domenica 25 settembre 2011

La Pelle Che Abito (voto 2)

Mi trovo in grandissima difficoltà nel parlare di questo film, dal momento che si tratta dell'ultimo lavoro di quello che è il regista che ha cominciato a farmi amare il cinema, a viverlo non più soltanto come esperienza di intrattenimento ma come esperienza di crescita, umana, coinvolgente, indelebile. Era il 1999 e avevo 12 anni quando andai a vedere prima 'Tutto su mia madre' e poco dopo 'L'estate di Kikujiro' del maestro Takeshi Kitano. Così come l'ascolto di 'Nevermind' per la prima volta a 14 anni fece cambiare il mio approccio alla musica (alla vita?), quelle due visioni le considero uno spartiacque decisivo per il mio avvicinamento al mondo del cinema. Sarò per sempre riconoscente a Takeshi e a Pedro Almodovar (così come a Kurt Cobain). Ciò non toglie che 'La pelle che abito' sia una enorme, gigantesca cacata. Per evitare di lasciarmi prendere dall'impulsività e dal sarcasmo nei confronti di qualcosa che, perennemente, per centodiciassette minuti si caratterizza per ridicolo involontario, preferisco riportare pezzi delle recensioni di due critici autorevolissimi come Paolo Mereghetti e Boris Sollazzo, senz'altro più esperti, razionali e "giusti" nel giudicare un'opera che resta, comunque, farina del sacco di un genio assoluto. Il buon Merego scrive: "Non fosse di Almodòvar ma di un esordiente qualunque, si sarebbe tentati di liquidarlo in due parole...Quei colpi di scena che il regista ha reso famosi e che erano capaci di ribaltare completamente la struttura dei suoi film, qui finiscono per diventare semplici accidenti narrativi, incapaci di aumentare la temperatura emotiva della storia...In passato Almodovar aveva popolato i suoi film di personaggi ai limiti del folclore, colorati e sorprendenti, che però rispondevano a una logica precisa: distruggevano le convenzioni borghesi dello spettatore per trascinarlo in un mondo tutto da scoprire, dove le regole del buon gusto e della compostezza svanivano come per incanto. Anche qui, il protagonista Robert Ledgard agisce secondo una logica non convenzionale - vuole realizzare la più feroce delle vendette - ma il regista non sta mai dalla sua parte o da quella delle sue vittime (e di conseguenza nemmeno lo spettatore può farlo): la macchina da presa si limita a riprendere tutto senza farsi mai coinvolgere, fredda e razionale." L'ottimo Sollazzo, invece, va giù più pesante: "Pedro si butta sul thriller melodrammatico e rifà, male, se stesso. Con poca autoironia, si è rinchiuso nel genere quando prima ne sfondava i confini, usa se stesso come un feticcio e il proprio cinema come un puzzle da rimontare diversamente ma sempre con gli stessi tasselli...Il taglia e cuci del protagonista è quello di Pedro: inutile, estetizzante, ostinato." Note positive: la protagonista Elena Anaya è molto bella e Marisa Paredes mantiene intatta la sua eleganza. Per concludere, non mi fa dispiacere citare alcuni dei tanti capolavori del grande autore spagnolo: 'Matador', 'Donne sull'orlo di una crisi di nervi', 'Legami!', 'Tacchi a spillo', 'Il fiore del mio segreto', 'Carne Tremula', 'Tutto su mia madre', 'Parla con lei', 'La Mala Educacion', 'Volver'. Se avete voglia di Cinema che sia sensuale, ironico, passionale, commovente state a casa e recuperate i suddetti senza perdervi in un capriccio citazionista, autoreferenziale o, forse, solo più semplicemente brutto.

venerdì 23 settembre 2011

Venezia 2011 - Seconda Parte: Killer Joe, 4:44 Last Day On Earth, A Dangerous Method, Shame

A parte il folle Leone D'Oro 'Faust', devo dire che la solita settembrina rassegna milanese dei film di Venezia ha arricchito il mio bagaglio cinematografico quantitativamente e qualitativamente e spero possa arricchire pure il vostro se seguirete le mie, preziose, indicazioni. Il poker di film di cui parlerò si divide tra un paio di opere interessanti ma incompiute e un altro paio di fondamentali visioni che, sono pronto a scommettere, diventeranno due dei film più rappresentativi del periodo storico che stiamo vivendo. William Friedkin e Abel Ferrara sono senz'altro due autori che non hanno bisogno di presentazioni. Per quanto il loro approccio sia diversissimo e i loro mondi siano lontanissimi, entrambi hanno proposto una sorta di sintesi della loro filosofia, lasciando ampio spazio alla loro ideologia cinematografica senza alcun filtro che fosse finalizzato ad "aggiustare" il tiro. Infatti, sia 'Killer Joe' (voto 7) che '4:44 Last Day On Earth' (voto 6) hanno nella genuinità e nella assoluta trasparenza il loro maggior pregio. Da una parte Friedkin si lascia andare a un puro divertissement, un intreccio pulp godibilissimo che ha nella sporca, ignorante, violenta provincia americana il suo assoluto protagonista. Non essendo certo un moralista ma non avendo neanche la profondità umana e la poetica dei fratelli Coen, Friedkin si limita a una tarantinata di pregevole fattura, condita da un sorprendente McConaughey e da un paio di sequenze certamente indimenticabili. Puro cinema d'intrattenimento, dunque, lontano dall'approccio politico, discutibile ma vivissimo di film senz'altro da recuperare come 'Regole d'onore' e 'The Hunted'. Ferrara, invece, estremizza il suo cinema riducendo all'osso lo sviluppo narrativo e abbandonandosi alle sue ispirazioni tossico-esistenzialiste. Se non si conoscesse la storia e la filosofia del suo autore, '4.44 Last Day On Earth' sarebbe un film poco sopportabile. L'attesa della fine del mondo da parte di una coppia è, infatti, un pretesto per concentrarsi su una riflessione sull'estetica del cinema e sulla sua essenzialità. Per quanto sgangherato, il film acquista così una sua piacevolezza sempre che non venga rifiutata a priori la politica volutamente anti-intellettualistica di Abel Ferrara. Passiamo, ora, ai lavori più importanti passati a Venezia visti fino adesso. 'A dangerous method' (voto 8) di David Cronenberg è un altro tassello del regista diretto a estrapolare il lato oscuro, il mostro che vive dentro di noi. E lo fa con un cinema classico e innovativo allo stesso tempo, chirurgico e coinvolgente. Rigoroso nella riproposizione dei fatti accaduti, le conflittualità Jung/Freud e Jung/Sabina Spielrein sono la riproposizione dei più classici temi legati all'ossessione e alla scoperta della sessualità, in chiave non solo psicoanalitica ma soprattutto carnale. Non solo, Cronenberg pone l'asticella sul piano della distanza tra sè e il proprio lavoro portando a riflettere sull'impossibilità di rinunciare a scegliere tra il proprio coinvolgimento emotivo e la propria ambizione. Attori magnifici rendono del tutto riuscita l'operazione di un regista che pare non voglia porsi limiti sulla funzione di ricerca del cinema. Il sesso distorto, deviato, malato è la tematica principale di 'Shame' (voto 9) di Steve McQueen, il mio personale Leone D'Oro. Un film notturno, costruito come un trip infernale nel vuoto pneumatico della solitudine e del senso di colpa. Lo straordinario Fassbender (premiato con la Coppa Volpi) è Brandon Sullivan, professionista affermato incapace di vivere la propria sessualità se non attraverso rapporti occasionali e prestazioni a pagamento (si accenna anche a tentazioni incestuose). La sempre meravigliosa Carey Mulligan (in questo momento l'attrice numero uno, pochicazzi) è la sorella dalle tendenze autodistruttive che cercherà di avvicinarglisi forse per aiutarlo, forse perchè anche lei bisognosa di un'àncora per non affondare. Alla sua seconda prova, McQueen si rivela un vero fenomeno soprattutto per la capacità di contrapporre un disagio privato a una realtà urbana priva di alternative. Da un ottica prettamente maschile, 'Shame' riesce laddove il single man di Tom Ford aveva fallito: raccontare l'uomo solo, senza via d'uscita. Un pugno nello stomaco, che non cede a soluzioni concilianti, intriso di uno spleen drammatico ed epico, a metà strada tra Martin Scorsese e Spike Lee.




Michael Fassbender e Carey Mulligan in Shame

sabato 17 settembre 2011

Venezia 2011 - Prima Parte: L'ultimo terreste, Carnage, Faust

Anche questa volta mi sono lasciato coinvolgere dalla rassegna milanese dei film veneziani e dopo la prima tranche posso dire di essere moderatamente soddisfatto. Il primo film di cui parlerò è 'L'ultimo terrestre' (voto 7), debutto alla regia del fumettista Gian Alfonso Pacinotti, in arte Gipi. Il protagonista Luca Bertacci è un semplice cameriere di una sala bingo, un uomo con grandi difficoltà di relazione e con un grande senso di inadeguatezza nei confronti delle donne. Un alienato ma, attenzione, non uno sconfitto. La venuta dei "marziani" lo porterà a conoscere la causa della sua chiusura esistenziale. Parte in maniera folgorante il film di Pacinotti. Sin dai titoli di testa e dalla prima scena, pervade una vena surreale, grottesca e poetica. Un personaggio, quello di Bertacci, descritto con grande sensibilità e forza tragicomica, interpretato eccellentemente dall'esordiente Gabriele Spinelli. Purtroppo, la mano leggera, fantasiosa della prima parte si appesantisce di slanci narrativi piuttosto sgradevoli, a cominciare dalla sequenza che si conclude nell'aggressione all'amico travestito di Bertacci. Come se Pacinotti, a un certo punto, avesse avuto timore di mantenere un tono indefinito ma originalissimo, a metà tra fantascienza, humour e storia d'amore e avesse preferito rifugiarsi in un racconto nel quale la necessità di una morale prevale sulla bellezza di un semplice sguardo beffardo e disilluso. E così anche l'ottima caratterizzazione di tutti i personaggi (stupendi Herlitzka e Teco Celio) rimane sacrificata in nome di una discutibile logica per la quale l'importanza del messaggio deve vincere sulla solidità della superficie. La seconda visione è 'Carnage' (voto 7) del maestro Roman Polanski. L'unico set è il salotto di una delle due coppie di genitori, teorico luogo di riconciliazione borghese nel quale ci si vorrebbe cortesemente chiarire in modo civile in seguito al litigio dei rispettivi figli, scaturitosi nel ferimento di uno dei due. Una battuta fuori luogo, una punzecchiatura troppo appuntita, qualche incomprensione portano poco a poco a esplodere in un vero e proprio massacro verbale, nel quale il gioco delle alleanze fa sì che gli schieramenti siano continuamente mescolati. La sfida di Polanski è vincente, soprattutto, per evitare il rischio di eccesso di teatralizzazione e per vivificare ogni scena, ogni passaggio di una regia piena di intuizioni. Niente è lasciato al caso, ogni piccolo dettaglio è frutto di una ricca ma equilibrata, consapevole abilità registica. 'Carnage' non sarebbe così convincente, però, se non fosse sorretto da un quartetto d'attori semplicemente strepitoso. La Foster e la Winslet sono impeccabili ma la coppia maschile Reilly-Waltz regala due personaggi meravigliosamente mediocri. La loro presenza-assenza fa pensare che forse il vero bersaglio di 'Carnage' sia quell'eterno, immortale contrasto tra genere maschile e genere femminile, due universi non conciliabili che nessun contesto socio-culturale potrà mai riuscire ad avvicinare. Infine, il Leone D'Oro 'Faust' (voto 4). Una lenta agonia di due ore e un quarto, poco interessante sotto tutti i punti di vista. Lo stile di Sokurov vorrebbe essere originale ma è solo un pretesto per raccontare male una storia sulla carta entusiasmante ma che il regista riesce a rendere piatta e senza emozioni. Il fatto che un grande come Aronofsky abbia scelto di premiarlo, tutto sommato, non mi sorprende dal momento che la ricerca della forza immaginifica è sempre stata l'esigenza primaria per il buon Darren. Peccato che gli incubi e le visioni di Sokurov non riescano mai a coinvolgere e a entrare sottopelle.



Lo strepitoso Gabriele Spinelli ne L'ultimo Terrestre

giovedì 8 settembre 2011

Questa Storia Qua (voto 7)

Ad un intervistatore che gli chiede com'è la vita da rockstar, Vasco Rossi risponde: "Eh sì, bella vita". Dopo pochi istanti, mentre il buon Vasco sorseggia un bicchiere di whisky, lo stesso intervistatore continua: "Possiamo dire che la vita da rockstar non è poi così bella come dicono?". E Vasco: "Assolutamente no, non è bella! Conosci gente, fai delle cose che...ci sono i pro e contro." Vasco è amato anche per questo. Un personaggio senza maschere, capace di contraddirsi immediatamente, istintivo e sincero. Sempre. 'Questa storia qua' di Righetti e Paris è un documentario onesto che non mette al centro Vasco ma la sua terra, le persone che ha avuto intorno negli anni della sua giovinezza, prima che diventasse tutto quello che poi è diventato. Non ci sono rivelazioni sconvolgenti, diverse fasi della carriera sono del tutto ignorate ma l'umiltà con la quale i due fan-cineasti si sono avvicinati al progetto prevale su qualsiasi altra considerazione. Vasco è presente con la sua voce fuoricampo e con le canzoni, per il resto viene lasciato ampio spazio all'indagine antropologica di Zocca, provincia, Italia. Ed è questa la chiave di lettura che può interessare a tutti coloro che non amano Vasco Rossi. La scommessa vinta da 'Questa storia qua', infatti, è testimoniare un buon pezzo di italiani d'Italia che se non riuscirà a realizzare il sogno di diventare un cantante famoso preferirà fare il contadino o il camionista piuttosto che l'impiegato perchè è uno spirito libero. Quella stessa Italia che ha un'idea di Modena esattamente come ha quella di Los Angeles perchè tanto non è mai andata via da Zocca. Quella Italia che ama Vasco Rossi perchè è la coscienza dell'incoscienza, la spiegazione dell'inspiegabile. Probabilmente, esistono milioni di motivi per non apprezzare Vasco Rossi. Tutti molto poco interessanti. Vasco Rossi è come il calcio, capace di conquistare in modo trasversale qualsiasi italiano di qualsiasi estrazione sociale. Destra, sinistra, nord, sud, centro. 'Questa storia qua' poteva celebrare l'artista maledetto nelle sue salse trasgressive e piccanti e, invece, non fa altro che mostrare da dove provengano le canzoni che sono la colonna sonora delle nostre vite. Perchè, anche chi lo rifiuta ha senz'altro un amico, un figlio, una donna, un collega che con quelle canzoni ha vissuto una vita e la sta ancora vivendo.

lunedì 5 settembre 2011

Ruggine (voto 8) IL FILM DEL MESE

Sono rimasto molto perplesso, per non dire incazzato, dopo aver letto pareri non del tutto positivi o vere e proprie stroncature sull'ultimo film di Daniele Gaglianone 'Ruggine'. Il film viene accusato di non essere coinvolgente a causa di un piano narrativo poco comprensibile, fuori dagli schemi ordinari. E chissenefrega. Così come nel meraviglioso 'La solitudine dei numeri primi' di Saverio Costanzo, Gaglianone sceglie di dare un'impronta molto autentica e personale all'adattamento cinematografico del romanzo di Stefano Massaron. Rispetto ai precedenti lavori (osannati e poco visti, 'Pietro' è senz'altro da recuperare), il regista anconetano può fornire di un cast davvero eccezionale (Timi, Accorsi, Mastandrea e Solarino sono tra i nomi migliori del cinema italiano) e di una confezione impeccabile, dalla fotografia alla colonna sonora. Il problema è che Gaglianone non ha percorso la strada rassicurante del racconto nazional-popolare con i buoni da una parte e i cattivi dall'altra. La macchina da presa ad altezza di bambino viene posta in funzione di penetrare all'interno dei personaggi, a distanza di anni ancora graffiati, "arrugginiti" dai ricordi di un passato traumatico e indelebile. I continui sbalzi temporali sono maneggiati con grandissima abilità narrativa. Sorprende, poi, l'intelligenza con la quale viene utilizzato ogni aspetto tecnico al fine di trasmettere uno stato d'animo preciso, dall'inquietudine alla rassegnazione. Se il personaggio adulto di Valerio Mastandrea è eccessivamente stilizzato, sono molto equilibrate le caratterizzazioni di Accorsi e della Solarino ed è sottile ma chiaro il "segno" che la loro infanzia ha lasciato sul loro percorso. A ricevere la standing ovation, però, è Filippo Timi nei panni dell'Orco, del "Drago Nero", il dottore deviato e malato, orrore e follia. Un personaggio difficilissimo e sgradevole a cui l'attore si dedica con grande coraggio e dedizione. 'Ruggine' non è certamente un film perfetto: tutta la vicenda inerente al personaggio di Mastandrea è poco lucida e la scena finale in metropolitana è alquanto gratuita. Eppure, preferisco un film incostante, imperfetto, che alterna noia ed entusiasmo (questa è la vita e il cinema ne è lo specchio) a opere perfettamente prevedibili, telefonate e presuntuose. Da una parte abbiamo Saverio Costanzo e Daniele Gaglianone che propongono un cinema sporco di visioni e di emozioni, dall'altra abbiamo corpoceleste e susannebier che vince l'oscar con la loro lezioncina retorica che tutti amano sentirsi ripetere da trent'anni. A voi la scelta.