venerdì 17 gennaio 2014

Retrospective: Elio Petri - Parte Seconda

Dopo il successo di Indagine, confermarsi è difficile, per questo La classe operaia va in paradiso (1971) sarà un film complicato. Ma anche strepitoso. Le aspettative, soprattutto politiche, sono altissime: dei comunisti devono girare un film sulla classe operaia, appena dopo l’Autunno Caldo. Durante la lavorazione Volontè e Pirro per divergenze di vedute vengono più volte alle mani. L’operaio Lulù Massa (l’operaio-massa), alienato, inviso ai colleghi, perde un dito al tornio e viene licenziato. I compagni si mobilitano per la riassunzione, ma lui nel frattempo vive una crisi politica, personale, anche sessuale, che non si risolve nemmeno alla fine, nemmeno quando torna al lavoro. Il suo è un dramma personale che diventa simbolo anche di un dramma collettivo, come nella tragedia classica. Intorno alla fabbrica si muovono, inoltre, degli studenti, agitatori più a sinistra del PCI, che di fabbrica nulla sanno, ma che riescono a fare proselitismo politico, contro l’azione unitaria dei sindacati. In sostanza Petri racconta, caso unico nel cinema, credo, l’esperienza dei Comitati Unitari di Base (CUB) che lanciarono in quegli anni una sfida ai sindacati tradizionali. E ne parla male, addirittura immagina che gli studenti possano essere al soldo dei padroni, per dividere il fronte dei lavoratori. È, più o meno, la posizione del PCI di allora. Ciò provoca le critiche a Petri di certa sinistra extraparlamentare (“Bruciate la pellicola!” gridò Jean-Marie Straub dopo aver visto il film). Eppure anche il partito non è del tutto soddisfatto del lavoro. Manca, si dice, il ruolo del PCI nella vicenda, il suo rapporto con la classe operaia, e «non avendo che sfiorato nel film questo rapporto storico (…) Petri non ha potuto affrontare neppure compiutamente e fino in fondo lo stesso problema della fabbrica». Gli operai del film, inoltre, forse sono troppo veri, troppo poco idealizzati, ed il finale rischia di essere eccessivamente negativo rispetto alle prospettive future della lotta. Quali che siano le valutazioni che si vogliano fare, La classe operaia vince la palma d’oro a Cannes (ex aequo con Il caso Mattei di Rosi). Sempre dal sodalizio con Ugo Pirro nasce anche La proprietà non è più un furto, che riprende e rivede, nel titolo, la famosa frase di Proudhon. Nelle intenzioni di Petri la pellicola doveva trattare il binomio individuo-proprietà, chiudendo la trilogia iniziata con Indagine (individuo-potere) e continuata con La classe operaia (individuo-produttività). Il risultato però è vischioso, annaspa nell’allegoria, e finisce coll’essere difficilmente assimilabile, a differenza dei due titoli precedenti. 1976, arriva Todo Modo, uno dei tre capolavori di Petri, con Indagine e La classe operaia. Per capire questo film e le sue conseguenze sulla vita personale e professionale di Petri, bisogna fare un po’ di cronologia. 1973: colpo di stato in Cile; Berlinguer, segretario del PCI, teme qualcosa di simile anche in Italia; l’unica soluzione è un responsabile incontro tra i comunisti e la Democrazia Cristiana che eviti rigurgiti autoritari, insomma il Compromesso Storico. 1975: elezioni amministrative, il PCI riscuote un enorme successo, la DC cala; appare ormai impossibile lasciare i comunisti fuori dall’area di governo. 1976: nelle elezioni politiche il PCI si gioca la possibilità dell’accesso al potere, sebbene in coabitazione Questo è il contesto in cui nasce ed esce Todo Modo. Petri è contrario all’avvicinamento ai democristiani, per lui «la strategia della tensione è manovrata e provocata dalla DC». Aldo Moro «è mellifluo, è follemente ambizioso (…) egli opera perché nulla muti, ma volendo dare a tutti un’idea di un continuo mutamento». Queste sue opinioni finiscono dritte in Todo Modo, ispirato al romanzo omonimo di, ancora una volta, Sciascia. Un’intera classe dirigente, non solo politica, si ritira in un bunker, mentre il paese è travolto da un’epidemia, e compie esercizi di riabilitazione spirituale. Poi, cominciano gli omicidi: è la stessa classe dirigente, marcescente, a divorarsi. I riferimenti fisici e comportamentali a personaggi esistenti sono chiari. Volontè è Moro, poi compare Andreotti, poi il finanziere Cefis e via così. Il film esce tra aprile e maggio. A giugno ci sono le elezioni. Sulla via del Compromesso Storico, il partito non può accettare un’opera così antidemocristiana. E non la accetta. Petri viene, prima velatamente, poi apertamente criticato da “l’Unità”. Sciascia si premura di chiarire che il film è tratto «liberamente, molto liberamente» dal suo libro. Il 20 giugno il PCI ottiene il più grande successo della sua storia alle politiche, e questo dà al Compromesso Storico la sanzione definitiva. Berlinguer ha vinto, Petri e quelli come lui hanno perso. Il regista viene abbandonato dai vecchi amici. Nel 1978 la sua riduzione televisiva de Le mani sporche di Sartre viene stroncata da “l’Unità” che parla di «decadimento della tragedia in farsa». Nel ’79 esce Le buone notizie, film autoprodotto insieme a Giancarlo Giannini, protagonista della pellicola. L’accoglienza è tiepida. In effetti il film, pur visivamente impressionante, ha molti limiti e appare quasi come un lungo elenco di ossessioni indecifrabili. Ma soprattutto riflette, io credo, un momento di profonda e amara crisi. Politica, artistica, personale. All’inizio del 1981 Petri si dedica alla regia teatrale e debutta allo Stabile di Genova con L’orologio americano di Arthur Miller. Nel 1982 muore. Ora, com’è possibile che un regista così bravo, che ha ricevuto riconoscimenti in tutto il mondo, sia stato da molti dimenticato? Secondo me le ragioni sono tre. 1- L’intellighenzia di sinistra vicina al PCI di Berlinguer, il partito che finì consumato in una vedovanza a una DC che in realtà non moriva mai, lo respinse perché troppo a sinistra, e quindi smise di parlarne. Primo velo di silenzio. 2- Certa intellettualità fighetta post-sessantottina (gente poi finita a razzolare nell’orto dei padroni che un tempo odiava) lo ha osteggiato per le sue posizioni troppo convenzionali: era troppo a destra. Di Petri costoro hanno parlato poco e male. Secondo velo di silenzio. 3- L’evoluzione culturale italiana nel corso dei decenni è andata in direzione di un sempre più marcato disimpegno politico e, in tale contesto, i film di Petri sono sembrati datati. E invece non è così. Tuttavia, terzo velo di silenzio.
 
                                                                                                                                      Ivan Brentari
 
 
 
 


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