass - Scott Cooper 8: Johnny Depp, in un ruolo altamente a rischio, rispolvera il meglio di sé, mettendo da parte smorfie e stramberie, per un gangster movie classico, solido, un po' vecchio ma ancorato ai grandi archetipi del genere e ai grandi valori maschili, oggi in crisi: amicizia, fedeltà e memoria storica.

Io e Lei - Maria Sole Tognazzi 8: grandissima sorpresa. Finalmente, un film italiano intelligente, con due personaggi femminili veri e mai caricaturali, che racconta un rapporto di coppia senza urli e piagnistei, attento ai piccoli dettagli della quotidianità. Non l'avrei mai detto: magnifiche Margherita Buy e Sabrina Ferilli.

The Lobster - Yorgos Lanthimos 8: straniante, houellebecquiana riflessione sulle mediocrità dell'uomo, contrapposte a una società che non può più fare a meno di catalogare e di etichettare. Lanthimos bilancia ottimamente contesti surreali e tragici, e gradite dosi di ironia: il merito è anche dell'immenso Colin Farrell.

Janis - Amy Berg 7: documentario su Janis Joplin, e solo per questo motivo meriterebbe una visione. Non troppo anticonvenzionale, per quanto il lavoro svolto tra ricerche e interviste sia sicuramente encomiabile. Per fortuna, la musica non manca: per ora, basta e avanza.

Padri e figlie - Gabriele Muccino 7: melodrammone famigliare, prevedibile ma particolarmente sincero, teneramente fragile, sinceramente commovente. Muccino fa il suo mestiere più che bene: un cinema che si può anche evitare ma che ha tutto il diritto di esistere quando è così trasparente nei suoi intenti.

The Program - Stephen Frears 7: ascesa e caduta di Lance Armstrong, tra tumori ai testicoli, menzogne e doping senza soluzione di continuità. Un film che fa incazzare chiunque creda ancora nel significato umano dello sport: semplice, professionale, sufficientemente indignato.

La vita è facile a occhi chiusi - David Trueba 7: viaggio di un fan di John Lennon alla ricerca del suo idolo, mentre è in Almeria per girare un film contro la guerra. Un altro esempio di cinema dignitosissimo, tra ruffianerie e sagaci malinconie. Poi, si ha voglia di correre a casa per ascoltare Strawberry Fields Forever.

Much Loved - Nabil Ayouch 6: ecco la quotidianità delle prostitute marocchine, osservata con minuzia di particolari in tutti gli aspetti: dai festini e le orge con i ricchi sauditi alle scene di noia e psicodramma famigliare. Si vedono un bel po' di scopate e pippate: si gradisce ma poi, dentro, non rimane un granché.

Sopravvissuto - Ridley Scott 5: Matt Damon si ritrova da solo su Marte e dalla Nasa si fa di tutto per riportarlo sulla Terra. Tutto qui, il resto è un campionario di carinerie, dalla colonna sonora cool-vintage alle battutine con inevitabili riferimenti alla pop culture. Fingendo di divertirmi, rimpiango la serietà di Apollo 13.

Suburra - Stefano Sollima 5: prodotto cinematografico prestampato, preconfezionato, stilizzato, fumettistico senza avere il coraggio di ammetterlo. Non c'è traccia di riflessioni serie sul Paese, ma non si conoscono neppure molto bene le regole del noir: il pensiero va solo al lancio della serie su Netflix.

Life - Anton Corbijn 4: il regista, noto fotografo, deve aver messo tutto se stesso per raccontare la genesi di James Dean, una delle più grandi icone del Novecento. Purtroppo, la cura formale ed estetica non va di pari passo con l'abilità drammaturgica di rendere davvero vibranti le inquietudini dei protagonisti. 

Pecore in erba - Alberto Caviglia 0: un finto documentario sulla vita di un immaginario antisemita, attraverso interviste a personaggi italioti dello spettacolo e del costume. Spacciato come coraggioso e anticonformista, è un niente assoluto. Il cinema non abita qui.









lunedì 28 settembre 2015

Il Pagellino: Concorso Venezia 72

Sangue del mio sangue - Marco Bellocchio 9 (Premio FIPRESCI)
Perché è il Bellocchio più sincero e personale, e anche il più divertente e onirico.

A Bigger Splash - Luca Guadagnino 9
Per lo sfregio punk e iconoclasta, e per i riferimenti colti ed eleganti nascosti dietro ai riff dei Rolling Stones.

Anomalisa - Charlie Kaufman, Duke Johnson 8 (Gran Premio della Giuria)
Per Girls Just Wanna Have Fun e per il genio profondo e finalmente autogestito di Charlie Kaufman.

Remember - Atom Egoyan 8 
Per la vendetta perversa all'interno di una narrazione coinvolgente e popolare, e per il volto di Christopher Plummer.

Abluka (Frenzy) - Amin Elper 7 (Premio della Giuria)
Per la riflessione un po' sconclusionata su Stato e individuo, come in una versione turca dei fratelli Coen.

Per amor vostro - Giuseppe M. Gaudino 7 (Coppa Volpi a Valeria Golino)
Per Valeria Golino.

Beasts of No Nation - Cary Fukunaga 7 (Premio Marcello Mastroianni ad Abraham Attah)
Perché è il film impeccabile ma senza cuore di un regista con un talento impressionante.

Francofonia - Aleksandr Sokurov 7 
Per ribadire l'importanza di un'identità europea, come nelle lezioni un po' noiose di un professore di Storia.

L'Attesa - Piero Messina 5
Perché l'eccesso di un virtuosismo poco funzionale al contenuto è un peccato da estirpare.

The Danish Girl - Tom Hooper 5
Perché nell'ultima mezz'ora naufraga in una melensaggine insostenibile, malgrado Alicia Vikander.

Desde Allà - Lorenzo Vigas 5 (Leone d'oro)
Perché è un dramma coraggioso, se fossimo stati al Festival del Cinema Africano, d'Asia e America Latina.

The Endless River - Oliver Hermanus 5
Per i tre atti ambiziosi ma in realtà troppo convenzionali e insipidi.

Marguerite - Xavier Giannoli 5
Perché Catherine Frot è incantevole in un filmetto programmaticamente aspro per signore.

11 Minutes - Jerzy Skolimowski 4
Perché è un irritante esercizio di stile.

Equals - Drake Doremus 4
Perché non è niente, se non uno young adult con pretese da grandi.

Heart of a Dog - Laurie Anderson 4
Perché "Laurie Anderson ha sbagliato Biennale" (cit.). Ma non solo.

L'Hermine - Christian Vincent 4 (Coppa Volpi a Fabrice Luchini e Premio per la sceneggiatura)
Perché è una regia televisiva, anonima, che comporta un film totalmente privo di interesse.

NON VISTI

Behemoth - Zhao Liang

El Clan - Pablo Trapero (Leone d'argento per la miglior regia)

Looking for Grace - Sue Brooks

Rabin, The Last Day - Amos Gitai


Emiliano Dal Toso












martedì 22 settembre 2015

Sicario

Sicario fa paura. Presentato lo scorso maggio in Concorso all'ultimo Festival di Cannes, prima della sua proiezione il film di Denis Villeneuve era considerato dai bookmakers tra i favoriti per la vittoria finale. Nella sua carriera, il regista canadese è riuscito a ottenere un notevole numero di estimatori, diventando uno degli autori del nuovo millennio più apprezzati dalla buona cinefilia: da La donna che canta fino a Enemy, passando per Prisoners, il suo cinema teso e palpitante è caratterizzato da un'attenzione particolare alle dinamiche psicologiche dei personaggi, sottilissime, rivelando una sensibilità inedita per il cinema di genere a cui si è abituati, dai toni solitamente meno sfumati e raffinati. Sicario rappresenta una parziale inversione di rotta: scompaiono completamente intellettualismi, citazioni colte e riflessioni esistenziali, per far posto a un cinema più duro e violento, diretto, radicale. Un poliziesco "classico", che potrebbe essere stretto parente dei film dell'ispettore Callaghan per quanto riguarda la raffigurazione di un mondo di squadre speciali composto da esercito militare, CIA e agenti della FBI, che non concede mezze misure, disposto a superare i limiti della legalità per raggiungere i propri obiettivi. A tal proposito, la protagonista Emily Blunt è l'unica donna in un mucchio selvaggio, dapprima confusa e spaesata, poi fragile e inerme, nonostante il suo desiderio di rispettare i protocolli, di appellarsi alle buone maniere. Ma "questo è un mondo di lupi" le ribadisce Benicio Del Toro, nei panni di un mercenario senza scrupoli, disposto a tutto pur di vendicarsi dell'uomo che gli ha sterminato la famiglia. Risulta, così, piuttosto palese la contrapposizione tra la brutalità dell'atteggiamento maschile, totalmente privo di scrupoli, e quello femminile, pavido e inevitabilmente schiacciato dai meccanismi di un'umanità animalesca e glaciale. E dev'essere stata proprio la totale mancanza di riabilitazione del personaggio della Blunt a spiazzare la benpensante compagine critica di Cannes: per la sua cupezza e drasticità, Sicario è il terzo tassello di un'operazione di riabilitazione del poliziesco nella sua dimensione più disperata e pessimista, ideale proseguimento di The Counselor di Ridley Scott e della seconda stagione di True Detective. Finalmente, ecco il cinema che ci meritiamo.

Emiliano Dal Toso



giovedì 17 settembre 2015

I Magnifici Sette: Luglio - Settembre 2015

Giovani si diventa - Noah Baumbach: dopo Frances Ha, Baumbach mette in contrasto due generazioni agli antipodi. Da una parte, il quarantenne che si serve del progresso tecnologico per paura di non essere al passo coi tempi; dall'altra, il venticinquenne che lo rifiuta, per ribadire la propria mondanità vintage, modaiola e pseudo-alternativa. Un'impietosa descrizione dell'universo hipster, viziato e figlio del benessere economico, abituato a costruire la forma prima del contenuto, schiavo delle pose e del trend estetico del momento.

Taxi Teheran - Jafar Panahi: accusato di propaganda contro il sistema e condannato a sei anni di prigione con il divieto di fare film e uscire dall'Iran per vent'anni, Panahi utilizza il cinema per abbattere le barriere della legge e delle imposizioni istituzionali, ribadendo la sua natura di arte libera e illimitata, impossibile da tenere a bada. Alternando momenti di comicità liberatoria e di tensione quotidiana, il regista si tramuta nel protagonista di una ribellione, componendo un inno alle opportunità.

Dove eravamo rimasti - Jonathan Demme: una Meryl Streep inarrivabile nei panni di una rockeuse di provincia, repubblicana, mamma confusa e inaffidabile, ma in grado di esprimere sul palco tutto l'amore che c'è. Demme si disinteressa di dare una soluzione ai rapporti interpersonali, che restano in sospeso e irrisolti, e si concentra soltanto sulla musica, capace di unire e ricompattare, di rendere materia emozioni, rimorsi e rimpianti. Dagi U2 a Bruce Springsteen, ci si commuove pensando alla devastante forza riconciliatrice del rock.

Sangue del mio sangue - Marco Bellocchio: uno dei film più personali e potenti del regista bobbiese, una summa delle sue magnifiche ossessioni. C'è tutto Bellocchio: famiglia, religione, sogno, vecchio borgo antico, con uno sguardo a metà tra l'incredulo e l'onirico. Enorme Roberto Herlitzka, emblema del "vampiro" dei giorni nostri, ma in decadenza; imperdibile il duetto in uno studio dentistico con il grande Toni Bertorelli, mentre il Paese non soltanto si rifiuta di apprendere dalla propria Storia ma, imperterrito, sorridendo peggiora, confuso e mostruoso.

Sicario - Denis Villeneuve: prosegue il processo di rivisitazione del poliziesco, in chiave nera, disperata, senza nessuna via d'uscita. Si pensi anche a The Counselor e alla seconda stagione di True Detective: questo è il mondo che ci meritiamo, ed è un mondo di lupi, dove chi si illude di rispettare i protocolli e la legge rimane inevitabilmente sconfitto. Potrebbe irritare moralisti e femministi, ma questo è il cinema scomodo di cui abbiamo bisogno: nella guerra tra il vendicativo Benicio Del Toro e la fragile Emily Blunt, vince il primo.

Ritorno alla vita - Wim Wenders: lascia spaesati, meravigliati, incantati questa sinfonica, dolorosa riflessione di Wenders su colpa ed espiazione. Un cinema ancora desideroso di sperimentare, ricercare e riflettere sulle potenzialità inesplorate della Settima Arte. Un 3D apparentemente innocuo, in realtà fondamentale per penetrare nell'anima persa di James Franco, scrittore in crisi d'ispirazione. Un'opera raffinatissima, nella quale la fotografia plumbea e innevata possiede la stessa importanza dell'intensità delle interpretazioni.

Un mondo fragile - César Augusto Acevedo: un ritratto intimo di una famiglia contadina, asciutto e rigoroso ma mai ricattatorio, privo di ruffianerie consolatorie. Duro e sincero nella descrizione delle condizioni di vita dei suoi protagonisti, però affettuoso ed emozionante quando indaga nelle dinamiche psicologiche tra esseri umani. Sotto la lente di ingrandimento di Acevedo, un'America latina lontana da tentazioni cartolinesche in un lavoro esteticamente perfetto, che getta una luce dolorosa su un mondo ai margini della sopravvivenza.



domenica 6 settembre 2015

Venezia 72 - #Day5: A Bigger Splash

Quello che porta A Bigger Splash di Luca Guadagnino su un livello di opera geniale e iconoclasta è Corrado Guzzanti. Onde evitare qualsiasi tipo di spoiler, mi limiterò a dire che la sua entrata in scena è uno sfregio a tutto quello che la meravigliosa cura estetica del regista di Io sono l'amore costruisce per più di metà. Prendere o lasciare. Per più di un'ora e mezza, il film non è soltanto il remake de La piscina con Alain Delon ma, in qualche modo, anche del film precedente di Guadagnino: uno stile lussureggiante, al limite del kitsch, sequenze eleganti e semplicemente "belle da vedere", la descrizione di un ambiente sociale e famigliare esemplare, supportata da uno sguardo registico un po' snob ma di indubbio fascino. Insomma, nessuna sorpresa, se aggiungiamo anche l'inevitabile gioco perverso e psicologico che si instaura nel quadrato sentimentale composto da Tilda Swinton, Matthias Schoenaerts, Dakota Johnson e Ralph Fiennes. La tensione cresce poco a poco, tra squarci di Pantelleria un po' cartolineschi e una colonna sonora degli Stones che violenta la pulizia formale dell'immagine. E poi, la scelta clamorosa di spiazzare lo spettatore che fino a quel momento ha potuto godere di uno spettacolo formalmente magistrale ma senza particolari sussulti. Fin dai titoli di testa, risulta evidente che Guadagnino sia consapevole di avere un talento incredibile, di saper calibrare umori, immagini, raffinatezze tecniche con una scioltezza che ha davvero pochi eguali nel cinema contemporaneo. Puro cinema, funzionale soltanto "alla bellezza del gesto", niente di più e niente di meno. Questa volta, però, non siamo di fronte a sontuoso affresco viscontiano dell'alta borghesia milanese, ma alla contrapposizione tra un nucleo umano di rockstar viziate e di produttori fighetti che vivono la superficie, "la schiuma dei giorni", e un Paese, l'Italia, che continua ostinatamente ad autoflagellarsi nella sua mediocrità che lo tiene in vita. Rimanendo sempre in bilico sulla linea sottile che separa sublime e ridicolo, A Bigger Splash sarà oggetto di discussione, tra parole di indignazione e post-ripensamenti: la verità è che in Italia un cinema come quello di Luca Guadagnino non lo fa proprio nessuno, in grado di avere un respiro universale che parte dalla negazione del postmoderno e arriva con prepotenza a rifiutare ogni ricatto di conformismo intellettuale.

Emiliano Dal Toso



sabato 5 settembre 2015

Venezia 72 - #Day4: The Childhood of a Leader

Doveva essere la giornata di Kristen Stewart e Robert Pattinson al Lido insieme, per due film diversi ma accomunati da un forte tocco di autorialità: il distopico Equals di Drake Doremus in Concorso e l'ambizioso The Childhood of a Leader di Brady Corbet nella sezione Orizzonti. Se Kristen si è presentata in gran forma in conferenza stampa e sul red carpet, rispondendo con brillantezza alle domande dei giornalisti malgrado le numerose critiche al film, di Robert Pattinson nessuna traccia. L'adattamento dell'esordiente Corbet dell'omonimo racconto di Jean-Paul Sartre ha spiazzato la platea: un lavoro di chiara impostazione teatrale, accompagnato da scelte registiche imprevedibili, a volte interessanti e coraggiose, altre ingiustificate. Spesso, ad esempio, la macchina da presa è molto lontana dai protagonisti, alcune sequenze sono lunghissime e interminabili, e le battute sono recitate dagli attori con una lentezza quasi "ronconiana". Ma a parte il giudizio su un film senz'altro coraggioso e non immediatamente decifrabile, che attualmente rimane sospeso, bisogna far notare che l'assenza a Venezia di Pattinson forse è dovuta al fatto che in The Childhood of a Leader l'ex vampiro Edward Cullen non si vede per più di quindici minuti complessivi. Tutto gira intorno al piccolo Charles Marker, interpretato da Tim Sweet, bambino in perenne conflitto con una madre severa e apprensiva, una eccellente Bérénice Bejo. Va anche detto che Pattinson è ora alle prese con diversi set: Good Time dei fratelli Safdie, The Lost City of Z di James Gray e The Trap di Harmony Korine. La terza ipotesi è che invece non sia venuto in Laguna per evitare di incrociare proprio la Stewart. Quello che è certo è che alla fine dei chiacchieratissimi Equals e The Childhood of a Leader nessuno in sala si è alzato in piedi per gridare al capolavoro.
 
Emiliano Dal Toso


venerdì 4 settembre 2015

Venezia 72 - #Day3: Black Mass

Johnny Depp è tornato. Questa è la nota più lieta di Venezia 72 dopo le prime tre giornate. Nella sua quarta prova da gangster, dopo Donnie Brasco, Blow e Nemico pubblico, è possibile ammirare nuovamente la potenza espressiva di un attore fenomenale, che dopo lo Jack Sparrow de La maledizione della prima luna era diventato vittima del gigionismo dei suoi personaggi, quasi tutti eccessivamente caricati e macchiettistici (Dark Shadows, The Lone Ranger, Mortdecai, per citare solo alcuni esempi). Black Mass è un gangster movie alla vecchia maniera, classico, solido, supportato dalla regia elegante ed essenziale di Scott Cooper, e da enormi prove recitative: oltre a Depp, sarà difficile dimenticare il bellissimo personaggio di John Connolly, l'agente FBI amico d'infanzia di James "Whitey" Bulger, il capo della malavita di Boston, che regnò incontrastato nella capitale del Massachusetts tra gli anni Settanta e gli anni Novanta. Cooper evita le scorciatoie del biopic, portando lo spettatore direttamente dentro la banda di Bulger, all'interno dei controversi rapporti con i suoi uomini e i nemici, senza risparmiare i metodi crudi e violenti con i quali il boss regolava i conti. Il punto nevralgico del film è il rapporto tra Bulger e Connolly, entrambi provenienti dalla strada, portatori di un'etica criminale ma romantica, virile ma talvolta vulnerabile, per la quale la vigliaccheria e il tradimento sono gli unici veri peccati mortali. Proprio l'amicizia con Connolly permette a Bulger di operare sempre nell'ombra, di commettere le peggiori nefandezze quando nessuno può vederlo. Il regista, però, non ritrae un gangster dal cuore tenero, tutt'altro: a differenza dell'altrettanto indimenticabile John Dilinger di Nemico pubblico, "Whitey" Bulger è spietato, aspro, malvagio. Non empatizza con nessuno, non ha pupilli con i quali instaurare un rapporto paterno, non prova nessuna pietà nei confronti di chi potrebbe mettere a repentaglio il suo potere, il controllo del suo territorio. Siamo lontani da ogni pericolo di attrazione e fascinazione per il lato oscuro: in Black Mass, Johnny Depp è la maschera del Male, quel Male che forse non ha mai incarnato con tanta adesione.

Emiliano Dal Toso




giovedì 3 settembre 2015

Venezia 72 - #Day2: Beasts of No Nation

L'ingrediente segreto del sesso è l'amore. Questa è la grande scoperta della protagonista di Nymphomaniac, ma per molti il sesso nel film di Lars von Trier non è altro che la cartina al tornasole per parlare di una passione molto più insana: il cinema. E per quanto il cinema di Cary Fukunaga sia formalmente impeccabile, visionario e spesso travolgente, dopo aver visto Beasts of No Nation sorge il sospetto che sia proprio l'amore a mancare nel suo sguardo da puro esteta dell'animo umano. Le tenebre hanno caratterizzato la prima stagione di True Detective: in un prodotto seriale, per rendere immortale un'idea di mondo possono essere sufficienti l'eleganza visiva, la battuta a effetto, un protagonista nichilista, fortemente marcato, e una spalla meravigliosamente umana. E, soprattutto, una narrazione avvincente e trascinante (merito, in questo caso, dello showrunner Nic Pizzolatto). Ma il Cinema è un'altra cosa, non per forza migliore o peggiore: semplicemente, un incanto di circa un paio d'ore che si regge in piedi grazie a qualcosa che non può essere etichettato, e neanche ben compreso. I grandi film sono quelli che possiedono qualcosa di magico e inspiegabile, in grado di avvolgere un'intera pellicola che può essere scarna, sporca, imperfetta tecnicamente, eppure incantevole. Si riconosce l'abilità di Fukunaga in diverse sequenze di Beasts of No Nation: dalle brutalità che il piccolo Agu è costretto a commettere per assecondare il rude comandante (Idris Elba) del gruppo di combattenti in cui è stato arruolato, riprese con una macchina da presa che volteggia in aria ad "altezza bambino", fino a un fenomenale piano sequenza che ricorda molto da vicino quello sontuoso, palpitante, del quarto episodio di True Detective, comincia a essere lampante la forte impronta del regista, la cura dei dettagli, l'importanza che viene assegnata alle location e alla fotografia. Ciononostante, l'originalità e la forza di questi aspetti non va di pari passo con una scrittura altrettanto potente. Il film è tratto dal libro Bestie senza una patria di Iweala Uzodinma ma l'originalità del soggetto originale rischia di invadere e schiacciare lo spazio che dovrebbe essere lasciato al coinvolgimento emotivo. Risultano chiaramente debitori di Terrence Malick (La sottile linea rossa, The New World) e di Apocalypse Now anche i passaggi più riflessivi, a cominciare dai flussi di coscienza fuori campo del giovane protagonista, che appaiono non così autentici, più di forma che di sostanza. E in un racconto di formazione talmente ambizioso, il peccato di artificiosità non può essere ignorato.

Emiliano Dal Toso


mercoledì 2 settembre 2015

Venezia 72 - #Day1: Everest

Il senso di Baltasar per la neve è quello della grande sfida impossibile, dai risvolti imprevedibili e tragici. Un po' come il sontuoso Ron Howard di Apollo 13, il regista di Cani sciolti sembra interessato, inizialmente, alla dimensione umana e famigliare dei suoi protagonisti: su tutti, s'innalza un ottimo Jason Clarke, dal cuore travolto per una Keira Knightley a casa in apnea, mentre il compagno è bloccato nel gelo, nel punto di contatto tra la vita e il paradiso. Non è un problema di altitudine, ma di attitudine, suggerisce il personaggio di Jake Gyllenhaal, e le sue parole dovrebbero suggellare la convinzione che Everest utilizzi la catastrofe come pretesto per mettere in scena un raffinato conflitto tra individui e personalità opposte. Un po' come Rush, nuovo punto di riferimento del cinema di "scontri tra uomini". Purtroppo, l'impressione conclusiva è che l'impeto della natura sovrasti e devasti tutte quelle dinamiche e quegli scontri psicologici che fino a un certo punto Kormákur aveva costruito con sagacia e intelligenza. Arriva la bufera, e si cancellano le inimicizie, spariscono le insicurezze e le incertezze, e Everest abbandona la sua umanità, anche per giustificare la presenza di una tridimensionalità di cui il cinema contemporaneo d'avventura non può ancora fare a meno. La cronaca di una morte annunciata si esprime corretta, compatta, organizzata. Con tutte le convenzioni del caso: chi è a casa o nei rifugi si muove e s'anima, col pensiero e il trasporto emotivo di chi vive in funzione di qualcun altro; chi aspira, invece, alla vetta più alta del mondo non può nemmeno preoccuparsi della propria sopravvivenza, perchè non è altro che un corpo raggelato, un respiro destinato gradualmente a spegnersi. E così la moltitudine di piccoli personaggi non sufficientemente approfonditi appare in parte giustificata dal fatto che l'unico vero protagonista del film sia la montagna. Come se di fronte all'enormità della natura, dinanzi a tutto ciò che non è stato l'Uomo a creare, si ribadisse che una parata di star hollywoodiane rimane inosservata, anonima, attonita e travolta dalle conseguenze, da ciò che l'ineluttabilità del fato e l'insensatezza del cataclisma comportano. Baltasar Kormákur si limita a raccontare, a mettere in scena, a riprendere. Il suo sguardo è privo di una presa di posizione autentica e personale, di una rilettura originale degli eventi. Ciononostante, il suo (non) film da red carpet spiazza e inquieta proprio nell'assenza dichiarata ed esplicita di autorialità. Un cinema abbandonato al suo destino, forse per scelta, forse per ammissione di inferiorità del genere umano.

Emiliano Dal Toso


lunedì 24 agosto 2015

Opinions: True Detective

Discussa, criticata, offesa. Inadatta al pubblico serializzato e standardizzato che trova la sua ragion d'essere nello storytelling. La seconda stagione di True Detective ha disatteso le aspettative di chi desiderava un remake della prima stagione, o perlomeno qualcosa di molto simile; non ha convinto, dunque, gli amanti delle serie tv, rinunciando ad assumere identità modaiole e a nascondersi dietro pose; lo showrunner Nic Pizzolatto ha voluto abbondare in tutto e per tutto: più personaggi, più marciume, più mal di vivere. La trama a volte si perde, confusa, senza saper bene dove si stia andando a parare. Verso il quarto e il quinto episodio la sensazione è di grande spaesamento: non sono sufficienti la messa in scena sontuosa e la prova magnifica di tutti gli attori per levarsi di dosso questo smarrimento narrativo. Un mio caro amico scrittore mi ha rivelato che c'è tanto, troppo Ellroy nella penna di Pizzolatto (L.A. Confidential, Il grande nulla), ai limiti del plagio. Io ci ho visto molto Vivere e morire a Los Angeles, oltre a un pessimismo cosmico a cui ho abbinato il miglior cinema americano di sempre, quello tra gli anni Settanta e Ottanta. Molte cose vengono lasciate sospese, non tutto si chiude, non tutto torna. E va bene. Mi sembra, però, che l'operazione di vivisezionare episodio per episodio, senza avere uno sguardo d'insieme, non si sia mai rivelata tanto sbagliata come questa volta; mai nella vita ho visto un prodotto televisivo così complesso, sfumato, così cinematograficamente denso. Senz'altro imperfetto, ma nel senso cinematografico del termine, non in quello televisivo. Qualcosa di archetipico e maestoso, classico e disperato: personaggi neri, oscuri e autodistruttivi come Ray Velcoro, Ani Bezzerides, Paul Woodrugh e Frank Semyon si portano dietro una pesantezza esistenziale che ha poco a che fare con il prime time, con il mainstream, con l'audience, con i social network. E anche con lo storytelling. Ancor più che nella prima stagione, un senso globale di malattia pervade ogni sequenza: non c'è spazio per la battuta che smorza, e nemmeno per le dinamiche tipiche da buddy movie che caratterizzavano Cohle e Hart, seppur in chiave nichilista, per le paludi della Louisiana e non per le strade delle grandi metropoli. Non si ride proprio mai, malgrado la presenza di Vince Vaughn. A volte ci si annoia. Ma la seconda stagione di True Detective è un capolavoro, come hanno scritto Marco Imarisio su 'Corriere della sera' e Gabriele Romagnoli su 'Repubblica': è la volontà di andare oltre, di rifuggire da ogni carineria, di raccontare i demoni dell'Uomo con ancor più veemenza e dannazione. Ponendo al centro il rapporto tra genitori e figli, perché da quello non si può scappare. Ribadendo l'impossibilità di fuggire ai conti con se stessi, alle proprie dipendenze, e rispondendo alle conseguenze delle proprie azioni. E compiendo sempre un ultimo romantico gesto, prima di andare incontro a un destino già scritto.

Emiliano Dal Toso

sabato 25 luglio 2015

Chi l'ha visto? Top Ten Inediti 2014-2015

10 - The Humbling - Barry Levinson
Presentato alla Mostra di Venezia dell'anno scorso, è uno dei due film (l'altro è Manglehorn) che segna il ritorno in grande stile di Al Pacino, nei panni di un attore in crisi d'identità e dall'evidente declino psico-fisico che ritrova la passione per la recitazione grazie alla vivace figlia dei suoi vecchi vicini di casa (un'ottima Greta Gerwig). Amaro e sincero il coraggio di Pacino di impersonare un ruolo che lo spettatore potrebbe ricondurre fuori dallo schermo.

9 - Queen and Country - John Boorman
Grandioso coming-of-age anni Cinquanta del Maestro di Senza un attimo di tregua: romantico, commovente. Temi semplici ma eterni, ultimi a morire: amicizia tra uomini, illusioni d'amore, tradimenti, cadute e rinascite. Non è un caso che nei dialoghi tra i protagonisti, scalfiti dapprima da ingenue speranze e tramortiti poi da botte che solo la vita sa rimediare, si citino Kurosawa, Wilder, Hitchcok. A Cannes nel 2014.

8 - Burying the Ex - Joe Dante
Altro vecchio magnifico, Joe Dante omaggia un'umanità strampalata e anticonformista, ossessionata dagli horror di serie B e alla ricerca di una ragazza con la quale condividere la stessa idea di mondo. Burying the ex è uno spassoso divertissement, un ritorno ai film dell'orrore con ironia, con un gusto ludico per i gag demenziali, che ha il raro pregio di sapersi non prendere sul serio e di intrattenere con perspicacia. Visto a Venezia 2014.

7 - La Rançon De La Gloire - Xavier Beauvois
Uno dei migliori titoli in concorso nell'ultima kermesse veneziana, è un tragicomico omaggio a Charlie Chaplin trascinato dalla mattatoriale interpretazione di Benoit Poelvoorde, in grado di cogliere un equilibrio miracoloso tra dramma e ironia, tra durezza di racconto e lievità di sguardo. Al centro: i perdenti e gli esclusi, disposti a tutto pur di raggiungere un pezzetto di dignità sociale e di autosufficienza economica. Il regista è lo stesso dell'ottimo Uomini di Dio.

6 - Good Kill - Andrew Niccol
Scandalosamente massacrato dai critici più snob, per chi scrive è il miglior film di Andrew Niccol. Si potrà discutere sull'ideologia di base, ma si tratta di un thriller bellico tesissimo, palpitante, recitato ottimamente da Ethan Hawke, che trascina gradualmente lo spettatore nella spirale infernale di un pilota di droni in piena crisi di coscienza. L'esempio più compiuto della poetica del regista di Gattaca sull'inevitabilità dell'evoluzione tecnologica e relative contraddizioni.

5 - Le Dernier Coup De Marteau - Alix Delaporte
Piccolo capolavoro della fiorente cinematografia francese, incomprensibilmente non distribuito. "L'ultimo colpo di martello" è la traduzione del titolo e fa riferimento a una scelta compositiva di Mahler nella sua sesta sinfonia: struggente allegoria di un adolescente che sta per perdere la madre ma, tra calcio e musica classica, ha ancora davanti tutta una vita di passioni. Avvicinandosi ai Dardenne, ma superandoli a livello narrativo, il risultato è un groppo in gola delicato ma autentico.

4 - Durak - Yuriy Bykov
Durak, cioè The fool, ovverosia L'Idiota. Insieme a Leviathan di Zvyagintsev, un altro devastante atto d'accusa nei confronti del potere e degli ingranaggi burocratici nella Russia di Putin. In concorso a Locarno, sarebbe davvero cosa buona e giusta distribuirlo, o recuperarlo in qualche rassegna: non solo politica, ma anche una capacità di tenere incollato lo spettatore, come in un thriller d'Oltreoceano. Da applausi il protagonista Artem Bystrov.

3 - For Some Inexplicable Reason - Gàbor Reisz
Vincitore del Premio Speciale della Giuria all'ultimo Torino Film Festival: uno spasso. La vita di un ventinovenne di Budapest, ragazzo istruito e di buone maniere, senza lavoro e senza meta. Sbronzo, prenota un viaggio per Lisbona ma non ricorda di averlo fatto: parte comunque perché, in fondo, non ha un granché da fare. Esaltante descrizione di una generazione colta ma che non ha futuro. Non resta altro che continuare a farsi fare le valigie dalla mamma.

2 - Manglehorn - David Gordon Green
Gordon Green è uno degli autori americani più potenti degli ultimi anni ma in Italia è completamente ignorato. Manglehorn arriva dopo lo strepitoso Prince Avalanche, ed è un altro tassello nel mosaico di un Paese nel quale gli emarginati sono in numero decisamente sovrabbondante: Al Pacino è un fabbro solitario, che non è più in grado di portare avanti relazioni umane. L'altra faccia degli Stati Uniti politicamente corretti di Obama, quelli nei quali la rassegnazione sostituisce la rabbia.

1 - Enemy - Denis Villeneuve
Opera definitiva sul tema del doppio, ispirata al romanzo L'uomo duplicato di Saramago, vincitrice del Courmayeur Noir e vergognosamente dimenticata. Jake Gyllenhaal - in stato di grazia - è un professore di storia che scopre l'esistenza di un attore fisicamente identico a lui. Sogno, paranoia, malattia, disperazione: Denis Villeneuve non concede risposte definitive, lascia dubbi e seduce in un gioco psicologico sempre più torbido e depravato. Stupenda Mélanie Laurent.





martedì 7 luglio 2015

The Irish Side: '71

Paolo Mereghetti scrive che '71 di Yann Demange "porta lo spettatore dentro un conflitto che insanguinò Irlanda e Gran Bretagna per più di un ventennio senza cercare colpevoli o capri espiatori ma, piuttosto, sforzandosi di raccontare la follia di uno scontro dove, fin dalle sue origini, sembrava che tutti combattessero contro tutti." Nella recensione uscita sul Corriere Della Sera dall'ottima penna del Merego, viene riconosciuta una neutralità che personalmente ho fatto fatica a individuare. Per farla breve, due giovani soldati britannici vengono dispersi per le strade di Belfast, durante una missione di appoggio alla polizia dell'Ulster, impegnata in una perquisizione. La situazione precipita e sfocia in una rivolta da parte della popolazione. Un commilitone viene ucciso a bruciapelo, l'altro riesce a fuggire in un quartiere che potrebbe rivelarsi per lui assai ostile, a maggioranza "Nazionalista Cattolico". Il problema è che in Irlanda del Nord non esiste soltanto l'Ira "ufficiale": i pericoli maggiori potrebbero verificarsi a causa della componente più violenta e anarcoide, quella dell'Ira "Provisional", che ha tra i membri proprio quei ribelli armati che lo vorrebbero eliminare per non essere denunciati. Il film racconta, dunque, una caccia all'uomo, che si compie nell'arco di una notte. Da un punto di vista strettamente tecnico-formale, '71 è un ottimo film d'azione e di inseguimenti, detto ancor più volgarmente, "di sparatorie". Alcune sequenze sono efficaci e spettacolari, la tensione è incalzante, e la regia evita eccessi di inverosimiglianza. Ciononostante, il film è tutto fuorché neutrale: da una parte, abbiamo i poveri giovani soldati inglesi mandati allo sbaraglio; dall'altra, ecco i cattolici nord-irlandesi, che sono tutti terroristi violenti, bombaroli spietati. A differenza di quello che scrive Mereghetti, non credo che '71 mostri davvero la follia e l'insensatezza del conflitto; mi sembra, invece, un action movie apertamente schierato, indulgente nei confronti degli uomini che venivano spediti dall'Inghilterra per eliminare i militanti cattolici, e piuttosto impietoso nella descrizione di questi ultimi, folli sanguinari in lotta tra loro stessi. A questo punto, riemerge un quesito, che pensavo di avere risolto: può piacere e convincere davvero un'opera formalmente valida ma portatrice di un punto di vista agli antipodi del nostro? Prima di vedere '71, pensavo di avere già raggiunto una specie di maturità critica per poter giudicare un film a prescindere dalla sua posizione politica o ideologica. Pur riconoscendo alcuni meriti strettamente cinematografici (non stiamo comunque parlando di chissà cosa, sia chiaro), ammetto che questa volta il mio giudizio è radicalmente influenzato.

Emiliano Dal Toso


martedì 23 giugno 2015

Top Ten: Classifica Primo Semestre 2015

10 - Italiano Medio - Maccio Capatonda
Capatonda rinuncia al bisogno di approvazione dello spettatore italiota e realizza un'opera sgradevole, tanto disgustosa quanto indovinata. Il ritratto del Belpaese che viene fuori è deplorevole e drammaticamente reale, grazie alle armi del grottesco, del surreale e della deformazione dell'individuo, funzionali alla costruzione di un insieme che, d'istinto, rifiutiamo possa essere l'Italia ma ci rendiamo conto che sia davvero molto simile.

9 - E' Arrivata Mia Figlia - Anna Muylaert
Conflitto di classe nel Brasile di Lula: la figlia della governante piomba in casa della ricca famiglia borghese e sovverte le consuetudini. Commedia umana, abile ad evitare retorica ed intellettualismi, che non si sbilancia sul giudizio ai suoi personaggi. Grande attenzione ai dettagli: le magliette dei Ramones e dei Joy Division del benestante e annoiato Fabinho sono sempre stirate perfettamente.

8 - Blackhat - Michael Mann
Mann continua a interrogarsi sull'Uomo, a osservare la sua solitudine, i suoi addii. In un mondo virtuale che si riproduce e si copia a propria immagine e somiglianza, lui continua a riprendere una scena d'azione come se fosse una scena d'amore, e una scena d'amore come se fosse una scena d'azione. Pochi lo fanno, soltanto chi non conosce la differenza tra la passione per una donna e quella per un eroe.

7 - Forza Maggiore - Ruben Ostlund
Disgregazione graduale delle illusorie certezze matrimoniali in uno chalet sulle Alpi, dopo che si è vista tutti insieme appassionatamente una valanga - e la Morte - in faccia. Dinamiche psicologiche precise, trovate registiche geniali, sorrette da quell'ironia tipicamente svedese intrisa di spaesamento e impotenza. Ancora una volta, la neve se ne frega.

6 - Leviathan - Andrey Zvyagintsev
Dopo Il ritorno, Zvyagintsev evidenzia nuovamente il contrasto tra la sofferenza della vita terrena e l'indifferenza di una Natura che giganteggia, e che procede in direzione opposta rispetto alle piccolezze e all'incapacità dell'Uomo di liberarsi dalle catene. Sullo sfondo, l'unica a riscaldare il gelido vivere è la vodka: la compagna nei momenti di distensione, nella rassegnazione, nella solitudine.

5 - White God - Kornél Mundruczò
Rabbiosa e sovversiva denuncia nei confronti dello sfruttamento delle minoranze, dei soggetti deboli e dei rifiutati. Cani bellissimi e maltrattati che si organizzano per prendere il controllo di Budapest e per ribellarsi al genere umano: non ci sono dubbi per chi parteggiare. Dalla relazione tra cinefilia e cinofilia, è uno dei risultati più potenti ed emozionanti.

4 - Foxcatcher - Bennett Miller
Le vittorie non vengono mai assaporate davvero, mentre la sconfitta è sempre dietro l'angolo, perché il corpo non tiene, è destinato a consumarsi, ed ognuno di noi è facilmente corruttibile dal richiamo del denaro e dell'autodistruzione. Uno stile classico e asciutto al servizio di un terzetto di attori in stato di grazia (Carell, Ruffalo, Tatum), funzionale al grigiore di una Nazione che insegue l'apparenza come punto d'arrivo.

3 - Whiplash - Damien Chazelle
Racconto di formazione furente, che riflette sull'impossibilità di non rinunciare agli aspetti più lievi e superficiali della vita, dovendoli sacrificare con l'applicazione e la tensione costante di riuscire a realizzare i propri sogni. Psicosi a due tra maestro e allievo, tra vittima e carnefice, tra padre e figlio, sulle note di un pezzo jazz nervoso e sincopato.

2 - Youth - Paolo Sorrentino
C'è tutto, c'è tanto in quella che è una partitura musicale piuttosto che una sceneggiatura: eppure, questa volta Sorrentino si rivela straordinariamente coerente, diretto e brutale, sincero e mai cervellotico. Un pungo di personaggi indimenticabili per un inno alla leggerezza e alla semplicità, ribadendo ciascuno il proprio ruolo nel mondo. Io sto sempre andando a casa, sempre alla casa di mio padre.

1 - Vizio Di Forma - Paul Thomas Anderson
PTA mi ha fregato anche questa volta. Dopo una prima visione nebulosa, il film cresce, non se ne va, rimane impresso per le sue esplosioni improvvise di genio, di follia, di allucinazione. Si resta inebriati e attoniti, mentre la controcultura si accartoccia su se stessa malinconicamente e la macchina capitalista entra nelle nostre vite con prepotenza, corrompendole.