venerdì 17 gennaio 2014

Retrospective: Elio Petri - Parte Prima

Il bello, il brutto e il cattivo dedica una retrospettiva al grande e per certi  versi dimenticato regista Elio Petri, in occasione degli 85 anni dalla nascita (29 gennaio 1929). Le citazioni nel pezzo sono da considerarsi provenienti da Elio Petri di Alfredo Rossi (La Nuova Italia, 1979), o da vari articoli dell’epoca de “l’Unità”. Per chi volesse ulteriormente approfondire, consigliamo una visita all’aggiornatissimo sito eliopetri.net, oltre che la visione del bel documentario Elio Petri, appunti su un autore, reperibile su Youtube.
 

La figura di Elio Petri è figura complessa. Figlio del proletariato urbano romano, Petri non completa gli studi. La sua scuola si trova «per le strade, nelle cellule del partito comunista, nei cantieri del genio civile, al cinema, al varietà, nelle biblioteche comunali, leggendo i giornali e le riviste del partito, amando “Politecnico”, facendo la scuola di partito, nelle lotte dei disoccupati (…)». Comincia negli anni Cinquanta come «vice-titolare della rubrica cinematografica de “l’Unità”» e poi diventa assistente di Giuseppe De Santis, per il quale scrive diverse sceneggiature. Militante del PCI, resta vicino al partito anche dopo i fatti d’Ungheria del 1956, ma mai su posizioni piattamente acritiche. Il partito lo riama, lo coccola, gli offre visibilità, almeno fino ad un certo momento. L’assassino (1961), suo lungometraggio d’esordio ambientato a Roma, vede Marcello Mastroianni, ricettatore infame e un po’ cialtrone, coinvolto nell’omicidio dell’amante. Il film fu censurato perché dava un’immagine negativa della polizia italiana, pronta anche ad usare metodi poco ortodossi per estorcere confessioni ai sospettati. Il secondo film, I giorni contati, vincitore del Festival di Mar De La Plata ’62, è indubbiamente il più riuscito della prima parte della sua carriera. Un signore di mezza età, interpretato da Salvo Randone, vede morire un uomo e comincia a ragionare sulla propria vita. Non riesce più a lavorare, tutto perde senso. Si tratta di una riflessione sul rapporto tra tempo e vita, sul degrado nascosto che si cela nelle esistenze più comuni. Nel ’63 arriva la grande produzione. De Laurentiis finanzia Il maestro di Vigevano, tratto dal libro omonimo di Lucio Mastronardi, e offre il ruolo di protagonista ad Alberto Sordi, che impersona un insegnante elementare di ambizioni borghesi ma costretto a misurarsi con la propria condizione economica di povero. È il film peggiore di Petri, qui troppo schiacciato dalla personalità di Sordi. In realtà, per altro, Petri avrebbe dovuto dirigere I Mostri (la sceneggiatura è sua) e Risi Il maestro di Vigevano, ma poi la produzione optò per un’inversione tra i due. La decima vittima (1965), tratto da un racconto di Robert Sheckley, è un film di respiro internazionale e stilisticamente moderno, prodotto e mutilato, nel finale, da Carlo Ponti. In un futuro fumettistico, le autorità, per incanalare la violenza sociale, hanno organizzato un grande gioco in cui cacciatori e prede si fronteggiano in una gara di morte, cercando di rimanere vivi. Ursula Andress caccia un Mastroianni insolitamente biondo, ma i due poi si innamorano e volano verso il finale edulcorato dalla produzione. Con A ciascuno il suo (1967), tratto dal romanzo di Sciascia, comincia con maggior forza a baluginare in lontananza l’attitudine politica del cinema di Petri, che, fino ad allora, era stata percepibile ma non manifesta. La storia parla di una Sicilia controllata da una mafia che c’è ma non si vede e di un intellettuale vicino al PCI (Gian Maria Volontè) che cerca di risolvere un mistero. La locandina del film fu sequestrata per via della manina furbetta di Volontè che si infila tra le cosce di Irene Papas. La pellicola vinse il premio per la sceneggiatura a Cannes. Un tranquillo posto di campagna (1968), orso d’argento a Berlino, segna la svolta del cinema di Elio Petri. Il plot ruota attorno alle insicurezze e vertigini creative di un pittore di successo, le sue angosce, le sue fissazioni sentimentali e sessuali, il rischio di un’arte che diventa autoreferenziale. Era anche un’ossessione di Petri: «Dovevo affrontare i problemi di un artista che aveva perso l’ispirazione, nel senso romantico del termine, e che cercava di ritrovare i suoi rapporti con la realtà, ma ingannandosi (…). È stato a quel momento che ho deciso di non girare che film politici». O forse film popolari; per Petri politico e popolare sono sinonimi. L’opera è anche una svolta stilistica. Affiorano finalmente le inquadrature allucinate e funzionali alla resa drammatica della psicopatologia individuale e sociale, dell’allegoria politica. Un universo onirico che in Fellini affascina con una certa frivolezza, ma in Petri dilania. Nel 1969 c’è il botto. A Petri si affianca lo sceneggiatore Ugo Pirro, suo compagno anche per i successivi due film, e insieme scrivono Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto. Il protagonista, un clamoroso Volontè, è un alto funzionario di polizia che commette un omicidio e cerca di farsi arrestare dai suoi colleghi. Solo che non può essere arrestato. È travolto dalla propria psicologia infantile, perversa, che altro non è che l’allegoria stessa del Potere: stupido, crudele, arbitrario. Un’allegoria che però affonda le radici nel reale. Volontè parla siciliano, come molti degli alti dirigenti delle forze di polizia. È uno sbirro reale, così come reale è stata la violenza della Celere sugli studenti, pochi mesi prima dell’uscita del film. L’opera fa scalpore anche all’estero e viene recensita positivamente da Vincent Canby sul “New York Times”. È il primo passo verso l’oscar, che infatti arriva. Petri non va a ritirarlo, si fa sostituire dall’attrice Leslie Caron. Qualche settimana dopo, Indagine riceverà, sempre in America, anche il “Premio Edgar Allan Poe” per la sceneggiatura.
CONTINUA...
                                                                                                                                    Ivan Brentari
 
 

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