martedì 26 febbraio 2013

Opinions: Oscar 2013

A vincere l'edizione 2013 degli Oscar sono le lobby e gli interessi politici. Michelle Obama che annuncia Ben Affleck vincitore del premio per il miglior film è l'immagine di un America che concepisce il Cinema esclusivamente come un'industria e ne fa uno strumento propagandistico, seppur dandogli un'importanza fondamentale, ma spogliandolo completamente del suo valore effettivo: 'Argo' è un film tutt'altro che indimenticabile, a mio modesto parere assolutamente mediocre. Ma non è la qualità del film che, evidentemente, interessava ai giurati dell'Academy, quanto piuttosto la celebrazione patriottistica della Cia, oltre al fatto che Affleck sia uno dei più grandi paraculati e ammanicati di tutta Hollywood. Se ci mettiamo, poi, che 'Argo' è prodotto anche da Clooney, altro paraculo, ecco che si spiega per quale motivo sia stato premiato. Più interessante e meno scontato l'Oscar per la miglior regia ad Ang Lee: 'Vita di Pi' è un bel film per ragazzi, che prende il volo nella seconda parte. Il regista asiatico ha svolto un grandissimo lavoro tecnico, e, per una volta, il tridimensionale appare un'efficace strumento per far risplendere l'eccellenza degli effetti speciali. Prevedibilissimo l'Oscar come miglior attore a Daniel Day-Lewis per 'Lincoln'. Daniel è un grande, ma la sua interpretazione è troppo impeccabile per suscitare simpatia. Avremmo preferito decisamente l'impareggiabile Joaquin Phoenix di 'The Master', film capolavoro, e il suo personaggio in preda a quei demoni, a quelle ossessioni, che indelebilmente fanno parte di noi. Non ci è dispiaciuto, invece, il premio per la miglior attrice a Jennifer Lawrence per il 'Il lato positivo'. Non abbiamo visto il film ma Jennifer ci sembra una molto in gamba, destinata a un futuro luminoso e a qualche altra statuetta. Poco da dire per i non protagonisti: Christoph Waltz in 'Django Unchained' è da applausi a scena aperta, seppur anche in questo caso avremmo preferito Philip Seymour Hoffman nei panni del fragile e irascibile Ron Hubbard/Lancaster Dodd; Anne Hathaway in 'Les Miserables' recita per quindici minuti ma è davvero l'unica cosa entusiasmante di un musical assolutamente scadente. Scontatissimo il film straniero ad 'Amour' (ci tengo a ribadire che lo trovo ricattatorio e manierista), mentre davvero poco interessante risulta il premio a 'Ribelle - The Brave' per il film d'animazione. Chiudo, però, con l'unico premio che mi ha davvero entusiasmato, ovvero quello per il miglior documentario a 'Searching For Sugar Man' di Malik Bendjelloul. E' la storia del cantautore messicano Rodriguez, che negli anni 60, in piena esplosione dylaniana, diede alle stampe due album osannatissimi dalla critica che, inspiegabilmente, furono un clamoroso insuccesso commerciale. Tranne che in Sudafrica, paese nel quale Rodriguez è considerato un mito assoluto, al pari di Bob Marley ed Elvis Presley. Oggi, Rodriguez vive nell'ombra, ma qualche anno fa ha organizzato un paio di concerti a Johannesburg, che hanno esaltato il popolo sudafricano. Dal mio punto di vista, 'Searching For Sugar Man' è il vero cinema politico e l'unico vero trionfatore della notte degli Oscar 2013.

Emiliano Dal Toso
 
 


Nella foto, Rodriguez nel magnifico 'Searching For Sugar Man'


domenica 17 febbraio 2013

Asia Argento: I'm a Cyborg But That's Ok

Io considero Park Chan-Wook uno dei registi più geniali, non solo dell'Asia, ma del mondo intero. Tutti lo conoscono per "Old Boy" l'episodio mezzano della sua trilogia sulla vendetta, ma non molti sanno che nel 2006 è uscito anche un suo bellissimo film d'amore: "I'm a Cyborg But That's Okay". Young-Goon, giovane operaia di una ditta elettromeccanica sudcoreana, diventa pazza di dolore dopo che la madre e gli zii fanno ricoverare in un istituto psichiatrico l'amata nonna, solo perchè mangia unicamente rafani e si crede la madre dei topi che le girano per casa. Anche Young-Goon finisce in manicomio. È convinta di essere un cyborg che ha una missione: uccidere i camici bianchi che le hanno portato via la nonna. Per questo le serve energia, ma non può mangiare il cibo degli umani, poichè ostruirebbe i suoi ingranaggi. Rifiuta di nutrirsi e quindi rischia di morire. Il-Sun, un ospite dell'istituto e cleptomane con alle spalle l'abbandono della madre, si innamora di lei, cerca in tutti i modi di salvarla. Alla fine costruisce un ciboconvertitore che trasforma il riso in energia elettrica, lo installa per finta dentro a Young-Goon, e lei si decide a mangiare. Il loro amore finirà col salvarli entrambi, pur senza normalizzarli, senza reinserirli nel mondo dei sani. Però del mondo dei sani Young-Goon e Il-Sun non hanno nessun bisogno. Il loro amore basta. Park Chan-Wook dipinge una fiaba surreale nella quale il linguaggio fantasioso, forse un po' eccessivo, diventa la miccia per l'esplosione dei contenuti. L'intero film è attraversato dalle trovate semplici ma geniali del regista (fantastica la scena in cui Young-Goon immagina di ammazzare tutti i dottori sparando dalle dita delle mani), uno stile lontano dal tecnicismo fighetto che alcune volte ha ammorbato (solo un esempio, è il primo che mi viene in mente, ma ce ne sono altri) Sorrentino. Sul filo del divertimento e del nonsense, la pellicola sfiora, senza sgualcirli, i temi del dolore, dell'odio, dell'amore, lasciandoli alla loro purezza primigenia, lì dove andrebbero lasciati, perchè quando si scava troppo in questo genere di sentimenti si rischia di essere ridondanti o banali. Beh, difficile che una cosa del genere possa mai capitare a Park Chan-Wook.

 
Ivan Brentari



martedì 12 febbraio 2013

Anima Latina: 7 Days In Havana

'7 days in Havana', da lunes a domingo. 7 registi di varie nazionalità. 7 racconti che per un paio d'ore parlano della storia di Cuba, della sua vita, della sua gioia e dei suoi dolori, del suo cuore tribale, del suo marxismo romantico alla sudamericana. Cantet, vincitore a Cannes qualche anno fa con 'La Classe', Benicio Del Toro in veste di regista, Elia Suleiman, Gaspar Noé, Emir Kusturica interprete di se stesso, sono solo i nomi principali dei grandi cineasti e attori che hanno collaborato a questo progetto. Non tutti gli episodi sono riuscitissimi, bisogna dirlo. Alcuni si fermano alla superficie della Cuba più stereotipata, fatta di belle ragazze, turisti unticci e un po' laidi, case scrostate e orgoglio popolare. Tre episodi, tuttavia, a me sono sembrati particolarmente gradevoli. 'Jam Session' di Pablo Trapero vede un Emir Kusturica nei panni di se stesso, perennemente alticcio e in crisi con la moglie, che atterra a Cuba per ritirare un premio. Emir fa amicizia col proprio autista, un trombettista di qualità eccelsa, e viene portato ad ascoltare una jam session della sua band, che si conclude solo quando il sole del mattino colora di ocra il Mar dei Caraibi. Poi c'è 'Diary Of a Beginner' di Suleiman. Il regista e attore palestinese è protagonista del corto. Sull'isola per un non meglio precisato motivo, Suleiman zompetta da un angolo all'altro della città, osservando con le lenti surrealizzanti dei suoi occhiali la vita e l'amore dei cubani, una realtà così diversa dal peregrinare becero dei turisti cafoni a caccia di belle donne e divertimenti. Bello, poetico e divertente. Infine c'è  'Ritual' di Gaspar Noé. Il cortometraggio è un esempio di Cinema all'ennesima potenza, l'arte delle immagini. Niente dialoghi, solo musica e suoni ossessivi, suggestioni visive, zero stereotipi. Niente salsa, rumba e bocche sorridenti. Tutto inizia con il reggaeton, un ballo che ultimamente ha preso piede a Cuba, ma che le autorità hanno vietato perchè troppo sessista e offensivo nei confronti delle donne. Due ragazze si baciano. I genitori di una delle due scoprono l'omosessualità della figlia e la sottopongono ad un rituale di purificazione, che viene filmato con pochissimi stacchi, in un'ambientazione cupa. L'anima africana di Cuba, fatta di riti ancestrali e superstizioni. Emerge la forza meticcia dell'isola, che è forse una delle ricchezze più grandi del popolo cubano. Questo film ci ricorda di quell'isola minuscola e di quello che ha significato per milioni di persone in tutto il mondo. La piccola bambina, bagnata dal mare, circondata dai giganti, sa guardare ancora al futuro. Ma non dimentica la Rivoluzione.

Ivan Brentari
 


sabato 9 febbraio 2013

Love Pleasures: Blue Valentine

In uscita il 14 febbraio 2013.

'Blue Valentine' è la cronaca di una storia d’amore che tiene lo spettatore in una continua tensione tra incanto e disincanto attraverso un sapiente ed equilibrato uso del flashback. Dean è un ragazzo molto sensibile e romantico, orfano di padre e di madre, che spera di trovare la donna giusta per costruire la famiglia che la vita gli ha negato. Cindy è una giovane bella e brillante e molto intelligente, che spera un amore diverso da quello triste e penoso dei suoi genitori. L’incontro tra i due protagonisti è presentato come un tenero risultato del gioco del destino. I primi passi della loro storia d’amore, creato sulla falsa riga di un sogno, nasce come una di quelle vicende sentimentali che ognuno di noi vorrebbe vivere, piena di magia, gioventù, sesso e romanticismo, in pieno stile americano. Il loro amore sembra non vedere ostacoli: nemmeno la gravidanza indesiderata di lei con un altro uomo sembra scoraggiarli, tant’è che decidono di affrontarla insieme e di sposarsi in un giorno di sole, forti del loro amore romantico e coraggioso e sicuri che tale sentimento li terrà lontani dalle brutture della vita. Ma la narrazione si snoda in un alternarsi continuo e serrato tra le atmosfere trasognate create da questa incantevole e delicata esperienza affettiva e la presentazione di situazioni claustrofobiche, opprimenti, di profonda tensione, violenza ed incomprensione. Lo spettatore viene trascinato in un continua contrazione e distensione del cuore, un gioco crudele che lascia senza fiato e che porta a confondere negli occhi le immagini dei protagonisti, che, spogliati dalle bellezze dell’amore e della giovinezza, vengono presentati in abiti consumati, trasandati, imbruttiti dalla vita e dal tempo che passa. Gli occhi sognanti del romantico Dean, vengono sostituiti da onnipresenti occhiali da sole volti a nascondere un umore depresso e avvilito, mentre quelli di Cindy, che brillavano delle speranze e dei progetti di una giovane studentessa in medicina, si spengono definitivamente messi a contatto con una realtà fatta di delusioni personali e lavorative, e il viso si tende, facendo trapelare un vissuto ansioso che sembra non trovare vie di uscita se non nel panico. Gli occhi quindi non si riconoscono più e lo stesso destino imprigiona i corpi, che, non più belli e deturpati dalla disillusione e da vissuti di insoddisfazione reciproca, si trovano a confrontarsi con orgasmi forzati, mancanza di desiderio e violenza. Una solitudine profonda si propaga in ambienti chiusi, senza finestre, in cui anche la canzone che coronava la bellezza del loro amore, e li faceva ballare e cantare per strada facendoli sentire unici e speciali, risuona un attimo dopo come una melodia distorta ed inquietante, un’allucinazione alcolica che non lascia spazio all’immaginazione. L’amore si trasforma in una prigione asfissiante e la tenerezza che sprigionava libera nella fase di innamoramento viene schiacciata brutalmente da risentimenti soffocati che sfociano nell’abuso. Nonostante il fatto che la dolcezza del loro passato risuoni nell’amore che entrambi riversano, ognuno a suo modo, sulla figlia, la loro situazione non troverà soluzione se non nell’esaurimento ed, infine, nella separazione. Buon San Valentino.

Linda Grazia Pola


mercoledì 6 febbraio 2013

Love Pleasures: Le Regole Dell'Attrazione

E' la serata buona, è la serata buona, è la serata buona, è la serata buona.

Lauren non c'è, è andata via. E' sbronza e si sta facendo fottere. Inizia dalla fine Le regole dell'attrazione di Roger Avary, tratto dal romanzo di Bret Easton Ellis, e termina dopo aver impietosamente illustrato il significato del suo punto di partenza. L'amore c'è, esiste, ma perde. Sbatte la faccia contro il muro delle incomprensioni e del destino; resta umiliato di fronte ai valori dominanti, il sesso e il denaro; viene stravolto dall'autolesionismo a cui l'animo umano va irrimediabilmente incontro; si ridicolizza da sè quando ciò che conta sono le opinioni degli altri, l'immagine, l'apparenza. Sean Bateman è uno spacciatore che anestetizza le emozioni, ma conosce Lauren, appunto, che gli appare, tra i corridoi del college, come un angelo caduto dal cielo. Lauren, però, sta aspettando il ritorno dall'Europa del suo ragazzo Victor, che una volta tornato, frastornato dalle droghe assunte, si sarà completamente dimenticato di lei. Paul Denton, ex ragazzo di Lauren, è un giovane gay dandy in cerca dell'anima gemella e crede di averla trovata in Sean. C'è anche una ragazza, innamorata di Sean e che Sean pensa che sia Lauren, che scrive lettere profumate e, poi, si uccide. Finisce che Sean si scopa Lara, troia prodigio, la migliore amica di Lauren. Ognuno chiude la porta all'altro, sentenziando: "Nessuno conosce nessuno. Mai." Sullo sfondo, tante feste, tanta "roba", tanto alcool. Questo è il quadro. Le regole dell'attrazione è il ritratto, non per forza solo generazionale, di individui psicologicamente distrutti, ossessionati dalla morte e nello stesso tempo drammaticamente attratti da essa, che spingono il più possibile sul pedale dell'autodistruzione. Tutti i protagonisti (tra i 19 e i 25 anni) sono soli, non hanno punti di riferimento, perchè si negano tra di loro o si prevaricano per sovrastarsi e sopraffarsi. I genitori non ci sono, non esistono. Il personaggio centrale Sean Bateman (interpretato dal James Van Der Beek di Dawson's Creek) ha improvvisamente una ri-apertura alla possibilità di un sentimento nel momento in cui si imbatte nella purezza di Lauren; appena viene minimamente respinto, torna nella sua solitudine, nella sua disperazione. D'altronde, attorno a lui non c'è spazio per essere buoni, per far nutrire qualsiasi cosa che sappia di romantico. Perchè l'amore è dei buoni e chi si innamora è perduto. Ma che cosa ci insegna anche un film come Le regole dell'attrazione? Ci insegna che siamo fragili, troppo fragili, tutti. Come i migliori clown, non mancano comunque sequenze divertenti, che collidono meravigliosamente con il tono nichilista. Vorrei concludere scrivendo che, ad ogni modo, da qualche parte pervade un briciolo di speranza, ma non è così. Morale: C'era una volta l'amore ma ho dovuto ammazzarlo.

Emiliano Dal Toso



venerdì 1 febbraio 2013

Retrospective: Judd Apatow

L’universo di Judd Apatow ha un grande filo conduttore: l’amicizia. Sebbene a far parte di questo mondo siano diversi registi e diversi sceneggiatori, tutti sono interessati alla descrizione dei numerosi aspetti che essa rivela. L’analisi di questo tipo di rapporti interpersonali riguarda, però, sempre persone dello stesso sesso. Infatti, se diamo una prima occhiata alla produzione targata Apatow, notiamo che uomini e donne (o, più giovanilisticamente, maschi e femmine) si pongono su due piani distanti, che esprimono una comprensione della realtà, della quotidianità in maniera completamente diversa. L’amicizia è quasi sempre un rifugio, una coperta per ripararsi dal terrore di affrontare le incomprensioni, le conflittualità che possono scaturire da una relazione sentimentale. Un’oasi nella quale poter essere completamente se stessi, senza aver timore di abbandonarsi a regressioni infantili. Un’àncora di salvataggio, che talvolta può dover affrontare mareggiate in grado di mettere a repentaglio la sua stabilità. Perchè anche nell’amicizia, come nell’amore, non mancano quegli aspetti romantici che rendono unico o irripetibile un rapporto ma che possono pregiudicarne la sua consistenza.
40 anni vergine e Molto Incinta (entrambi scritti e diretti dallo stesso Apatow) sono gli esempi dell’approccio più cameratesco e “bamboccione”. Nel primo esilarante film, Steve Carell interpreta il ruolo del commesso di un negozio di elettronica, che arriva alla bellezza di 40 anni senza aver mai avuto un rapporto sessuale. D’altronde, è sempre stato troppo interessato a dipingere soldatini o a giocare ai videogame. Dopo aver involontariamente confessato la sua verginità, i suoi colleghi si adoperano in tutti i modi possibili per procurargli una donna. Ed è soltanto nel momento degli insegnamenti e dei consigli finalizzati al “rimorchio” che tra il protagonista Andy e i suoi colleghi si instaura una relazione umana, e non più soltanto professionale. Per Andy i suoi colleghi diventano una bussola, un punto di riferimento e, a sua volta, egli diventa uno di loro, un amico su cui poter contare. Nel secondo, invece, la lente di ingrandimento è immediatamente posta su un gruppo di coinquilini nullafacenti, cannaioli e perdigiorno, che hanno come unica attività lavorativa la gestione di un sito che segnala i minuti e i secondi dei film in cui un’attrice mostra le proprie parti intime. Quando il ventiquattrenne Ben riceve la notizia che una ragazza con la quale ha trascorso una notte di passione (soprattutto alcolica) è rimasta incinta, gli amici si riveleranno un’ottima spalla su cui appoggiarsi e grazie alla quale poter “ridimensionare” l’accaduto. Anche in questo caso, l’amicizia è una comunità, una confraternita nella quale la goliardia va di pari passo con la solidarietà.
Per quanto riguarda Strafumati di David Gordon Green e In viaggio con una rockstar di Nicholas Stoller si può parlare, a tutti gli effetti, di bromantic comedy. L’amicizia viene descritta come un rapporto a due, che attraversa momenti di grandiosa condivisione e altri di drammatica crisi. Sia Green che Stoller partono da una situazione di convivenza forzata e sviluppano le dinamiche narrative concentrandosi sul graduale e sempre più intenso attaccamento che un protagonista prova nei confronti dell’altro. L’aspetto più interessante è che si tratta di personaggi che, in partenza, non potrebbero apparire più lontani. In Strafumati, Seth Rogen è un “operatore” giudiziario, costretto dal lavoro a spostarsi in continuazione, mentre James Franco è un pusher che trascorre le giornate in casa a fumare e a guardare la televisione. In viaggio con una rockstar, invece, racconta del viaggio da Londra a Los Angeles del talent scout Aaron Green, pragmatico e puntuale, per scortare il musicista Aldous Snow, eccentrico e imprevedibile, impedendogli di perdersi tra droghe e litri di vodka, e garantire la sua presenza sul palco del Greek Theatre. In questi due casi, l’amicizia maschile è una vera e propria relazione sentimentale tra due eterosessuali, caratterizzata da fedeltà e gelosie, ripicche e riconciliazione. Anche nell’ottimo Forgetting Sarah Marshall, l’esordio di Stoller, è possibile riconoscere questa concezione dell’amicizia, che si verifica, in modo particolare, nel momento in cui i due personaggi principali, interpretati da Jason Segel e da Russell Brand, solidarizzano e sfogano le loro frustrazioni, malgrado il secondo sia il nuovo fidanzato della ex del primo. Come a ribadire, nuovamente, che lo scontro tra i due sessi veda indubbiamente la femmina in una posizione dominante, mentre al maschio non resta altro che cercare consolazione in un suo simile.
Arriviamo, ora, ai lungometraggi in assoluto più importanti del cinema di Apatow. Non credo sia inadeguato definire Superbad di Greg Mottola un autentico capolavoro del genere demenziale. L’adolescenza è lo specchio di un’esistenza in cui la trivialità è l’anticamera della sensibilità e delle prime difficoltà della vita. Il linguaggio utilizzato dai due protagonisti Seth e Evan (che non sono altro che i nomi degli sceneggiatori, Rogen e Goldberg) è un codice per riconoscersi, per condividersi e per proteggersi. Entrambi sono geeks, messi ai margini dal loro status sociale. Hanno la possibilità di riscattarsi quando il loro compagno Vogel, un vero disadattato, si procura una carta di identità falsa e, col nome di McLovin, si propone di comprare degli alcolici da portare a una festa organizzata della bellissima Jules. Indimenticabile il finale, quando i due amici fraterni si separano per accompagnare le ragazze che hanno sempre desiderato a fare shopping, seppur tentennanti e timorosi di spezzare il legame indissolubile che li unisce. Agli antipodi, si posiziona Funny People, il terzo film da regista di Judd Apatow. Per la prima volta, i valori dell’amicizia vengono traditi o messi in discussione. Adam Sandler interpreta uno spigoloso attore di successo, che scopre di essere malato di leucemia. Assume Ira, giovane aspirante comico, per scrivergli quelli che crede siano i suoi ultimi testi. A differenza di tutte le altre opere “apatowiane”, il rapporto tra i due non prende mai il volo, anzi è sempre trattenuto, ostacolato da un sottile senso di invidia, costantemente percepibile. E anche i coinquilini di Ira non sono più i simpatici “cazzoni” di Molto incinta ma sfidanti con i quali sentirsi in continua competizione. Può darsi che Funny People rimanga una parantesi nella celebrazione del mito dell’amicizia maschile del cinema di Apatow, ma potrebbe trattarsi anche di una spiazzante svolta, che viene in parte confermata da Le amiche della sposa di Paul Feig, seppur a sfondo femminile. La protagonista Annie viene nominata damigella d’onore per il matrimonio dalla sua migliore amica Lilian, ma le sue certezze cominciano a traballare quando fa la conoscenza di Helen, nuova amica di Lilian, completamente diversa da lei. Annie è imbranata e autoironica, mentre Lilian è perfettina, ricca, bella e pignola. Di nuovo, torna il tema della gelosia nei rapporti di amicizia e, anche se il film è destinato a un rassicurante happy end, rimangono nella memoria le esplosioni di isteria di Annie, delusa dagli uomini e preoccupata di perdere l’esclusività del rapporto con la sua amica del cuore.

Judd Apatow ha rivoluzionato il modo di scrivere e di concepire film comici. Tutti i lavori da lui sceneggiati, diretti o prodotti non hanno come punto di forza le gags o la brillantezza delle battute. Il punto di forza sono i suoi personaggi e le loro caratterizzazioni, la loro credibilità, la loro umanità. Personaggi semplici, che non sono mai eccessivamente forzati, stereotipati nè marcatamente grotteschi. Mi sembra che al centro di questo percorso ci sia il desiderio di “ridimensionare” i problemi della vita (proprio come i personaggi di Molto incinta) per evidenziarne gli aspetti più patetici, teneri e ingenui. Non credo che tutto ciò si sarebbe potuto realizzare se Apatow non si fosse circondato di un fenomenale gruppo di comici (e attori brillanti), affiatato come se si trattasse di una compagnia teatrale consolidata da decenni. Tutti questi attori si danno il turno, interpretando, di volta in volta, il ruolo del protagonista o quello del caratterista. Non posso evitare di citarne almeno quattro: Jason Segel, anche sceneggiatore, volto da gigante buono e stralunato; Jonah Hill, trascinante anti-eroe romantico e sboccato; Paul Rudd, eterno bravo ragazzo dallo sguardo sognatore e malinconico; Seth Rogen, anche lui sceneggiatore, magnifico loser, goffo e generoso, genio comico indiscusso.

Emiliano Dal Toso