venerdì 24 gennaio 2014

The Wolf Of Wall Street

Sloop John B dei Beach Boys nella versione punk dei Me First And The Gimme Gimmes. Everlong dei Foo Fighters. Mrs. Robinson rifatta dai Lemonheads di Evan Dando. E poi: One Step Beyond, Gloria di Umberto Tozzi, Insane In The Brain dei Cypress Hill. Basterebbe citare solo una parte della soundtrack rassemblata da Randall Poster per rendere l'idea degli umori che ha voluto dare Martin Scorsese al suo 'The Wolf Of Wall Street' per raccontare ascesa e caduta del broker Jordan Belfort, l'operatore di Borsa che è riuscito a fare montagne di soldi in tempi molto brevi, senza faticare troppo, e dedicando la maggior parte delle sue attività a droghe e orge. Il film è un party di tre ore, senza attimi di cedimento, nel quale i personaggi non mettono mai in discussione la convinzione che la vita sia facile. A Scorsese non interessano le conseguenze della loro idiozia e della loro avidità, preferisce evidenziare i loro puri e semplici gesti quotidiani: sniffare cocaina, fumare crack, giocare al tiro al bersaglio con i nani, spendere e scopare senza alcun tipo di limiti e di freni inibitori. Il risultato è quello di un'opera cinematografica esaltante, in grado di inquadrare in maniera esemplare la vitalità e la gioia di chi sta serenamente fottendo il mondo intero. Un mio caro amico lo ha efficacemente definito come un 'Quei bravi ragazzi' all'ennesima potenza, ma senza controllo. Prima di Scorsese, nessuno aveva mai osato raccontare l'universo della finanza e dei suoi burattinai con tanto gusto per l'assurdo e per il demenziale. A tal proposito, l'interpretazione di DiCaprio è probabilmente la più comica e brillante della sua carriera e, non a caso, il suo braccio destro è impersonato da Jonah Hill, l'attore di film come 'Suxbad' e 'In viaggio con una rockstar' (dei "classici" dell'Apatow Factory). Soltanto nella mezz'ora finale, 'The Wolf Of Wall Street' sfiora passaggi più drammatici (come nella magistrale sequenza del litigio tra Belfort e la moglie, che si conclude con l'incidente in macchina in compagnia della figlia). Ma è un'illusione. Scorsese sceglie di chiudere con Belfort, uscito di prigione dopo aver scontato niente di più di 22 mesi, che tiene un corso di business motivazionale in modo mattatoriale, utilizzando la stessa carica e la stessa forza demagogica con la quale arringava i suoi uomini a trionfare a ogni costo. In maniera beffarda e inquietante, l'ultima inquadratura è sui suoi allievi (ovverosia, su noi spettatori) che lo guardano affascinati e ammirati. Se dovessi scegliere quale film di Martin Scorsese portare su un'isola deserta, opterei per 'The Wolf Of Wall Street'. Lo sceglierei per la sua trascinante colonna sonora, innanzitutto. Lo sceglierei per le performance irrefrenabili di DiCaprio e di Hill, e per la gnoccaggine di Margot Robbie. Ma, soprattutto, lo sceglierei perchè sotto gli strati di divertita e divertente commedia di cialtroni, si cela un consapevole senso di rassegnazione per la misera natura umana.

Emiliano Dal Toso


mercoledì 22 gennaio 2014

Riflessioni Spiazzanti: Il Talento

Non sono mai stato interessato alla perfezione formale di un'opera cinematografica. Non mi interessa l'abilità tecnica del regista, non mi strappo i capelli per le interpretazioni impeccabili degli attori. Voglio che i personaggi siano la rappresentazione di qualcosa di autentico, spigoloso, imperfetto, che può provenire soltanto dalla necessità di mettere in atto determinate emozioni. Quando Bruce Dern in 'Nebraska' respinge le accuse del figlio di essere un alcolizzato replicando che lo sarebbe diventato anche lui se avesse sposato sua madre, mi accorgo dell'illusione di credere che il talento si possa imparare. Il Cinema non è una somma di fattori. Non sopporto chi prende in considerazione prima la trama (mio dio, cos'è la trama?), poi la sceneggiatura, poi gli attori, poi il comparto tecnico, e via dicendo. Quello che rimane saranno sempre le singole battute, saranno sempre le singole sfumature. Trovo poco interessante avere una storia da raccontare ed è davvero irrilevante che venga espressa attraverso invidiabili mezzi produttivi. Spesso preferisco quello che è troppo triste, oppure troppo volgare, oppure troppo ermetico a quello che è equilibrato. L'eccesso e l'esagerazione dimostrano molta più umanità dell'equilibrio. Si può studiare per diventare ingegnere o avvocato, e ci si può applicare per apprendere bene un mestiere. L'attitudine cinematografica è tutta un'altra cosa. Non è possibile raccontare la disperazione se non si è mai stati disperati, così come non si possono mostrare le gioie della vita se non si sono mai vissute. Il mestierante prende sempre qualcun altro come punto di riferimento, ed è convinto di potersi migliorare. L'esperienza non serve. Nel Cinema, gli autori dei miei film preferiti sono ben consapevoli dei propri limiti: loro sanno che non potranno mai andare al di là delle proprie delusioni, dei propri tormenti, delle proprie sconfitte.

Emiliano Dal Toso


Femmine: Frances Ha

Frances Ha' fotografa un pezzo di vita di una romantica ventisettenne aspirante ballerina, diluendo la sua storia in disimpegnate sonorità anni 80 e in un bianco e nero impermeabilizzante. Il film risulta leggero e disimpegnato, pur raccontando di uno dei passaggi più complessi nella vita di un individuo: il momento in cui, all'alba della maturità individuale, tutte le certezze ci abbandonano e ci si ritrova a dover fare i conti con se stessi e con quello che si vuole diventare "da grandi". La protagonista del film, Frances (una splendida Greta Gerwig), non aveva alcuna intenzione di intraprendere questo percorso. Amava la sua vita spensierata, incarnata nel suo rapporto con Sophie, migliore amica e compagna di vita, àncora per la giovinezza. Eppure, si trova suo malgrado a dover affrontare la realtà quando Sophie decide di lasciare l'appartamento che condividono da sempre per cambiare stile di vita: si allontana da Frances e dalla vita festaiola e giocosa e si fidanza con un ragazzo "serio" che le dà stabilità e sicurezza, come molte donne scelgono di fare. Una migliore amica è come uno specchio, che riflette una certa immagine di quello che si è, immagine che è andata a costruirsi in anni di rapporto di un'intimità e profondità fortemente viscerale. Sophie decide di allontanarsi da questa immagine per costruirsene una nuova, indipendente da quella precedente, che meglio rappresenti la sua individualità. Frances si troverà, quindi, costretta a fare altrettanto. Abbandonata dalla sua migliore amica, senza un ragazzo, senza un lavoro vero, in una casa vuota che non può più mantenere, Frances non potrà evitare a lungo di fare i con la sua (adorabile e femminile) natura di ragazza imperfetta, "infidanzabile", socialmente inadeguata, rimasta indietro. Il percorso è tutt'altro che facile e spesso Frances opporrà resistenza alternando nostalgia e rancore verso l'amica che l'ha costretta in questa situazione. Ballando sulle notti insonni, sulle direzioni sbagliate, sui conti che non tornano, sulle piccole umiliazioni e delusioni, Frances riuscirà a mettere insieme i pezzi e a farsi donna, senza comunque perdere quella sfumatura di incompletezza (come il suo cognome troncato in Ha. sulla casella delle lettere) che la caratterizza. 'Frances Ha' di Noah Baumbach è un film ben riuscito, malgrado venga penalizzato dalla sua natura un po' sperimentale: gli orpelli stilistici rischiano di offuscare la vicenda narrativa in corso e talvolta comportano un allontanamento dello spettatore dalla realtà emotiva rappresentata. E' un peccato che il fattore di maggiore originalità del film sia anche quello che comporta una perdita allo stesso in forza ed efficacia espressiva.

Linda Grazia Pola



martedì 21 gennaio 2014

Retrospective: Elio Petri Files #2


La bufera di Todo Modo è passata da un paio d’anni ormai. Alcune cose sono cambiate. In questa intervista del ’78 (F. Laudadio, Un regista si racconta, “l’Unità”, 3 luglio 1978), di cui pubblichiamo alcuni stralci, Elio Petri viene intervistato in occasione del primo passaggio televisivo de Le mani sporche. È un’occasione per parlare proprio di televisione, di recitazione, di cinema a basso costo. È impressionante, peraltro, vedere come Petri, con la sua sensibilità di intellettuale, avesse intuito in anticipo il riflusso individualista della società, che sarebbe avvenuto negli anni Ottanta. Goodbye, Elio.

 

“Quelli che fanno cinema credendoci, perché lo amano, devono pagare di persona.”

 

Cosa ne pensi della televisione?

Non credo che la TV vada fatta come la facciamo io e altri: essa va completamente reinventata. Non si può usare la TV come se fosse il surrogato di tutto l’esistente, che è quel che oggi avviene e che mi pare aberrante, poiché simboleggia il ritirarsi dell’individuo di fronte ai fatti collettivi. Il problema è quello di capire la funzione e la destinazione della televisione nella vita moderna; la necessità è quella di comunicare le cose mentre avvengono, e non, come succede oggi, utilizzando il mezzo nel modo più pigro, ciò che fa sì che la gente non viva più in prima persona certi avvenimenti, tanto ha la TV che surroga tutto: dall’abc per i bambini, allo spettacolo, alla messa al teatro, al cinema, e questo è un regresso, non un progresso.

 

Questo vuol dire che ti senti tentato dalla possibilità di un impiego diverso del mezzo televisivo?

No, io continuerò a fare del cinema. La TV è una cosa, il cinema un’altra. (…)

 

Qual è il tuo rapporto con gli attori?

Io amo molto gli attori. Penso che l’attore sia fondamentale per uno spettacolo. Ho sempre creduto in una recitazione forte, non sommessa, o intimista, come spesso è quella degli attori americani che oggi vanno di moda, con qualche eccezione come Robert De Niro e qualcun altro. Una moda che è solo un fatto provinciale. L’attore è un essere umano, antico quanto il teatro, e quindi quanto la vita. Un essere umano nudo che deve rivestire gli abiti degli altri e gestire e parlare come gli altri, come quelli che lo guardano e lo ascoltano, perché si è trasformato in uno di loro, in tutti loro. All’attore spettano scelte come quelle che spettano al regista, ed è assurdo contrapporre il regista all’attore, poiché il primo non è quella specie di demiurgo che ancora credono di essere certi vecchi (mentalmente) registi teatrali che oggi vanno per la maggiore.

 

Tu non sei solo un regista, ma anche un autore, scrivi cioè i tuoi film. Come nasce un tuo film?

Ogni film ha una sua propria storia particolare, diversa fra l’uno e l’altro. E questa storia va legata al tempo in cui la pensi, alla realtà e alla cronaca che ti circonda. Quando ho pensato che fosse giusto cominciare a fare film politici, mi sono guardato intorno senza forzare i termini del discorso, ma sicuramente cercando di leggere fra le righe di quel che intorno a me avveniva. Così come, guardandomi intorno oggi, ritengo che si debba tornare a raccontare le storie delle persone, degli individui. Ma non certo in chiave intimistica, bensì assumendo le storie personali come spie di una situazione più generale di disagio, di ricerca di un’identità sempre più in crisi nella società in cui viviamo. Il primo dovere di un regista è quello di conoscere il principio di realtà, le condizioni della possibilità, della realizzabilità, di una storia , come di un film. Anche dal punto di vista, diciamo così, strutturale: allacciare un legame con un certo produttore, verificare la realizzabilità di un progetto, tenere duro su certi punti ed ingaggiare una vera e propria lotta, che non cessa mai, dalla progettazione fino all’uscita e dopo (…).

 

Che progetti hai per il prossimo futuro?

Due o tre idee su cui sto lavorando. Ma soprattutto, da qualche tempo, sono convinto che l’unica strada percorribile dal cinema italiano sia quella della produzione a basso costo. Anche se non condivido appieno la linea dell’austerità, che ritengo un po’ demagogica, credo tuttavia che lo spettacolo, proprio perché può apparire qualcosa di superfluo, deve in qualche modo autolimitarsi e pagare per sopravvivere. Quelli che fanno il cinema credendoci, perché lo amano, devono pagare di persona. Non c’è altra via e questo è il momento.

lunedì 20 gennaio 2014

Retrospective: Elio Petri Files #1

In questa intervista del 1962 (Elio Petri vorrebbe rifare il suo film “I giorni contati”, “l’Unità”, 10 aprile 1962) Petri parla della sua seconda opera, ma il film è solo un punto di partenza per riflessioni più generali sul cinema, sul rapporto attore-regista, sul processo creativo, sul ruolo dei produttori.
 
“… infatti io non tendo all’astratto, in nessun campo.”
 
Puoi darci qualche indicazione sul retroterra culturale di questo tuo secondo film, I giorni contati?
C’è un sonetto del Belli che incomincia così: “Nun vojo lavorà: cosa ve dole?/Pe sta vita nun me ce sento nato./Nun vojo lavorà: me so spiegato./O bisogna spregacce antre parole?”. Io sono interessato a certi abbandoni degli uomini, ad alcuni loro moti sotterranei, subnervosi, soprattutto quelli che si producono in relazione a determinati condizionamenti storici. Vorrei che l’esistenzialismo toccasse terra, e Sartre ha dato a tutti delle indicazioni eccezionalmente importanti. Poi mi piacciono i vecchi, poiché il loro contatto con la morte (con la vita, quindi) è diretto, corporeo. A un falegname di Cattolica, che da tanti anni vive a Roma, Tonino Guerra ed io domandammo se non sentisse la nostalgia del suo paese. L’uomo aveva una sessantina d’anni, e in mezzo alle sue rughe s’aprivano gli occhi azzurri come quelli di un bambino. “Ci tornerò per morire”, rispose ed abbassò lo sguardo per nasconderci le lagrime. Mio padre, ogni tanto, pianta degli alberi. Una volta, dopo aver lavorato attorno ad un piccolo pino un’intera mattinata, mi disse: “Questo lo vedrai crescere tu”, ed era molto sereno. Non è anche questo un background culturale, per un film semplice come I giorni contati?
 
C’è spesso nel lavoro di un artista un divario tra intenzioni e risultati, tra il traguardo di partenza e quello d’arrivo. Data la particolare natura del film I giorni contati, ci puoi dire se questo divario esiste e quale sia?
Se fosse per me rifarei completamente I giorni contati: ne sarei trattenuto soltanto dall’idea che probabilmente non verrebbe meglio di com’è, e preferisco, quindi, passare immediatamente a un altro progetto. La faccenda del divario è abbastanza complessa. Uno parte con un’idea precisa, ma siamo ancora sospesi a un’astrazione. A mano a mano quell’idea, realizzando il film, si chiarisce nella forma, e si critica da sé: e questo risulta chiaro davanti alla tua coscienza, se ne hai, o se non sei cieco d’orgoglio. Infine, quando tutto è fatto, e l’idea s’è rivelata compiutamente, tu vorresti che il film fosse un altro, poiché solo a quel punto vedi chiaro. Per spiegarmi, mi viene in mente un gioco di parole piuttosto confuso, ma voglio provare a scriverlo. Vorresti, insomma, un altro film da quello che è, e non il film che avresti voluto che fosse all’inizio. Soprattutto nel caso di film girati in modo libero e non incatenati a una formula da laboratorio. Nel caso specifico, io avrei voluto raccontare meglio e con maggior precisione (e anche maggior calore) i rapporti tra il protagonista e suo figlio: far capire meglio, cioè, che malgrado uno abbia famiglia, a cinquant’anni può sentirsi egualmente solo, sperduto nel proprio passato e inquieto del proprio futuro; e come gli affetti familiari siano distratti e puramente organizzativi. Ma raccontare meglio questo rapporto, che merita un film a parte, avrebbe potuto modificare radicalmente la storia che Guerra ed io volevamo raccontare. Mi sono contentato di suggerire un tema.
 
Tra L’assassino, tua opera prima, e I giorni contati, c’è un evidente stacco che riguarda in modo particolare il linguaggio, dalla sceneggiatura al montaggio. Questa differenza indica una direzione di cammino, da sviluppare in avvenire, oppure è soltanto un esperimento isolato in stretta dipendenza dal tema scelto?
Nel primo film era già indicata una certa ricerca, una certa voglia di rompere i tempi, di rubare il tempo, di gettare via gli sfrasi, o di descrivere solo gli sfrasi. Mi pare, almeno. Io vorrei continuare su questa strada, ma senza ricorrere a uno schema prefabbricato. Le regole del vecchio cinema mostrano la corda, soprattutto perché, come ogni forma di schematismo, raffrenano la spinta dell’invenzione. Voler a tutti i costi dettare nuove regole, o anti-regole, che è lo stesso, significa tornare al punto di partenza. I temi, poi, suggeriscono lo stile: alcune volte, ed è il caso del mio secondo film, lo impongono. Bisogna ascoltare i temi ed impostare per ciascuno uno stile, mi pare ovvio.
 
Qual è stato il contributo di Salvo Randone al tuo film? È stato un semplice esecutore?
I grandi attori sono sempre i più disciplinati, se aderiscono al personaggio che sono chiamati a interpretare. Randone aderì immediatamente al personaggio di Cesare. Fu, quindi, disciplinatissimo: come, del resto, ne L’assassino. Questo non significa che Randone sia stato un semplice esecutore, poiché il suo metodo di lavoro (e il mio, del resto) è quello di sottoporre sempre ad una critica personaggi e situazioni: di questo suo conflitto egli si serve per l’invenzione. Abbiamo lavorato bene insieme: non c’è gesto di Randone, nel film, che non sia nato da uno studio comune. Un’altra regola dei grandi attori? Si abbandonano serenamente al regista, non tendono a contrapporre alla sua interpretazione una loro interpretazione, posto che essi aderiscano al suo mondo, e che il regista aderisca al loro. Vi sono registi che considerano gli attori come oggetti inerti: e ottengono risultati straordinari. La loro concezione non è casuale, naturalmente, ma risponde a una più vasta concezione del mondo: tant’è vero che i loro risultati tendono all’astrazione anche da un lato poetico. Io non so che risultati ottengo, probabilmente modesti, ma considero gli attori, insieme con gli sceneggiatori, i più diretti e importanti collaboratori di un regista, infatti io non tendo all’astratto, in nessun campo.
 
I giorni contati si può inserire in quel gruppo di opere che in questi anni hanno tentato un rinnovamento del linguaggio cinematografico. Puoi dirci quali sono stati gli autori che, più o meno direttamente, ti hanno influenzato?
Non so se I giorni contati, come dici tu, “si può inserire in quel gruppo di opere che in questi anni hanno tentato un rinnovamento del linguaggio cinematografico”. Magari fosse così. Di sicuro so che fin dalla sceneggiatura del mio primo film, e fino al montaggio del secondo, ho sentito l’esigenza di rompere con la convenzione. Riuscirci è molto difficile, poiché la convenzione ci intride, e limita molto la nostra libertà di volere senza che ce ne accorgiamo. La nouvelle vague ci ha aiutato (…) a liberarci del complesso della macchina da presa: ha rotto molti schemi, ne ha rivelato la fragile vecchiezza. In questo senso Resnais e Godard, soprattutto loro, sono stati importantissimi. Ma il loro vivere nel mito di se stessi e filmare nel mito e avvolgersi di letteratura non è un insegnamento. Resta Rossellini, che per primo fece dei film con un linguaggio avanzato, prima dei suoi allievi francesi. E Fellini che ha spinto all’autobiografismo. E Antonioni, con la sua attenzione per la coscienza dei personaggi e per le loro scelte. De Santis mi insegnò a dare una struttura a uno scenario, e a volere cocciutamente che i film non fossero giochi inutili,  divertimenti privati, ma in qualche modo partecipi della vita e delle aspirazioni dei nostri contemporanei.
 
In Italia stiamo assistendo a un interessante, complesso e contraddittorio fenomeno: un’ansia di rinnovamento che cerca di sfogarsi e di realizzarsi nell’ambito del cinema industriale, nel quadro della produzione ufficiale. Quali sono, a tuo avviso, le prospettive?
Il fenomeno è positivo, senza dubbio. Il pericolo è che i produttori si pieghino a questa ansia di rinnovamento solo per seguire una moda, un dettame snobistico, e non perché intimamente aderiscano ai suoi risultati, ai suoi scopi. Le sue prospettive sono molto legate all’esito commerciale dei film che nascono su basi non commerciali. Io non sono molto ottimista: se questi film andranno male, se cioè il pubblico non li appoggerà concretamente, i produttori torneranno sui loro passi, e non so nemmeno se giudicarli troppo severamente, dal momento che gli scopi che essi si propongono sono diversi dai nostri. Il loro mestiere, infatti, è quello di far danaro, con i mezzi che si sono scelti, cioè con i film: se i film di qualità o di idee, o di problemi, come preferite, hanno la tendenza a incassare (…) allora essi faranno il loro mestiere con maggiore soddisfazione, se sono intelligenti, producendoli. Un produttore non è un mecenate, né un editore, e nemmeno un gallerista: ed è giusto che sia così. Detto questo, non si può non dire che la situazione, rispetto a qualche anno fa, è radicalmente migliorata e che non si torna facilmente indietro.
 
 


venerdì 17 gennaio 2014

Retrospective: Elio Petri - Parte Seconda

Dopo il successo di Indagine, confermarsi è difficile, per questo La classe operaia va in paradiso (1971) sarà un film complicato. Ma anche strepitoso. Le aspettative, soprattutto politiche, sono altissime: dei comunisti devono girare un film sulla classe operaia, appena dopo l’Autunno Caldo. Durante la lavorazione Volontè e Pirro per divergenze di vedute vengono più volte alle mani. L’operaio Lulù Massa (l’operaio-massa), alienato, inviso ai colleghi, perde un dito al tornio e viene licenziato. I compagni si mobilitano per la riassunzione, ma lui nel frattempo vive una crisi politica, personale, anche sessuale, che non si risolve nemmeno alla fine, nemmeno quando torna al lavoro. Il suo è un dramma personale che diventa simbolo anche di un dramma collettivo, come nella tragedia classica. Intorno alla fabbrica si muovono, inoltre, degli studenti, agitatori più a sinistra del PCI, che di fabbrica nulla sanno, ma che riescono a fare proselitismo politico, contro l’azione unitaria dei sindacati. In sostanza Petri racconta, caso unico nel cinema, credo, l’esperienza dei Comitati Unitari di Base (CUB) che lanciarono in quegli anni una sfida ai sindacati tradizionali. E ne parla male, addirittura immagina che gli studenti possano essere al soldo dei padroni, per dividere il fronte dei lavoratori. È, più o meno, la posizione del PCI di allora. Ciò provoca le critiche a Petri di certa sinistra extraparlamentare (“Bruciate la pellicola!” gridò Jean-Marie Straub dopo aver visto il film). Eppure anche il partito non è del tutto soddisfatto del lavoro. Manca, si dice, il ruolo del PCI nella vicenda, il suo rapporto con la classe operaia, e «non avendo che sfiorato nel film questo rapporto storico (…) Petri non ha potuto affrontare neppure compiutamente e fino in fondo lo stesso problema della fabbrica». Gli operai del film, inoltre, forse sono troppo veri, troppo poco idealizzati, ed il finale rischia di essere eccessivamente negativo rispetto alle prospettive future della lotta. Quali che siano le valutazioni che si vogliano fare, La classe operaia vince la palma d’oro a Cannes (ex aequo con Il caso Mattei di Rosi). Sempre dal sodalizio con Ugo Pirro nasce anche La proprietà non è più un furto, che riprende e rivede, nel titolo, la famosa frase di Proudhon. Nelle intenzioni di Petri la pellicola doveva trattare il binomio individuo-proprietà, chiudendo la trilogia iniziata con Indagine (individuo-potere) e continuata con La classe operaia (individuo-produttività). Il risultato però è vischioso, annaspa nell’allegoria, e finisce coll’essere difficilmente assimilabile, a differenza dei due titoli precedenti. 1976, arriva Todo Modo, uno dei tre capolavori di Petri, con Indagine e La classe operaia. Per capire questo film e le sue conseguenze sulla vita personale e professionale di Petri, bisogna fare un po’ di cronologia. 1973: colpo di stato in Cile; Berlinguer, segretario del PCI, teme qualcosa di simile anche in Italia; l’unica soluzione è un responsabile incontro tra i comunisti e la Democrazia Cristiana che eviti rigurgiti autoritari, insomma il Compromesso Storico. 1975: elezioni amministrative, il PCI riscuote un enorme successo, la DC cala; appare ormai impossibile lasciare i comunisti fuori dall’area di governo. 1976: nelle elezioni politiche il PCI si gioca la possibilità dell’accesso al potere, sebbene in coabitazione Questo è il contesto in cui nasce ed esce Todo Modo. Petri è contrario all’avvicinamento ai democristiani, per lui «la strategia della tensione è manovrata e provocata dalla DC». Aldo Moro «è mellifluo, è follemente ambizioso (…) egli opera perché nulla muti, ma volendo dare a tutti un’idea di un continuo mutamento». Queste sue opinioni finiscono dritte in Todo Modo, ispirato al romanzo omonimo di, ancora una volta, Sciascia. Un’intera classe dirigente, non solo politica, si ritira in un bunker, mentre il paese è travolto da un’epidemia, e compie esercizi di riabilitazione spirituale. Poi, cominciano gli omicidi: è la stessa classe dirigente, marcescente, a divorarsi. I riferimenti fisici e comportamentali a personaggi esistenti sono chiari. Volontè è Moro, poi compare Andreotti, poi il finanziere Cefis e via così. Il film esce tra aprile e maggio. A giugno ci sono le elezioni. Sulla via del Compromesso Storico, il partito non può accettare un’opera così antidemocristiana. E non la accetta. Petri viene, prima velatamente, poi apertamente criticato da “l’Unità”. Sciascia si premura di chiarire che il film è tratto «liberamente, molto liberamente» dal suo libro. Il 20 giugno il PCI ottiene il più grande successo della sua storia alle politiche, e questo dà al Compromesso Storico la sanzione definitiva. Berlinguer ha vinto, Petri e quelli come lui hanno perso. Il regista viene abbandonato dai vecchi amici. Nel 1978 la sua riduzione televisiva de Le mani sporche di Sartre viene stroncata da “l’Unità” che parla di «decadimento della tragedia in farsa». Nel ’79 esce Le buone notizie, film autoprodotto insieme a Giancarlo Giannini, protagonista della pellicola. L’accoglienza è tiepida. In effetti il film, pur visivamente impressionante, ha molti limiti e appare quasi come un lungo elenco di ossessioni indecifrabili. Ma soprattutto riflette, io credo, un momento di profonda e amara crisi. Politica, artistica, personale. All’inizio del 1981 Petri si dedica alla regia teatrale e debutta allo Stabile di Genova con L’orologio americano di Arthur Miller. Nel 1982 muore. Ora, com’è possibile che un regista così bravo, che ha ricevuto riconoscimenti in tutto il mondo, sia stato da molti dimenticato? Secondo me le ragioni sono tre. 1- L’intellighenzia di sinistra vicina al PCI di Berlinguer, il partito che finì consumato in una vedovanza a una DC che in realtà non moriva mai, lo respinse perché troppo a sinistra, e quindi smise di parlarne. Primo velo di silenzio. 2- Certa intellettualità fighetta post-sessantottina (gente poi finita a razzolare nell’orto dei padroni che un tempo odiava) lo ha osteggiato per le sue posizioni troppo convenzionali: era troppo a destra. Di Petri costoro hanno parlato poco e male. Secondo velo di silenzio. 3- L’evoluzione culturale italiana nel corso dei decenni è andata in direzione di un sempre più marcato disimpegno politico e, in tale contesto, i film di Petri sono sembrati datati. E invece non è così. Tuttavia, terzo velo di silenzio.
 
                                                                                                                                      Ivan Brentari
 
 
 
 


Retrospective: Elio Petri - Parte Prima

Il bello, il brutto e il cattivo dedica una retrospettiva al grande e per certi  versi dimenticato regista Elio Petri, in occasione degli 85 anni dalla nascita (29 gennaio 1929). Le citazioni nel pezzo sono da considerarsi provenienti da Elio Petri di Alfredo Rossi (La Nuova Italia, 1979), o da vari articoli dell’epoca de “l’Unità”. Per chi volesse ulteriormente approfondire, consigliamo una visita all’aggiornatissimo sito eliopetri.net, oltre che la visione del bel documentario Elio Petri, appunti su un autore, reperibile su Youtube.
 

La figura di Elio Petri è figura complessa. Figlio del proletariato urbano romano, Petri non completa gli studi. La sua scuola si trova «per le strade, nelle cellule del partito comunista, nei cantieri del genio civile, al cinema, al varietà, nelle biblioteche comunali, leggendo i giornali e le riviste del partito, amando “Politecnico”, facendo la scuola di partito, nelle lotte dei disoccupati (…)». Comincia negli anni Cinquanta come «vice-titolare della rubrica cinematografica de “l’Unità”» e poi diventa assistente di Giuseppe De Santis, per il quale scrive diverse sceneggiature. Militante del PCI, resta vicino al partito anche dopo i fatti d’Ungheria del 1956, ma mai su posizioni piattamente acritiche. Il partito lo riama, lo coccola, gli offre visibilità, almeno fino ad un certo momento. L’assassino (1961), suo lungometraggio d’esordio ambientato a Roma, vede Marcello Mastroianni, ricettatore infame e un po’ cialtrone, coinvolto nell’omicidio dell’amante. Il film fu censurato perché dava un’immagine negativa della polizia italiana, pronta anche ad usare metodi poco ortodossi per estorcere confessioni ai sospettati. Il secondo film, I giorni contati, vincitore del Festival di Mar De La Plata ’62, è indubbiamente il più riuscito della prima parte della sua carriera. Un signore di mezza età, interpretato da Salvo Randone, vede morire un uomo e comincia a ragionare sulla propria vita. Non riesce più a lavorare, tutto perde senso. Si tratta di una riflessione sul rapporto tra tempo e vita, sul degrado nascosto che si cela nelle esistenze più comuni. Nel ’63 arriva la grande produzione. De Laurentiis finanzia Il maestro di Vigevano, tratto dal libro omonimo di Lucio Mastronardi, e offre il ruolo di protagonista ad Alberto Sordi, che impersona un insegnante elementare di ambizioni borghesi ma costretto a misurarsi con la propria condizione economica di povero. È il film peggiore di Petri, qui troppo schiacciato dalla personalità di Sordi. In realtà, per altro, Petri avrebbe dovuto dirigere I Mostri (la sceneggiatura è sua) e Risi Il maestro di Vigevano, ma poi la produzione optò per un’inversione tra i due. La decima vittima (1965), tratto da un racconto di Robert Sheckley, è un film di respiro internazionale e stilisticamente moderno, prodotto e mutilato, nel finale, da Carlo Ponti. In un futuro fumettistico, le autorità, per incanalare la violenza sociale, hanno organizzato un grande gioco in cui cacciatori e prede si fronteggiano in una gara di morte, cercando di rimanere vivi. Ursula Andress caccia un Mastroianni insolitamente biondo, ma i due poi si innamorano e volano verso il finale edulcorato dalla produzione. Con A ciascuno il suo (1967), tratto dal romanzo di Sciascia, comincia con maggior forza a baluginare in lontananza l’attitudine politica del cinema di Petri, che, fino ad allora, era stata percepibile ma non manifesta. La storia parla di una Sicilia controllata da una mafia che c’è ma non si vede e di un intellettuale vicino al PCI (Gian Maria Volontè) che cerca di risolvere un mistero. La locandina del film fu sequestrata per via della manina furbetta di Volontè che si infila tra le cosce di Irene Papas. La pellicola vinse il premio per la sceneggiatura a Cannes. Un tranquillo posto di campagna (1968), orso d’argento a Berlino, segna la svolta del cinema di Elio Petri. Il plot ruota attorno alle insicurezze e vertigini creative di un pittore di successo, le sue angosce, le sue fissazioni sentimentali e sessuali, il rischio di un’arte che diventa autoreferenziale. Era anche un’ossessione di Petri: «Dovevo affrontare i problemi di un artista che aveva perso l’ispirazione, nel senso romantico del termine, e che cercava di ritrovare i suoi rapporti con la realtà, ma ingannandosi (…). È stato a quel momento che ho deciso di non girare che film politici». O forse film popolari; per Petri politico e popolare sono sinonimi. L’opera è anche una svolta stilistica. Affiorano finalmente le inquadrature allucinate e funzionali alla resa drammatica della psicopatologia individuale e sociale, dell’allegoria politica. Un universo onirico che in Fellini affascina con una certa frivolezza, ma in Petri dilania. Nel 1969 c’è il botto. A Petri si affianca lo sceneggiatore Ugo Pirro, suo compagno anche per i successivi due film, e insieme scrivono Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto. Il protagonista, un clamoroso Volontè, è un alto funzionario di polizia che commette un omicidio e cerca di farsi arrestare dai suoi colleghi. Solo che non può essere arrestato. È travolto dalla propria psicologia infantile, perversa, che altro non è che l’allegoria stessa del Potere: stupido, crudele, arbitrario. Un’allegoria che però affonda le radici nel reale. Volontè parla siciliano, come molti degli alti dirigenti delle forze di polizia. È uno sbirro reale, così come reale è stata la violenza della Celere sugli studenti, pochi mesi prima dell’uscita del film. L’opera fa scalpore anche all’estero e viene recensita positivamente da Vincent Canby sul “New York Times”. È il primo passo verso l’oscar, che infatti arriva. Petri non va a ritirarlo, si fa sostituire dall’attrice Leslie Caron. Qualche settimana dopo, Indagine riceverà, sempre in America, anche il “Premio Edgar Allan Poe” per la sceneggiatura.
CONTINUA...
                                                                                                                                    Ivan Brentari
 
 

giovedì 16 gennaio 2014

Opinions: Nomination Oscar 2014

I sostenitori di Paolo Sorrentino possono cominciare a stappare le bottiglie di champagne. 'La Grande Bellezza' non avrà rivali, vincerà l'Oscar come miglior film straniero, quindici anni dopo il trionfo di Benigni. Nella cinquina finale, non ci sono 'La Vie D'Adele' di Kechiche (incredibilmente non candidato dalla Francia), 'Il Passato' di Farhadi, e non c'è nemmeno 'The Grandmaster' di Wong Kar Wai, l'unico film che poteva davvero impensierire il regista partenopeo. C'è soltanto 'Il Sospetto' di Vinterberg, eccellente thriller psicologico, che però non presenta certamente quegli ingredienti che fanno parte dell'opera di Sorrentino: non ci sono citazioni letterarie colte e inutili, non si parla di Italia in maniera guascona e ruffiana, ma di un povero disgraziato che viene scambiato per pedofilo. Non ho dubbi che i giurati dell'Academy preferiranno la prima più rassicurante proposta. Via, bene così, bravo Paolo, prendiamolo come un premio al tuo talento di regista, che si è magistralmente espresso nei tuoi primi quattro lavori. Per quanto riguarda le altre categorie, la prima cosa che salta all'occhio è la candidatura di Leonardo DiCaprio come miglior attore protagonista per 'The Wolf of Wall Street', soltanto la seconda dopo 'The Aviator'. Tifiamo per lui, anche se dovrà vedersela soprattutto con Matthew McConaughey in 'Dallas Buyers Club', quotatissimo, soprattutto per la tematica delicata che ha a che fare con il suo personaggio. Gli altri candidati sono Bale, Ejiofor e Dern: li vedo un po' indietro. Tra i non protagonisti, l'impressione è che possa farcela Bradley Cooper per 'American Hustle', alla sua seconda nomination consecutiva. Attenzione a Jared Leto e a Micheal Fassbender, anche se la mia simpatia va certamente al grande Jonah Hill (co-protagonista in 'The Wolf Of Wall Street'). Sfida a due tra Cate Blanchett ('Blue Jasmine') e Judi Dench ('Philomena') per la statuetta come attrice protagonista. Non credo che la vinceranno nuovamente la Streep e la Bullock (grazie al cielo), ma darei un'occhiata alla provocante Amy Adams di 'American Hustle'. Grande equilibrio tra le non protagoniste: non saprei dare un nome, mi piace molto la Sally Hawkins di 'Blue Jasmine', non mi è dispiaciuta la Lawrence in 'American Hustle', ma il cuore batte sempre per Julia Roberts, candidata per 'I Segreti Di Osage County'. Julia è come il buon vino, migliora invecchiando, sotto tutti i punti di vista. Arrivando ai candidati per la statuetta principale, trovo davvero ingiustificata la presenza di 'Gravity', normalissimo prodotto medio, che è stato vittima di una quantità eccessiva di sovrainterpretazioni. Non mi strappo i capelli per 'Captain Phillips' e per 'American Hustle', mentre ho molta simpatia per 'Philomena' di Stephen Frears. Attendiamo di vedere gli altri candidati: 'Nebraska' di Payne (che esce oggi), 'The Wolf Of Wall Street' di Scorsese (giovedì prossimo), 'Dallas Buyers Club' di Jean-Marc Vallèe (il 30 gennaio), 'Her' di Spike Jonze (il 13 marzo) e, soprattutto, il favorito '12 Anni Schiavo', terza fatica di Steve McQueen dopo i bellissimi 'Hunger' e 'Shame', in uscita il 20 febbraio. Chiudo facendo notare l'assenza del mio film americano preferito degli ultimi mesi, ovverosia 'The Counselor' di Ridley Scott, noir cupissimo e disperato, per il quale Javier Bardem e Cameron Diaz avrebbero senz'altro meritato una menzione tra i non protagonisti, e anche qualcosa in più. Troppo sgradevoli, troppo iconoclasti i loro personaggi, per poter convincere il perbenismo obamiano dell'Academy.

Emiliano Dal Toso


lunedì 13 gennaio 2014

Il Capitale Umano VS. La Grande Bellezza

Ho visto recentemente 'Il Capitale Umano' di Paolo Virzì e, nel giorno dell'assegnazione del Golden Globe come miglior film straniero a Paolo Sorrentino per 'La Grande Bellezza' (premio che lo rende il favorito principale alla notte degli Oscar), è stato per me inevitabile raffrontare i due lavori. Per l'amor di dio, sono due film diversissimi, e non è obbligatorio trovarci, per forza, qualcosa in comune. Personalmente, a me diverte molto di più farlo che non farlo, mi sembra un giochetto divertente, anche se non del tutto corretto. Va detto che per entrambi è indubbio che ci sia l'ambizione di gettare uno sguardo sulla contemporaneità del nostro Paese, in maniera alquanto critica. Su entrambi, si cela l'ombra delle conseguenze del berlusconismo: nel film di Sorrentino, è inutile negarlo, sono chiari i riferimenti alla degenerazione dei costumi, alla disillusione, al trionfo del vacuo e del superficiale; in quello di Virzì, invece, i temi centrali sono l'avidità e la centralità del denaro e degli interessi economici nei rapporti interpersonali. Ora, non voglio entrare nelle polemiche relative a quanto questi film rappresentino più o meno correttamente il nostro Paese. Mi interessa, però, soffermarmi sul modo diverso con il quale i due registi si sono approcciati al loro obiettivo: Virzì sceglie di adottare un genere ben preciso, quello del noir, adottando oltretutto uno schema narrativo anticonvenzionale (il film è suddiviso in quattro capitoli, ciascuno dei quali ha un punto di vista differente); Sorrentino, invece, preferisce un approccio molto più anarchico e meno schematico. Ciononostante, per quanto apparentemente più libero, è proprio il film di Sorrentino a essermi sembrato più schiavo delle sue convinzioni e della sua retorica. 'La Grande Bellezza' non riesce mai ad andare veramente fuori dal macchiettismo dei suoi personaggi, da un certo autocompiacimento registico, e, soprattutto, trova proprio nella gestione narrativa e nella sceneggiatura i suoi punti più deboli: troppi passaggi vengono lasciati in sospeso, talmente è tanta la carne al fuoco, e i riferimenti colti e letterali sembrano più uno sfoggio ridondante e intellettualistico, piuttosto che una reale necessità. Il risultato è quello di un film che sembra voglia sparare su un universo borghese, palesemente ridicolo e volgare, troppo facile da prendere come bersaglio. Aggiungo che non sono affatto sorpreso che 'La Grande Bellezza' possa piacere agli americani, o meglio, penso che piaccia proprio perchè rappresenta bene l'idea che hanno gli americani di noi: quella di un Paese simpatico, guascone, che sa anche fare autocritica, autocelebrandosi (dopotutto, Roma è sempre la città più bella del mondo). Tutte queste caratteristiche non si ritrovano certamente ne 'Il Capitale Umano'. Per quanto il tono del regista livornese sia più ironico che veramente sarcastico, mi è sembrato che il ritratto alto-borghese dei personaggi risulti più feroce e meno ruffiano. E questo, soprattutto grazie a una solida costruzione narrativa, a una trama semplice che non viene mai lasciata al caso. Ne 'Il Capitale Umano' tutto torna, ogni suggestione, emotiva e narrativa, ha la sua chiusura del cerchio. In questo modo, la robustezza dell'incastro risulta in grado di offrire una particolare credibilità al contesto: la Brianza descritta da Virzì è davvero un luogo universale, nel quale tutto ha una valutazione economica, non esistono altri criteri di valutazione, non hanno senso altre sfumature. Ne 'Il Capitale Umano', la scelta vincente è quella di optare per delle regole (narrative e di genere) precise e definite: non c'è spazio per superflue considerazioni filosofiche, e si evitano concessioni a un certo tipo di retorica un po' populista. Eppure, ne viene fuori una rappresentazione di una certa Italia più complessa e più inquietante, per la quale non è mai davvero possibile provare un po' di compassione, e non è possibile trovare un minimo di consolazione.

Emiliano Dal Toso



mercoledì 8 gennaio 2014

Il Grande Match


Per tutti quelli che a cavallo tra gli anni Settanta e Ottanta hanno fatto di 'Rocky' e 'Toro Scatenato' i loro film preferiti, non può essere ignorata l'uscita nei cinema de 'Il Grande Match', nona regia del commediante Peter Segal, che raduna due campioni assoluti del cinema americano, Sylvester Stallone e Robert De Niro, per una commedia dai risvolti citazionisti e autoironici. Infatti, la pellicola è colma di riferimenti proprio a quei titoli sopra citati, quei titoli che ancora oggi sono in grado di emozionare e commuovere grazie alla loro epica narrativa e al loro fascino sportivo, virile, maschio. Stallone e De Niro interpretano rispettivamente Henry "Razor" Sharp e Billy "The Kid" McDonnen, due pugili di Pittsburgh finiti sotto ai riflettori a causa della loro accanita rivalità. Trent'anni dopo il loro ultimo match, il promoter Dante Slate Jr., intuendo la possibilità di creare uno strabiliante evento televisivo, fa ai due ex boxers, acciaccati e mezzi disoccupati, una proposta che non possono rifiutare: tornare sul ring e regolare i conti una volta per tutte. Inizialmente restii all'idea, i due si faranno convincere proprio perchè il loro odio reciproco è rimasto intatto e viscerale. Non solo rivalità sportiva, dunque, ma anche antipatia umana, dovuta oltretutto alla presenza di una donna (Kim Basinger) che ai tempi non si fece scrupoli a infilarsi nel letto dell'uno e dell'altro. I nostri cari amati Sly e Bob si divertono e fanno divertire. Lo spettatore non può far altro che prendere atto dell'assoluta mancanza di pretese della pellicola e stare al gioco, magari giocando a cogliere il numero più alto possibile di citazioni e di parodie che vengono fatte nel film. A tal proposito, non possiamo evitare di citare la sequenza in cui "Razor" viene obbligato dal suo allenatore (Alan Arkin) a bere un bicchiere di uova, oppure quella in cui si rifiuta di prendere a cazzotti la carne nella cella frigorifera. Ma la più riuscita e divertente è quella in cui nell'incontro contro "The Kid" chiede ai suoi "uomini" di aprirgli l'occhio, proprio come faceva Balboa nell'indimenticabile finale del primo 'Rocky'. Questi sono solo alcuni dei graditi "richiami" de 'Il Grande Match', che non risparmia neppure una stoccata nei confronti dell'MMA, la disciplina sportiva che era al centro del film 'Warrior', rea di essere in realtà fasulla, avvicinandosi più al wrestiling che alla Nobile Arte del pugilato. In conclusione, 'Il Grande Match' risulta essere un'operazione lieve e godibile, ironica e autoironica, caratteristiche rare in un Cinema sempre più privo di nuovi eroi in cui riconoscersi, di icone maschili a cui affidarsi. E anche se imparagonabile ai (capo)lavori di Avildsen e Scorsese, Peter Segal riesce a regalare due ore di puro divertimento, dando la possibilità a Stallone e a De Niro di ridere di loro stessi e della loro carriera, in modo particolare di quei ruoli che li hanno fatti entrare nell'immaginario collettivo. Che bella cosa. E in un mondo sempre più dominato dalla paura di non essere presi sul serio, un film, seppur passatista, come 'Il Grande Match' sembra una ventata di aria fresca.

Emiliano Dal Toso


sabato 4 gennaio 2014

Top Ten Video Musicali

10 - Bittersweet Symphony - The Verve diretto da Walter Stern (1997)
Richard Ashcroft, magro, altissimo, arrogante, superfigo, cammina per la strada fottendosene di scostarsi quando incrocia le altre persone. Grande pezzo, video efficacissimo, che rende molto bene l'idea del personaggio, il leader di una delle migliori band Anni Novanta, che ha espresso molto meno del suo potenziale.

9 - The Importance Of Being Idle - Oasis diretto da Dawn Shadforth (2005)
Uno dei pezzi più belli degli Oasis per un video davvero eccezionale, che rende omaggio ai film neorealisti inglesi degli anni Sessanta, con un Rhys Ifans scatenato che balla e dirige il funerale di se stesso. La canzone è un auto celebrazione di Noel Gallagher, che rivendica "l'importanza di essere pigro". Il titolo è tratto da un romanzo del 2001 di Stephen Robins.

8 - Scar Tissue - Red Hot Chili Peppers diretto da Stephane Sednaoui (1999)
I RHCP ritornarono sulle scene alla fine degli Anni Novanta, reintegrando nella formazione John Frusciante, allontanato per motivi di droga. Nel video, compaiono su un auto nel deserto sfatti, feriti e incerottati, come a voler ribardire che la droga e le disgrazie della vita li hanno segnati ma non li hanno sconfitti. Il pezzo fa parte di 'Californication', album celeberrimo, quello della svolta dal funky alle ballate malinconiche.

7 - Heart-Shaped Glasses - Marilyn Manson diretto da Marilyn Manson (2007)
Pezzo capolavoro del Reverendo, tratto dal suo album di gran lunga migliore, ovverosia 'Eat Me, Drink Me', tutto incentrato sulla rottura con la ex moglie Dita Von Teese. Non a caso, nel video la protagonista assoluta è Evan Rachel Wood, all'epoca sua fidanzata, che cita 'Lolita' e insieme a Marilyn guidano a massima velocità, fanno sesso ricoperti di sangue, e alla fine muoiono. Amore e autodistruzione.

6 - Weapon Of Choice - Fatboy Slim diretto da Spike Jonze (2001)
Video premiatissimo, con Christopher Walken, elegante cliente dell'albergo Marriott di Los Angeles, che si lascia andare a danze irrefrenabili e spericolate, ballando sulle note irresistibili di Fatboy Slim. Il pezzo fa parte dell'album 'Halfway Between The Gutter And The Stars', titolo che allude all'aforisma di Oscar Wilde "we are all in the gutter but some of us are looking at the stars".

5 - Out Of Control - Chemical Brothers diretto da W.I.Z. (1999)
Video davvero pazzesco, che si riferisce al conflitto tra il governo messicano e il gruppo rivoluzionario dell'EZLN. Rosario Dawson cerca di distrarre l'esercito provocandolo sessualmente, e poi lancia una bottiglia incendiaria che si rivela essere quella di una marca che si rifà alla Coca-Cola. In realtà, si tratta di uno spot pubblicitario e il video si chiude con le immagini reali della battaglia ripresi da una camera a spalla.

4 - Aerodynamic - Daft Punk diretto da Leiji Matsumoto (2001)
Scelgo questo pezzo tra tutti quelli dell'album 'Discovery', legato inscindibilmente alle immagini del cartone animato 'Interstella 5555' di Matsumoto. Durante 'Aerodynamic', i quattro protagonisti musicisti tentano di fuggire dall'attacco degli invasori. Immortale il riff elettro-rock dopo un minuto e tre secondi, che sottolinea la corsa disperata del chitarrista.

3 - We Don't Care - Audio Bullys diretto da Walter Stern (2003)
Eccezionale. La quotidianità di un ragazzino zarro di dodici anni che cammina per la periferia inglese, guarda male il proprietario di una Volkswagen, entra in un pub, si mette a flirtare con una strattona ultra quarantenne e viene bloccato da un amico più grande di lui prima di sfogarsi in una rissa. Finisce con lui che esce e torna a casa a testa bassa.

2 - Coffee & Tv - Blur
diretto da Garth Jennings (1999)
Uno dei brani più indimenticabili del gruppo di Albarn e Coxon, con quest'ultimo protagonista del video insieme a un contenitore del latte, che va alla sua ricerca perchè dato per scomparso dalla famiglia. Nel tragitto, affronterà diverse peripezie e avrà modo di innamorarsi di una contenitrice del latte femmina. Nel finale, lo stesso Coxon lo getterà nella spazzatura, ma la sua anima salirà in cielo dolcemente accompagnata.

1 - Hurt - Johnny Cash diretto da Mark Romanek (2002)
L'epitaffio di Johnny Cash. Poche cose sono più commoventi di questi quattro minuti. Dentro c'è tutta la sua vita, insieme ad alcuni passaggi di Storia degli Stati Uniti D'America. Il primo a vederlo fu Trent Reznor, l'autore originale delle canzone, che rimase senza parole. Cash la fece sua e la travolse in un pezzo incredibile, in un atto d'amore elegiaco e consapevole.