Dopo il successo di Indagine, confermarsi
è difficile, per questo La classe operaia
va in paradiso (1971) sarà un film complicato. Ma anche strepitoso. Le
aspettative, soprattutto politiche, sono altissime: dei comunisti devono girare
un film sulla classe operaia, appena dopo l’Autunno Caldo. Durante la
lavorazione Volontè e Pirro per divergenze di vedute vengono più volte alle
mani. L’operaio Lulù Massa (l’operaio-massa), alienato, inviso ai colleghi,
perde un dito al tornio e viene licenziato. I compagni si mobilitano per la
riassunzione, ma lui nel frattempo vive una crisi politica, personale, anche
sessuale, che non si risolve nemmeno alla fine, nemmeno quando torna al lavoro.
Il suo è un dramma personale che diventa simbolo anche di un dramma collettivo,
come nella tragedia classica. Intorno alla fabbrica si muovono, inoltre, degli
studenti, agitatori più a sinistra del PCI, che di fabbrica nulla sanno, ma che
riescono a fare proselitismo politico, contro l’azione unitaria dei sindacati.
In sostanza Petri racconta, caso unico nel cinema, credo, l’esperienza dei
Comitati Unitari di Base (CUB) che lanciarono in quegli anni una sfida ai
sindacati tradizionali. E ne parla male, addirittura immagina che gli studenti
possano essere al soldo dei padroni, per dividere il fronte dei lavoratori. È,
più o meno, la posizione del PCI di allora. Ciò provoca le critiche a Petri di
certa sinistra extraparlamentare (“Bruciate la pellicola!” gridò Jean-Marie
Straub dopo aver visto il film). Eppure anche il partito non è del tutto
soddisfatto del lavoro. Manca, si dice, il ruolo del PCI nella vicenda, il suo
rapporto con la classe operaia, e «non avendo che sfiorato nel film questo
rapporto storico (…) Petri non ha potuto affrontare neppure compiutamente e
fino in fondo lo stesso problema della fabbrica». Gli operai del film, inoltre,
forse sono troppo veri, troppo poco idealizzati, ed il finale rischia di essere
eccessivamente negativo rispetto alle prospettive future della lotta. Quali che
siano le valutazioni che si vogliano fare, La
classe operaia vince la palma d’oro a Cannes (ex aequo con Il caso Mattei di Rosi). Sempre dal
sodalizio con Ugo Pirro nasce anche La
proprietà non è più un furto, che riprende e rivede, nel titolo, la famosa
frase di Proudhon. Nelle intenzioni di Petri la pellicola doveva trattare il
binomio individuo-proprietà, chiudendo la trilogia iniziata con Indagine (individuo-potere) e continuata
con La classe operaia
(individuo-produttività). Il risultato però è vischioso, annaspa
nell’allegoria, e finisce coll’essere difficilmente assimilabile, a differenza
dei due titoli precedenti. 1976, arriva Todo
Modo, uno dei tre capolavori di Petri, con Indagine e La classe operaia.
Per capire questo film e le sue conseguenze sulla vita personale e
professionale di Petri, bisogna fare un po’ di cronologia. 1973: colpo di stato
in Cile; Berlinguer, segretario del PCI, teme qualcosa di simile anche in
Italia; l’unica soluzione è un responsabile incontro tra i comunisti e la
Democrazia Cristiana che eviti rigurgiti autoritari, insomma il Compromesso
Storico. 1975: elezioni amministrative, il PCI riscuote un enorme successo, la
DC cala; appare ormai impossibile lasciare i comunisti fuori dall’area di
governo. 1976: nelle elezioni politiche il PCI si gioca la possibilità
dell’accesso al potere, sebbene in coabitazione Questo è il contesto in cui
nasce ed esce Todo Modo. Petri è
contrario all’avvicinamento ai democristiani, per lui «la strategia della
tensione è manovrata e provocata dalla DC». Aldo Moro «è mellifluo, è
follemente ambizioso (…) egli opera perché nulla muti, ma volendo dare a tutti
un’idea di un continuo mutamento». Queste sue opinioni finiscono dritte in Todo Modo, ispirato al romanzo omonimo
di, ancora una volta, Sciascia. Un’intera classe dirigente, non solo politica,
si ritira in un bunker, mentre il paese è travolto da un’epidemia, e compie
esercizi di riabilitazione spirituale. Poi, cominciano gli omicidi: è la stessa
classe dirigente, marcescente, a divorarsi. I riferimenti fisici e
comportamentali a personaggi esistenti sono chiari. Volontè è Moro, poi compare
Andreotti, poi il finanziere Cefis e via così. Il film esce tra aprile e
maggio. A giugno ci sono le elezioni. Sulla via del Compromesso Storico, il
partito non può accettare un’opera così antidemocristiana. E non la accetta.
Petri viene, prima velatamente, poi apertamente criticato da “l’Unità”.
Sciascia si premura di chiarire che il film è tratto «liberamente, molto
liberamente» dal suo libro. Il 20 giugno il PCI ottiene il più grande successo
della sua storia alle politiche, e questo dà al Compromesso Storico la sanzione
definitiva. Berlinguer ha vinto, Petri e quelli come lui hanno perso. Il
regista viene abbandonato dai vecchi amici. Nel 1978 la sua riduzione
televisiva de Le mani sporche di
Sartre viene stroncata da “l’Unità” che parla di «decadimento della tragedia in
farsa». Nel ’79 esce Le buone notizie,
film autoprodotto insieme a Giancarlo Giannini, protagonista della pellicola.
L’accoglienza è tiepida. In effetti il film, pur visivamente impressionante, ha
molti limiti e appare quasi come un lungo elenco di ossessioni indecifrabili.
Ma soprattutto riflette, io credo, un momento di profonda e amara crisi.
Politica, artistica, personale. All’inizio del 1981 Petri si dedica alla regia
teatrale e debutta allo Stabile di Genova con L’orologio americano di Arthur Miller. Nel 1982 muore. Ora, com’è
possibile che un regista così bravo, che ha ricevuto riconoscimenti in tutto il
mondo, sia stato da molti dimenticato? Secondo me le ragioni sono tre. 1-
L’intellighenzia di sinistra vicina al PCI di Berlinguer, il partito che finì
consumato in una vedovanza a una DC che in realtà non moriva mai, lo respinse
perché troppo a sinistra, e quindi smise di parlarne. Primo velo di silenzio. 2- Certa intellettualità
fighetta post-sessantottina (gente poi finita a razzolare nell’orto dei padroni
che un tempo odiava) lo ha osteggiato per le sue posizioni troppo
convenzionali: era troppo a destra. Di Petri costoro hanno parlato poco e male. Secondo velo di silenzio. 3-
L’evoluzione culturale italiana nel corso dei decenni è andata in direzione di
un sempre più marcato disimpegno politico e, in tale contesto, i film di Petri
sono sembrati datati. E invece non è così. Tuttavia, terzo velo di silenzio.
Ivan Brentari
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