sabato 23 maggio 2015

Youth - La Giovinezza

Io non guardo il tramonto sentendo le voci, penso solo che Dio ha un bell'impianto luci.

Mi ha sorpreso molto che questa volta Paolo Sorrentino non si sia lasciato travolgere dai suoi virtuosismi e che sia tornato a direzionare il suo impressionante talento registico alle funzionalità di un contenuto che si coniuga perfettamente con la sua forma, che aderisce in maniera totale a una messa in scena luccicante, sontuosa, figurativamente impeccabile. I preziosismi tecnici di Youth - La giovinezza si ritrovano nei passaggi più descrittivi, mentre nei momenti chiave della pellicola lo stile si fa essenziale e misurato, al servizio della narrazione. Questo non accadeva in This Must Be The Place e ne La grande bellezza, tacciati dal sottoscritto di programmaticità e di manierismo, mentre nelle prime pellicole del regista napoletano si restava ammaliati dalla sua capacità di porre in contrasto le contraddizioni e le alterità dell'Uomo con uno sguardo pop, sincopato e pirotecnico. Quest'ultimo film è visivamente indimenticabile e credo che ciò sia fuori discussione per chiunque abbia buon gusto negli occhi; ad ogni modo, i movimenti di macchina e gli eccessivi formalismi che soffocavano i lavori con Penn e Servillo stavolta sono controllati e gestiti con grande intelligenza. Ma non è certamente questo che fa di Youth un'opera cinematografica dal valore immenso. Youth ha un unico grande filo conduttore, che lega tutti i suoi fotogrammi, dal primo all'ultimo: la richiesta di adesione al proprio ruolo nel mondo. E si tratta sempre e comunque di un ruolo che è determinato dalle proprie passioni e dalle proprie esigenze: il direttore d'orchestra Fred Ballinger e il regista Mick Boyle si sorreggono vicendevolmente, raccontandosi solo le cose belle e rispecchiandosi nella creatività artistica dell'altro; l'attore Jimmy Tree insegue il desiderio puro, impossibile e immorale ma è costretto a interpretare l'orrore e l'assurdo; Leda, la figlia di Fred, è incapace di rimanere senza un amore; e così tutti gli altri personaggi - dal finto Maradona al piccolo musicista, da Miss Universo all'emissario della regina - non fanno altro che portare avanti fino all'ultimo, fino alle estreme conseguenze, quello per cui lavorano, quello per cui esistono. C'è tutto, c'è tanto, c'è troppo in quella che è una partitura musicale piuttosto che una sceneggiatura: eppure - diversamente da La grande bellezza - la scrittura è straordinariamente coerente, diretta e brutale, sincera, generosa ma mai cervellotica. Si inneggia alla leggerezza, alla semplicità: e sono proprio queste le caratteristiche principali di una visione costellata di momenti di Puro Cinema. Chi rimprovera l'eccessivo numero di aforismi, si dimentica che sono i tratti distintivi di Sorrentino, fin dai suoi esordi; chi si accanisce contro l'assenza di consequenzialità degli eventi, forse, si è fatto contaminare dalla linearità e dalla logicità narrativa delle serie televisive. In nessun altro film mi è capitato di pensare che una frase come "appresso a te, ho perso i migliori anni della mia vita" sia in realtà una dichiarazione d'amore. Youth va in direzione ostinata e contraria, celebrando amarezze e rimpianti, rancori e delusioni come ingredienti fondamentali della bellezza.

Emiliano Dal Toso




mercoledì 6 maggio 2015

1985 - 2015: Vivere e morire a Los Angeles

Opera chiave, crocevia fondamentale del genere poliziesco e documento imprescindibile per riflettere su un decennio, Vivere e morire a Los Angeles è un cupo e pessimista noir metropolitano, che si nasconde dietro a una facciata da buddy movie, una colonna sonora dei Wang Chung tipicamente eighties, scanzonata e spensierata, e titoli di testa colorati e accesi, pienamente in sintonia con quello che era "lo spirito dei tempi" ma in antitesi con il vorticoso ritratto di una malavita losangelina spietata e violenta e con quello di una coppia di poliziotti che più si avvicina al proprio obiettivo, e più si avvicina alla morte. William Friedkin girò uno dei suoi capolavori, a basso budget - la produzione passò improvvisamente dalla 20th Century Fox alla Mgm - ma facendone di necessità virtù: tutto il cast e la troupe furono ingaggiati a costi non elevati ma tutti si adoperarono al meglio delle loro possibilità, dall'apporto fondamentale della fotografia di Bobby Muller alla scenografia di Lilly Kluivert. Fin dalla prima scena, il film non si dimentica per impatto e forza espressiva. Howard Hawks confidò allo stesso Friedkin che si diventa grandi registi quando si è in grado di girare inseguimenti spettacolari, e il regista di L'esorcista apprese immediatamente la lezione: Vivere e morire a Los Angeles si distingue per uno dei più eccitanti e tecnicamente complessi “car chase” che si siano mai visti al cinema, caratterizzato da tagli velocissimi e da adrenaliniche soggettive. Oltretutto, l’automobile che lo spettatore vede finire contromano, in realtà, percorre la strada nel giusto verso, a differenza di tutte le altre macchine che, invece, corrono al contrario. Questo accorgimento fu voluto fortemente da Friedkin perché si avvertisse in maniera ancora più angosciosa e oppressiva la sequenza di auto che si susseguono in direzione opposta a quella dei protagonisti. Ancora oggi, questo inseguimento non perde un briciolo della sua dirompenza, senza sfigurare se messo al fianco delle adrenaliniche e vertiginose riprese dei vari Fast and Furious. Eccellente la prova della coppia William Petersen e John Pankow, inquietante quella del villain Willem Dafoe, ma a rendere indimenticabile questa pellicola è una Los Angeles mai vista prima così nevrotica e schizzata, divisa tra il culto della forma fisica e della superficie e lo spettro della denaro, della violenza e dell’autodistruzione. A tal proposito, deve essere posto l’accento sulla scelta di Friedkin di riprenderla spesso al tramonto, evidenziando la sua ingannevole bellezza che pian piano si spinge verso l’oscurità. Dopotutto, lo stesso personaggio interpretato da Willem Dafoe è un falsario e questa falsità, questo mito dell’apparenza è il vero centro nevralgico di un’opera, che è lo specchio fedele di un’epoca nella quale vivere è sembrato facile fino al momento in cui non si è dovuto fare i conti con la fine dei sogni e delle possibilità. Vivere e morire a Los Angeles è la corsa non curante di chi ha abbattuto ogni limite di velocità ma non ha avuto nemmeno il tempo di pagarne le conseguenze.

Emiliano Dal Toso