domenica 30 ottobre 2011

La Peggior Settimana Della Mia Vita (voto 6)

Non è da confendersi con le altre commedie italiote che hanno sbancato recentemente i botteghini (Brizzi, Benvenuti al Sud, ecc.) l'opera prima del commediografo Alessandro Genovesi 'La peggior settimana della mia vita'. Fin da subito, è evidente che il tentativo è quello di trasportare in versione nazional-popolare la tradizione della screwball comedy, utilizzando la classica contrapposizione di personaggi diversissimi dal punto di vista sociale/ideologico/umano e riempiendo la vicenda di situazioni paradossali, giocate più sulla fisicità e sul linguaggio del corpo degli attori che sul piano verbale, privilegiando lo slapstick alla battuta. Gli esempi celebri di questo tipo di comicità sono numerosissimi e vanno da Buster Keaton e Charlie Chaplin a Mister Bean e Benny Hill. In Italia, abbiamo avuto un poeta di questo tipo di comicità come Paolo Villaggio, che con i vari fantozzi rimane un oggetto piuttosto raro e forse da identificare del tutto, dal momento che c'è ancora chi non riconosce pienamente il genio e la forza dirompente del suo personaggio, almeno nei suoi primi film. Per il resto, la tradizione della commedia italiana ha sempre preferito il dialogo, la battuta, il tormentone alla comicità del corpo. Oltre a Villaggio, ci sono state altre eccezioni come Massimo Boldi, Antonio Albanese e, ora, Fabio De Luigi. Trovo che De Luigi abbia un potenziale comico davvero straordinario ma che ancora non sia stato compreso o sfruttato del tutto perchè sempre relegato alla solita macchietta del fidanzato goffo e tontolone. Dopo i vari sketch televisivi di 'Love Bugs' e i personaggi di Brizzi, il rischio è che al cinema rimanga sempre vittima di questa figurina e che il meglio possa essere gustato soltanto recuperando le vecchie puntate di 'Mai Dire Gol' (ricordate Bastilani, Fabius o l'ingegner Cane?). Anche ne 'La peggior settimana della mia vita' il personaggio è lo stesso. Il film è quasi un remake di 'Ti presento i miei' e va, dunque, apprezzato che Genovesi abbia provato a rivolgersi a modelli comici inediti per il panorama italiano. A parte il discorso su De Luigi, Genovesi non poteva scegliere un cast migliore. Cristiana Capotondi conferma di essere assolutamente adorabile e di essere la migliore attrice italiana possibile per una commedia, Siani utilizzato come personaggio di contorno è impeccabile e i genitori Antonio Catania e Monica Guerritore sono due che conoscono piuttosto bene il mestiere. Purtroppo, malgrado le idee, i modelli, gli attori, non tutto funziona alla perferzione. Perchè alcune gag sono riuscite ma altre no. Perchè la seconda parte è un po' tirata via. Perchè Genovesi non ha il coraggio di spingere fino in fondo il pedale della cattiveria e, alla fine, il film si allinea con tutte le altre prevedibili produzioni nostrane. E si esce dal cinema un'altra volta con il dubbio che certe cose le sappiano fare tanto bene solo Oltreoceano e con la certezza che ancora stiamo aspettando qualcuno che faccia uscire il cinema italiano leggero dal tunnel del "sole-cuore-amore".

martedì 25 ottobre 2011

Una Separazione (voto 7)

Il cinema iraniano continua a mostrarsi come un prodotto molto vivace, capace di documentare una realtà piena di contraddizioni e di ingiustizie con grande sensibilità umana e psicologica. Dopo padre e figlia Makhmalbaf (autori di film come 'Viaggio a Kandahar' e 'Lavagne') e, soprattutto, dopo Jafar Panahi (Leone D'Oro a Venezia per 'Il cerchio' e autore del bellissimo 'Il palloncino bianco'), scandalosamente condannato dalle autorità iraniane a sei anni di reclusione a causa di partecipazione ai movimenti di protesta contro il regime, scopriamo un regista come Asghar Farhadi, arrivato alla sua seconda opera dopo 'About Elly'. 'Una separazione' prende decisamente le distanze dal cinema allegorico dei conterranei di Farhadi e si rivela come un film di grandiosa concretezza, sorretto da un interessante intreccio narrativo. Da un certo punto di vista, è giusto considerarlo un lavoro strepitoso e l'Orso D'Oro al Festival di Berlino non può che essere giustificato dal fatto che fare cinema di questo livello all'interno di un contesto come la società iraniana, descrivendola selvaggiamente senza filtri e senza ipocrisie, è un atto coraggioso di libertà e un inno al cinema e all'arte. Se fossi un critico cinematografico e non un semplice appassionato di cinema col suo blog un po' da nerd, mi fermerei qua e consiglierei caldamente 'Una separazione' perchè è cinema importante, cinema che fa conoscere, cinema che insegna. Detto questo, non posso negare che il flusso imponente di dialoghi e di parole che vengono utilizzati da Farhadi e l'espediente narrativo che occupa tutta la parte centrale del film per raccontare le discutibilissime procedure legali della giustizia iraniana si rivelino piuttosto estenuanti e faticose. In alcune recensioni, è stato tirato in mezzo addirittura Alfred Hitchcock. Ma dove? Un conto è comprendere un determinato tipo di cinema e contestualizzarlo, un altro è azzardare paragoni del tutto fuori luogo che rischiano soltanto di deludere le aspettative dello spettatore. Preso per quello che è, 'Una separazione' è un buon film che da una parte descrive una cultura ottusa in maniera vivida e cruda, dall'altra suggerisce che la verità non sta mai soltanto da una parte, che non esistono buoni o cattivi ma soltanto parti che si dilaniano per sopravvivere. A essere veramente straordinaria è l'interpretazione degli attori protagonisti, che hanno ancora più giustamente vinto l'Orso d'Argento. Per concludere, 'Una separazione' può essere un buon esempio per definire la parola "interessante". I Maestri del Cinema, forse, però stanno da qualche altra parte.

lunedì 17 ottobre 2011

Amici Di Letto (voto 7)

"Lei è il sesso". Così Vincent Cassel definisce Mila Kunis nel capolavoro cignonero e direi che affermazione non potrebbe essere più azzeccata, considerando oltretutto che proviene dall'uomo sposato con una delle donne più belle del mondo, quindi si tratta di uno che in materia ne capisce. E ne capisce senz'altro anche Justin Timberlake che in 'Friend with benefits' (titolo originale molto più cool) la sceglie come "trombamica", termine che evito di spiegare poichè immagino che i miei lettori abbiano già una cultura tale da sapere di cosa si sta parlando. Beh, che dire, il film è molto carino e divertente. Già in 'Easy Girl' Will Gluck aveva dimostrato di saper tenere un gran ritmo per le battute e per gli incastri comici e in 'Friends with benefits', inoltre, può servirsi di un gruppo di caratteristi davvero sensazionale (Richard Jenkins e, soprattutto, il solitamente macho Woody Harrelson nei panni di un caporedattore sportivo omosessuale). Justin non è male, non è graffiante come in 'The Social Network' ma non possiamo negare che la carriera attoriale non l'abbia tentata a caso. Certo, il suo sex appeal per il pubblico femminile non è una novità e, dunque, anche le sue più grandi fan dovranno riconoscere che rimane decisamente oscurato dalla incredibile Mila Kunis. Il fatto è che Mila non è solo una gnocca strepitosa ma possiede anche un talento comico fa-vo-lo-so (e poi in Italia ci entusiasmiamo per le smorfie delle cortellesi, ma dai). Già da subito dimostra di essere una vera mattatrice, come nella scena delle imitazioni dei diversi approcci nei colloqui di lavoro. Tiene benissimo il ruolo comico così come è assolutamente credibile nella sua evoluzione in "trombamica" pentita, adattandosi perfettamente nel genere più canonico della commedia sentimentale. E il fatto che sia un'attrice a tutto tondo è già dimostrato dal capolavoro cignonero, nel quale Aronofsky le regala un ruolo potentissimo e indimenticabile (e se ne era accorto anche un certo Quentin Tarantino che le ha assegnato il Premio Mastroianni a Venezia). In questo momento storico, Mila può fare tutto quello che vuole: nascendo artisticamente come doppiatrice di Meg Griffin possiede anche quell'alone di autoironia da farla piacere proprio a chiunque. Inoltre, Maxim l'ha appena posizionata al secondo posto tra le donne più sexy del mondo. Mi fermo qui. Mi rendo conto di essermi un po' lasciato prendere dall'entusiasmo del momento nei confronti di una donna meravigliosa e di aver trascurato gli aspetti critici e le diverse chiavi di lettura di un bellissimo film come 'Friends with benefits'. Ma forse, in fondo, la chiave di lettura possibile per 'Friends with benefits' è una sola: Mila Kunis.

sabato 15 ottobre 2011

This Must Be The Place (voto 5)

Paolo Sorrentino è il miglior regista italiano oggi ma, va detto subito, 'This Must Be The Place' non è un film riuscito. Esistono senz'altro motivazioni valide che permettono di perdonare il regista partenopeo di fronte alla sua prima opera girata in lingua inglese e con una produzione internazionale. Innanzitutto, tornare dietro alla macchina da presa dopo 'Il Divo' non è certo facile dal momento che si è trattato di un capolavoro riconosciuto all'unanimità. In seguito, presentarsi di fronte a un nuovo pubblico (in primis quello americano, è evidente) richiede una notevole attenzione a non sbagliare mira, a individuare precisamente quali possano essere i temi più in voga per conquistare una nuova fetta di spettatori (la vendetta, l'Olocausto, le lobby ebraiche). Ed è proprio questa eccessiva programmaticità che impedisce di accendere 'This Must Be The Place'. Il regista ha preferito sfoggiare la sua capacità tecnica e la sua visionarietà piuttosto che concentrarsi sulla sostanza dei contenuti e sulla necessarietà delle emozioni. I virtuosismi tecnici che infiammavano i suoi precedenti lavori erano assolutamente funzionali alle vicende dei protagonisti, rivelandosi ora ipnotici ('Le conseguenze dell'amore'), ora caustici ('L'amico di famiglia'), ora adrenalinici ('Il Divo'). Il grande rischio di una tale eccezionalità tecnica è la caduta nel manierismo ed è, purtroppo, quello che succede in 'This Must Be The Place'. I movimenti di macchina e le diverse invenzioni di regia se non sono supportati da una narrazione veramente interessante non possono che rivelarsi puri leziosismi. Ed è anche questa un'altra grande lacuna: la vicenda non riesce mai a coinvolgere pienamente. Il personaggio di Sean Penn (sopra le righe) non ha nè il maledettismo neoromantico dei personaggi che venivano meravigliosamente interpretati da Servillo ma nemmeno la mostruosità fisica e umana di Rizzo ne 'L'amico di famiglia'. Il protagonista Cheyenne non affascina e non è in grado di far creare quell'empatia con lo spettatore che anche i personaggi più sgradevoli dei precedenti lavori riuscivano a trasmettere. Una scena, in particolare, può essere emblematica: lo sfogo da rockstar pentita di fronte a Byrne vorrebbe avere la forza dirompente di quelli di Tony Pisapia e di Giulio Andreotti ma non è altro che una banale riesumazione dei più classici luoghi comuni sullo show business. A deludere veramente, dunque, è la scrittura del film e questo sinceramente non c'era da aspettarselo. Paradossalmente, un regista decisamente meno talentuoso, più conservatore e retorico come Muccino era riuscito nella sua prima opera "straniera" ('La ricerca della felicità') a non ricercare il numero a effetto ma semplicemente a raccontare una storia di buoni sentimenti che si sposava perfettamente con l'ideale dell'american dream. Sorrentino, invece, si addentra superficialmente nella descrizione di una provincia americana nei suoi lati più desolati e insensati (vedi l'indiano che si fa lasciare in mezzo all'autostrada) già inquadrata da altri grandi registi con ben maggiore sensibilità (Wenders, Coen, Payne ma pure Cameron Crowe). Niente di grave, Sorrentino ha già ampiamente dimostrato il suo talento e non ho dubbi che nelle prossime opere avrà modo di regalarci ulteriori conferme.

martedì 11 ottobre 2011

Top Ten Anni 90 e Zero Italians (per chi deve scaricare e non sa proprio che vedersi)

Anni 90

1 - 'La Vita è Bella' di Roberto Benigni (1997)

2 - 'Il Ladro Di Bambini' di Gianni Amelio (1992)

3 - 'Totò Che Visse Due Volte' di Daniele Ciprì e Franco Maresco (1998)

4 - 'Ovosodo' di Paolo Virzì (1997)

5 - 'Mediterraneo' di Ganriele Salvatores (1991)

6 - 'Tutti Giù Per Terra' di Davide Ferrario (1997)

7 - 'Lucignolo' di Massimo Ceccherini (1999)

8 - 'La Scuola' di Daniele Luchetti (1995)

9 - 'Radiofreccia' di Luciano Ligabue (1998)

10 - 'Viaggi Di Nozze' di Carlo Verdone (1995)


Anni Zeri

1 - 'Il Divo' di Paolo Sorrentino (2008)

2 - 'L'Ora Di Religione' di Marco Bellocchio (2002)

3 - 'I Cento Passi' di Marco Tullio Giordana (2000)

4 - 'Gomorra' di Matteo Garrone (2008)

5 - 'Il Caimano' di Nanni Moretti (2006)

6 - 'Dieci Inverni' di Valerio Mieli (2009)

7 - 'Non Pensarci' di Gianni Zanasi (2007)

8 - 'Mio Fratello è Figlio Unico' di Daniele Luchetti (2007)

9 - 'Dopo Mezzanotte' di Davide Ferrario (2004)

10 - 'Tutta La Vita Davanti' di Paolo Virzì (2008)

Top Ten Anni 90 e Zero (per chi deve scaricare e non sa che vedersi)

Anni Novanta

1 - 'The Truman Show' di Peter Weir (Usa, 1998)

2 - 'Pulp Fiction' di Quentin Tarantino (Usa, 1994)

3 - 'Hana-Bi' di Takeshi Kitano (Giappone, 1997)

4 - 'Eyes Wide Shut' di Stanley Kubrick (Usa, 1999)

5 - 'L'Odio' di Mathieu Kassovitz (Francia, 1995)

6 - 'Boogie Nights' di Paul Thomas Anderson (Usa, 1997)

7 - 'Fargo' di Joel ed Ethan Coen (Usa, 1995)

8 - 'Il Silenzio Degli Innocenti' di Jonathan Demme (Usa, 1991)

9 - 'Clerks - Commessi' di Kevin Smith (Usa, 1994)

10 - 'Swingers' di Doug Liman (Usa, 1996)



Anni Zeri

1 - 'Into The Wild' di Sean Penn (Usa, 2008)

2 - 'Old Boy' di Park Chan-Wook (Corea del Sud, 2003)

3 - 'L'Uomo Che Non C'Era' di Joel ed Ethan Coen (Usa, 2001)

4 - 'Mystic River' di Clint Eastwood (Usa, 2003)

5 - 'La Venticinquesima Ora' di Spike Lee (Usa, 2003)

6 - 'Match Point' di Woody Allen (Usa, 2005)

7 - 'Collateral' di Michael Mann (Usa, 2004)

8 - 'Il Nastro Bianco' di Michael Haneke (Germania/Austria, 2009)

9 - 'Le Vite Degli Altri' di Florian Henckel Von Donnersmarck (Germania, 2006)

10 - 'Big Fish' di Tim Burton (Usa, 2003)

sabato 8 ottobre 2011

L'Amore Che Resta (voto 8) IL FILM DEL MESE

Gus Van Sant non è certamente nuovo ad esplorare l'età della giovinezza nei suoi aspetti più difficili e traumatici. Uno spartiacque netto della sua filmografia è stato 'Elephant', col quale ha inaugurato un percorso sulla relazione tra adolescenza e morte che porta il suo compimento nell'ultimo 'L'amore che resta'. Se nelle prime due opere che hanno affrontato questo tema l'Adolescente si trovava a relazionarsi alla morte in maniera volontaria (in 'Elephant' l'omicidio doloso, in 'Last Days' il suicidio), nelle ultime Van Sant analizza l'Adolescente di fronte alla morte come evento ineluttabile e incontrollabile (in 'Paranoid Park' l'omicidio colposo, ne 'L'amore che resta' la malattia). La grande novità di quest'ultimo lavoro sta nel fatto che Van Sant non si limita più a descrivere le azioni e i comportamenti dei suoi giovani protagonisti rifiutando ogni tipo di giudizio sulle loro scelte ma appoggia esplicitamente il loro sguardo e le loro ragioni. 'L'amore che resta' ha un registro stilistico completamente diverso dai precedenti: un approccio caldo e affettuoso lontano anni luce dalla regia fredda e distaccata di 'Elephant'. E' evidente che Van Sant sia rimasto colpito da alcune delle nuove commedie sentimentali americane ('Juno' e 'Nick&Norah') e abbia voluto adottare in toto il loro universo indie. Dal look dei protagonisti all'utilizzo della colonna sonora, il regista americano utilizza non solo stilisticamente ma filosoficamente l'indie per coinvolgere lo spettatore nel (melo)dramma vissuto dai protagonisti. Nei precedenti lavori, infatti, dominava l'attitudine grunge sia da un punto di vista estetico ma soprattutto da un punto di vista esistenzialista: i protagonisti di 'Elephant' così come la rockstar Blake di 'Last Days' così come il ragazzo di 'Paranoid Park' erano pervasi da apatia e (auto)distruzione, attoniti e passivi di fronte al verificarsi degli eventi. Lo sguardo di Van Sant era rispettoso nei loro confronti ma si limitava a constatare. Ne 'L'amore che resta', invece, sono utilizzati gli stilemi dell'innamoramento del cinema più classico: lo spettatore è portato ad immedesimarsi in loro e questo è dovuto a una costruzione stilistica diretta a questo fine preciso. Nelle canzoni dei Death Cab For Cutie (per chi scrive, la band indie numero uno) l'amore, la malinconia e la morte sono temi ricorrenti e vengono ripresi da Van Sant in forma immaginifica. L'indie, infatti, non porta con sè una critica generazionale come il grunge, si rivolge alla forma privata dell'emotività. Non avendo, dunque, nemmeno una valenza politica, Van Sant lo utilizza come l'approccio ideale a un racconto d'amore, di adolescenza e di morte nel quale l'occhio sociologico è sostituito da quello dell'emozione. E così, il regista può non limitarsi a constatare ma può porsi nella maniera più assoluta dalla parte dei suoi protagonisti. A questo punto, preferirei evitare qualsiasi accenno allo sviluppo narrativo del film e alle sue scene romantiche e struggenti (donne, preparate i fazzoletti). Non credo che 'L'amore che resta' sia il capolavoro assoluto di un cineasta meraviglioso ('Paranoid Park, in particolare, aveva un'idea di cinema più ampia) ma sono convinto che abbia una forza popolare tale da farlo diventare uno dei film di riferimento di una generazione.

giovedì 6 ottobre 2011

L'Alba Del Pianeta Delle Scimmie (voto 7)

'L'alba del pianeta delle scimmie' è un film che potrebbe entrare nella storia. Non perchè sia un capolavoro ma perchè si tratta del primo prequel decisamente superiore all'originale, anzi, agli originali dal momento che il regista Rupert Wyatt si rivolge sia al film di Schaffner che a quello di Burton. Il primo si è rivalato incapace di resistere al passare del tempo, intriso di numerose lungaggini, ora è un film che purtroppo fa sorridere involontariamente. Il secondo è un remake sulla carta apprezzabile ma Burton non è stato in grado di restituire il suo tocco grottesco a un soggetto di per sè molto interessante. Questo prequel sostituisce, inoltre, ogni fastidiosa pretesa moraleggiante con una invidiabile onestà intellettuale. 'L'alba del pianeta delle scimmie', infatti, è un eccellente prodotto di consumo, un abilissimo prodotto medio che ha decisamente nei momenti d'azione e negli effetti speciali il suo punto forte. Si tratta di quel cinema americano medio che se ben congegnato sbanca, a ragione, i botteghini. Quel cinema che, senza insultare l'intelligenza di nessuno spettatore, pùo essere coinvolgente sia per chi al cinema va solo per intrattenimento sia per chi ha una base cinematografica più solida. Da una parte, avremo appassionati del genere che si entusiasmeranno per le prodezze della motion capture, dall'altra cinefili che apprezzeranno citazioni come quella a 'Ran' di Kurosawa. Cesare è il Messia, la guida che dopo aver subìto innumerevoli vessazioni si erge a profeta del popolo scimmiesco organizzando una rivolta che culminerà nell'occupazione di San Francisco, in una delle sequenze tecnicamente più emozionanti degli ultimi anni. Senza troppi fronzoli, e accompagnato dal bravo e simpatico James Franco, 'L'alba del pianeta delle scimmie' è un film che porta a casa la pagnotta, impeccabile cinema di genere che non pretende pipponi intellettuali ma che regala solo puro divertimento.

sabato 1 ottobre 2011

Terraferma (voto 5)

'Terraferma' è il "tique-taca" del cinema italiano. Emanuele Crialese è un regista che gioca a memoria, impeccabile e prevedibile. Nel suo approccio alla macchina da presa non c'è spazio per il genio, per l'invenzione, per il colpo imprevedibile, tutto è perfetto e risaputo. Bella fotografia, temi importanti, sguardo epico, tanta retorica. Il regista di origini sicilane, dopo gli emigrati di 'Nuovomondo', non si risparmia e si concentra sugli immigrati africani e sulla loro fuga disperata e senza meta. Linosa è solo una tappa del loro viaggio. Che cinema importante e imponente, senza una sbavatura, verrebbe da pensare. Non importa che i personaggi siano delle macchiette, che la contrapposizione turisti/immigrati sia vecchia come il cucco, che la lezioncina didascalica poteva essere appresa senza spendere i famigerati otto euro del cinema. Come dice il grande Nanni Moretti (lui sì che in 'Habemus Papam' gioca col cinema e lo reinventa e lo ridefinisce) ne 'Il Caimano': "Non l'ho visto ma è come se l'avessi già visto." Perchè il cinema di Crialese è quanto di più ben educato ci sia: come si potrebbe parlare male di un lavoro tecnicamente impeccabile e con una tematica così attuale? Per l'amor del cielo, lungi da me bocciare un film ideologicamente giusto e sacrosanto. Se, però, dal cinema italiano pretendiamo qualcosa di graffiante, originale, non serve andare troppo lontano: più penso a quel capolavoro a metà che è 'L'ultimo terrestre' e più mi rendo conto che il tanto agognato nuovo cinema italiano si può fare. Ma si cambia sbagliando, rischiando. 'Terraferma', dunque, è un lavoro di bellissima calligrafia che rassicura e che dice quello che ci vogliamo sentir dire. Ed è un vero peccato, anche perchè i primi venti minuti di interno famigliare sono deliziosi e degni del miglior Tornatore. E, soprattutto, perchè Donatella Finocchiaro è, insieme ad albarohrwacher, la più grande attrice italiana oggi (diversissime le due, la prima figlia della grande tradizione italiana, la seconda la più internazionale tra tutte, entrambi tre spanne sopra le altre). Oltre a essere una bomba sexy mediterranea, è un talento chiarissimo e limpidissimo come le acque di Linosa, arrivato al cinema tardi ma non troppo per avere già un paio di interpretazioni alle spalle da applausi a scena aperta ('Il regista di matrimoni', 'Galantuomini'). E così è lei e solo lei a essere l'unica scheggia in un mosaico che era già pronto per l'esportazione prima di essere concluso. Sarebbe stupido incattivirsi contro film come il nuovomondo e la terraferma ma sarebbe ancora più stupido pensare sul serio che questo sia il cinema italiano di cui abbiamo bisogno.