A parte il folle Leone D'Oro 'Faust', devo dire che la solita settembrina rassegna milanese dei film di Venezia ha arricchito il mio bagaglio cinematografico quantitativamente e qualitativamente e spero possa arricchire pure il vostro se seguirete le mie, preziose, indicazioni. Il poker di film di cui parlerò si divide tra un paio di opere interessanti ma incompiute e un altro paio di fondamentali visioni che, sono pronto a scommettere, diventeranno due dei film più rappresentativi del periodo storico che stiamo vivendo. William Friedkin e Abel Ferrara sono senz'altro due autori che non hanno bisogno di presentazioni. Per quanto il loro approccio sia diversissimo e i loro mondi siano lontanissimi, entrambi hanno proposto una sorta di sintesi della loro filosofia, lasciando ampio spazio alla loro ideologia cinematografica senza alcun filtro che fosse finalizzato ad "aggiustare" il tiro. Infatti, sia 'Killer Joe' (voto 7) che '4:44 Last Day On Earth' (voto 6) hanno nella genuinità e nella assoluta trasparenza il loro maggior pregio. Da una parte Friedkin si lascia andare a un puro divertissement, un intreccio pulp godibilissimo che ha nella sporca, ignorante, violenta provincia americana il suo assoluto protagonista. Non essendo certo un moralista ma non avendo neanche la profondità umana e la poetica dei fratelli Coen, Friedkin si limita a una tarantinata di pregevole fattura, condita da un sorprendente McConaughey e da un paio di sequenze certamente indimenticabili. Puro cinema d'intrattenimento, dunque, lontano dall'approccio politico, discutibile ma vivissimo di film senz'altro da recuperare come 'Regole d'onore' e 'The Hunted'. Ferrara, invece, estremizza il suo cinema riducendo all'osso lo sviluppo narrativo e abbandonandosi alle sue ispirazioni tossico-esistenzialiste. Se non si conoscesse la storia e la filosofia del suo autore, '4.44 Last Day On Earth' sarebbe un film poco sopportabile. L'attesa della fine del mondo da parte di una coppia è, infatti, un pretesto per concentrarsi su una riflessione sull'estetica del cinema e sulla sua essenzialità. Per quanto sgangherato, il film acquista così una sua piacevolezza sempre che non venga rifiutata a priori la politica volutamente anti-intellettualistica di Abel Ferrara. Passiamo, ora, ai lavori più importanti passati a Venezia visti fino adesso. 'A dangerous method' (voto 8) di David Cronenberg è un altro tassello del regista diretto a estrapolare il lato oscuro, il mostro che vive dentro di noi. E lo fa con un cinema classico e innovativo allo stesso tempo, chirurgico e coinvolgente. Rigoroso nella riproposizione dei fatti accaduti, le conflittualità Jung/Freud e Jung/Sabina Spielrein sono la riproposizione dei più classici temi legati all'ossessione e alla scoperta della sessualità, in chiave non solo psicoanalitica ma soprattutto carnale. Non solo, Cronenberg pone l'asticella sul piano della distanza tra sè e il proprio lavoro portando a riflettere sull'impossibilità di rinunciare a scegliere tra il proprio coinvolgimento emotivo e la propria ambizione. Attori magnifici rendono del tutto riuscita l'operazione di un regista che pare non voglia porsi limiti sulla funzione di ricerca del cinema. Il sesso distorto, deviato, malato è la tematica principale di 'Shame' (voto 9) di Steve McQueen, il mio personale Leone D'Oro. Un film notturno, costruito come un trip infernale nel vuoto pneumatico della solitudine e del senso di colpa. Lo straordinario Fassbender (premiato con la Coppa Volpi) è Brandon Sullivan, professionista affermato incapace di vivere la propria sessualità se non attraverso rapporti occasionali e prestazioni a pagamento (si accenna anche a tentazioni incestuose). La sempre meravigliosa Carey Mulligan (in questo momento l'attrice numero uno, pochicazzi) è la sorella dalle tendenze autodistruttive che cercherà di avvicinarglisi forse per aiutarlo, forse perchè anche lei bisognosa di un'àncora per non affondare. Alla sua seconda prova, McQueen si rivela un vero fenomeno soprattutto per la capacità di contrapporre un disagio privato a una realtà urbana priva di alternative. Da un ottica prettamente maschile, 'Shame' riesce laddove il single man di Tom Ford aveva fallito: raccontare l'uomo solo, senza via d'uscita. Un pugno nello stomaco, che non cede a soluzioni concilianti, intriso di uno spleen drammatico ed epico, a metà strada tra Martin Scorsese e Spike Lee.
Michael Fassbender e Carey Mulligan in Shame
Michael Fassbender e Carey Mulligan in Shame
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