In questa intervista del 1962
(Elio Petri vorrebbe rifare il suo film “I giorni contati”, “l’Unità”, 10
aprile 1962) Petri parla della sua
seconda opera, ma il film è solo un punto di partenza per riflessioni più
generali sul cinema, sul rapporto attore-regista, sul processo creativo, sul
ruolo dei produttori.
“… infatti io non
tendo all’astratto, in nessun campo.”
Puoi darci qualche indicazione
sul retroterra culturale di questo tuo secondo film, I giorni contati?
C’è un sonetto del Belli che incomincia così: “Nun vojo lavorà: cosa
ve dole?/Pe sta vita nun me ce sento nato./Nun vojo lavorà: me so spiegato./O
bisogna spregacce antre parole?”. Io sono interessato a certi abbandoni degli
uomini, ad alcuni loro moti sotterranei, subnervosi, soprattutto quelli che si
producono in relazione a determinati condizionamenti storici. Vorrei che l’esistenzialismo
toccasse terra, e Sartre ha dato a tutti delle indicazioni eccezionalmente
importanti. Poi mi piacciono i vecchi, poiché il loro contatto con la morte
(con la vita, quindi) è diretto, corporeo. A un falegname di Cattolica, che da
tanti anni vive a Roma, Tonino Guerra ed io domandammo se non sentisse la
nostalgia del suo paese. L’uomo aveva una sessantina d’anni, e in mezzo alle
sue rughe s’aprivano gli occhi azzurri come quelli di un bambino. “Ci tornerò
per morire”, rispose ed abbassò lo sguardo per nasconderci le lagrime. Mio padre,
ogni tanto, pianta degli alberi. Una volta, dopo aver lavorato attorno ad un piccolo
pino un’intera mattinata, mi disse: “Questo lo vedrai crescere tu”, ed era
molto sereno. Non è anche questo un background culturale, per un film semplice
come I giorni contati?
C’è spesso nel lavoro di un
artista un divario tra intenzioni e risultati, tra il traguardo di partenza e
quello d’arrivo. Data la particolare natura del film I giorni contati, ci puoi dire se questo divario esiste e
quale sia?
Se fosse per me rifarei completamente I giorni contati: ne sarei
trattenuto soltanto dall’idea che probabilmente non verrebbe meglio di com’è, e
preferisco, quindi, passare immediatamente a un altro progetto. La faccenda del
divario è abbastanza complessa. Uno parte con un’idea precisa, ma siamo ancora
sospesi a un’astrazione. A mano a mano quell’idea, realizzando il film, si
chiarisce nella forma, e si critica da sé: e questo risulta chiaro davanti alla
tua coscienza, se ne hai, o se non sei cieco d’orgoglio. Infine, quando tutto è
fatto, e l’idea s’è rivelata compiutamente, tu vorresti che il film fosse un
altro, poiché solo a quel punto vedi chiaro. Per spiegarmi, mi viene in mente
un gioco di parole piuttosto confuso, ma voglio provare a scriverlo. Vorresti,
insomma, un altro film da quello che è, e non il film che avresti voluto che
fosse all’inizio. Soprattutto nel caso di film girati in modo libero e non
incatenati a una formula da laboratorio. Nel caso specifico, io avrei voluto
raccontare meglio e con maggior precisione (e anche maggior calore) i rapporti
tra il protagonista e suo figlio: far capire meglio, cioè, che malgrado uno
abbia famiglia, a cinquant’anni può sentirsi egualmente solo, sperduto nel
proprio passato e inquieto del proprio futuro; e come gli affetti familiari
siano distratti e puramente organizzativi. Ma raccontare meglio questo
rapporto, che merita un film a parte, avrebbe potuto modificare radicalmente la
storia che Guerra ed io volevamo raccontare. Mi sono contentato di suggerire un
tema.
Tra L’assassino, tua opera prima, e I giorni contati, c’è un evidente stacco che riguarda in
modo particolare il linguaggio, dalla sceneggiatura al montaggio. Questa
differenza indica una direzione di cammino, da sviluppare in avvenire, oppure è
soltanto un esperimento isolato in stretta dipendenza dal tema scelto?
Nel primo film era già indicata una certa ricerca, una certa voglia di
rompere i tempi, di rubare il tempo, di gettare via gli sfrasi, o di descrivere
solo gli sfrasi. Mi pare, almeno. Io vorrei continuare su questa strada, ma
senza ricorrere a uno schema prefabbricato. Le regole del vecchio cinema mostrano
la corda, soprattutto perché, come ogni forma di schematismo, raffrenano la
spinta dell’invenzione. Voler a tutti i costi dettare nuove regole, o anti-regole,
che è lo stesso, significa tornare al punto di partenza. I temi, poi,
suggeriscono lo stile: alcune volte, ed è il caso del mio secondo film, lo
impongono. Bisogna ascoltare i temi ed impostare per ciascuno uno stile, mi
pare ovvio.
Qual è stato il contributo di
Salvo Randone al tuo film? È stato un semplice esecutore?
I grandi attori sono sempre i più disciplinati, se aderiscono al
personaggio che sono chiamati a interpretare. Randone aderì immediatamente al
personaggio di Cesare. Fu, quindi, disciplinatissimo: come, del resto, ne L’assassino. Questo non significa che
Randone sia stato un semplice esecutore, poiché il suo metodo di lavoro (e il
mio, del resto) è quello di sottoporre sempre ad una critica personaggi e
situazioni: di questo suo conflitto egli si serve per l’invenzione. Abbiamo
lavorato bene insieme: non c’è gesto di Randone, nel film, che non sia nato da
uno studio comune. Un’altra regola dei grandi attori? Si abbandonano
serenamente al regista, non tendono a contrapporre alla sua interpretazione una
loro interpretazione, posto che essi aderiscano al suo mondo, e che il regista
aderisca al loro. Vi sono registi che considerano gli attori come oggetti
inerti: e ottengono risultati straordinari. La loro concezione non è casuale,
naturalmente, ma risponde a una più vasta concezione del mondo: tant’è vero che
i loro risultati tendono all’astrazione anche da un lato poetico. Io non so che
risultati ottengo, probabilmente modesti, ma considero gli attori, insieme con
gli sceneggiatori, i più diretti e importanti collaboratori di un regista,
infatti io non tendo all’astratto, in nessun campo.
I giorni contati si può inserire
in quel gruppo di opere che in questi anni hanno tentato un rinnovamento del
linguaggio cinematografico. Puoi dirci quali sono stati gli autori che, più o
meno direttamente, ti hanno influenzato?
Non so se I giorni contati,
come dici tu, “si può inserire in quel gruppo di opere che in questi anni hanno
tentato un rinnovamento del linguaggio cinematografico”. Magari fosse così. Di
sicuro so che fin dalla sceneggiatura del mio primo film, e fino al montaggio
del secondo, ho sentito l’esigenza di rompere con la convenzione. Riuscirci è
molto difficile, poiché la convenzione ci intride, e limita molto la nostra
libertà di volere senza che ce ne accorgiamo. La nouvelle vague ci ha aiutato (…) a liberarci del complesso della
macchina da presa: ha rotto molti schemi, ne ha rivelato la fragile vecchiezza.
In questo senso Resnais e Godard, soprattutto loro, sono stati importantissimi.
Ma il loro vivere nel mito di se stessi e filmare nel mito e avvolgersi di
letteratura non è un insegnamento. Resta Rossellini, che per primo fece dei
film con un linguaggio avanzato, prima dei suoi allievi francesi. E Fellini che
ha spinto all’autobiografismo. E Antonioni, con la sua attenzione per la
coscienza dei personaggi e per le loro scelte. De Santis mi insegnò a dare una
struttura a uno scenario, e a volere cocciutamente che i film non fossero
giochi inutili, divertimenti privati, ma
in qualche modo partecipi della vita e delle aspirazioni dei nostri
contemporanei.
In Italia stiamo assistendo a un
interessante, complesso e contraddittorio fenomeno: un’ansia di rinnovamento
che cerca di sfogarsi e di realizzarsi nell’ambito del cinema industriale, nel
quadro della produzione ufficiale. Quali sono, a tuo avviso, le prospettive?
Il fenomeno è positivo, senza dubbio. Il pericolo è che i produttori
si pieghino a questa ansia di rinnovamento solo per seguire una moda, un
dettame snobistico, e non perché intimamente aderiscano ai suoi risultati, ai
suoi scopi. Le sue prospettive sono molto legate all’esito commerciale dei film
che nascono su basi non commerciali. Io non sono molto ottimista: se questi
film andranno male, se cioè il pubblico non li appoggerà concretamente, i
produttori torneranno sui loro passi, e non so nemmeno se giudicarli troppo
severamente, dal momento che gli scopi che essi si propongono sono diversi dai
nostri. Il loro mestiere, infatti, è quello di far danaro, con i mezzi che si
sono scelti, cioè con i film: se i film di qualità o di idee, o di problemi,
come preferite, hanno la tendenza a incassare (…) allora essi faranno il loro mestiere
con maggiore soddisfazione, se sono intelligenti, producendoli. Un produttore
non è un mecenate, né un editore, e nemmeno un gallerista: ed è giusto che sia
così. Detto questo, non si può non dire che la situazione, rispetto a qualche
anno fa, è radicalmente migliorata e che non si torna facilmente indietro.