Il bello, il brutto e il cattivo dedica una retrospettiva al grande e
per certi versi dimenticato regista Elio
Petri, in occasione degli 85 anni dalla nascita (29 gennaio 1929). Le citazioni
nel pezzo sono da considerarsi provenienti da Elio Petri di Alfredo Rossi (La Nuova Italia, 1979), o da vari
articoli dell’epoca de “l’Unità”. Per chi volesse ulteriormente approfondire,
consigliamo una visita all’aggiornatissimo sito eliopetri.net, oltre che la
visione del bel documentario Elio Petri,
appunti su un autore, reperibile su Youtube.
La figura di Elio Petri è figura complessa. Figlio del
proletariato urbano romano, Petri non completa gli studi. La sua scuola si
trova «per le strade, nelle cellule del partito comunista, nei cantieri del
genio civile, al cinema, al varietà, nelle biblioteche comunali, leggendo i
giornali e le riviste del partito, amando “Politecnico”, facendo la scuola di
partito, nelle lotte dei disoccupati (…)». Comincia negli anni Cinquanta come
«vice-titolare della rubrica cinematografica de “l’Unità”» e poi diventa
assistente di Giuseppe De Santis, per il quale scrive diverse sceneggiature. Militante
del PCI, resta vicino al partito anche dopo i fatti d’Ungheria del 1956, ma mai
su posizioni piattamente acritiche. Il partito lo riama, lo coccola, gli offre
visibilità, almeno fino ad un certo momento. L’assassino (1961), suo lungometraggio d’esordio ambientato a Roma,
vede Marcello Mastroianni, ricettatore infame e un po’ cialtrone, coinvolto
nell’omicidio dell’amante. Il film fu censurato perché dava un’immagine
negativa della polizia italiana, pronta anche ad usare metodi poco ortodossi
per estorcere confessioni ai sospettati. Il secondo film, I giorni contati, vincitore del Festival di Mar De La Plata ’62, è
indubbiamente il più riuscito della prima parte della sua carriera. Un signore
di mezza età, interpretato da Salvo Randone, vede morire un uomo e comincia a
ragionare sulla propria vita. Non riesce più a lavorare, tutto perde senso. Si
tratta di una riflessione sul rapporto tra tempo e vita, sul degrado nascosto
che si cela nelle esistenze più comuni. Nel ’63 arriva la grande produzione. De
Laurentiis finanzia Il maestro di
Vigevano, tratto dal libro omonimo di Lucio Mastronardi, e offre il ruolo
di protagonista ad Alberto Sordi, che impersona un insegnante elementare di
ambizioni borghesi ma costretto a misurarsi con la propria condizione economica
di povero. È il film peggiore di Petri, qui troppo schiacciato dalla
personalità di Sordi. In realtà, per altro, Petri avrebbe dovuto dirigere I Mostri (la sceneggiatura è sua) e Risi
Il maestro di Vigevano, ma poi la
produzione optò per un’inversione tra i due. La decima vittima (1965), tratto da un racconto di Robert Sheckley,
è un film di respiro internazionale e stilisticamente moderno, prodotto e
mutilato, nel finale, da Carlo Ponti. In un futuro fumettistico, le autorità,
per incanalare la violenza sociale, hanno organizzato un grande gioco in cui
cacciatori e prede si fronteggiano in una gara di morte, cercando di rimanere
vivi. Ursula Andress caccia un Mastroianni insolitamente biondo, ma i due poi
si innamorano e volano verso il finale edulcorato dalla produzione. Con A ciascuno il suo (1967), tratto dal
romanzo di Sciascia, comincia con maggior forza a baluginare in lontananza l’attitudine
politica del cinema di Petri, che, fino ad allora, era stata percepibile ma non
manifesta. La storia parla di una Sicilia controllata da una mafia che c’è ma
non si vede e di un intellettuale vicino al PCI (Gian Maria Volontè) che cerca
di risolvere un mistero. La locandina del film fu sequestrata per via della
manina furbetta di Volontè che si infila tra le cosce di Irene Papas. La
pellicola vinse il premio per la sceneggiatura a Cannes. Un tranquillo posto di campagna (1968), orso d’argento a Berlino,
segna la svolta del cinema di Elio Petri. Il plot ruota attorno alle
insicurezze e vertigini creative di un pittore di successo, le sue angosce, le
sue fissazioni sentimentali e sessuali, il rischio di un’arte che diventa
autoreferenziale. Era anche un’ossessione di Petri: «Dovevo affrontare i
problemi di un artista che aveva perso l’ispirazione, nel senso romantico del
termine, e che cercava di ritrovare i suoi rapporti con la realtà, ma
ingannandosi (…). È stato a quel momento che ho deciso di non girare che film
politici». O forse film popolari; per Petri politico
e popolare sono sinonimi. L’opera è
anche una svolta stilistica. Affiorano finalmente le inquadrature allucinate e
funzionali alla resa drammatica della psicopatologia individuale e sociale, dell’allegoria
politica. Un universo onirico che in Fellini affascina con una certa
frivolezza, ma in Petri dilania. Nel 1969 c’è il botto. A Petri si affianca lo
sceneggiatore Ugo Pirro, suo compagno anche per i successivi due film, e
insieme scrivono Indagine su un cittadino
al di sopra di ogni sospetto. Il protagonista, un clamoroso Volontè, è un
alto funzionario di polizia che commette un omicidio e cerca di farsi arrestare
dai suoi colleghi. Solo che non può
essere arrestato. È travolto dalla propria psicologia infantile, perversa, che
altro non è che l’allegoria stessa del Potere: stupido, crudele, arbitrario.
Un’allegoria che però affonda le radici nel reale. Volontè parla siciliano,
come molti degli alti dirigenti delle forze di polizia. È uno sbirro reale,
così come reale è stata la violenza della Celere sugli studenti, pochi mesi
prima dell’uscita del film. L’opera fa scalpore anche all’estero e viene
recensita positivamente da Vincent Canby sul “New York Times”. È il primo passo
verso l’oscar, che infatti arriva. Petri non va a ritirarlo, si fa sostituire
dall’attrice Leslie Caron. Qualche settimana dopo, Indagine riceverà, sempre in America, anche il “Premio Edgar Allan
Poe” per la sceneggiatura.
CONTINUA...
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