Ho fede in Clint. Non è certamente opinabile il fatto che sia uno dei più grandi cineasti viventi, in modo particolare il vero cantore della settima arte del decennio passato, drammaticamente e coraggiosamente raccontato-analizzato-criticato in quella incredibile serie di capolavori/grandissimi film che vanno da 'Mystic River' a 'Hereafter'. Il filo rosso che ha condotto il suo approccio fino a ieri è stata la netta presa di posizione, la capacità di porre un argomento al centro del suo discorso e schierarsi, facendolo però sempre con intelligenza e argomentazioni. Questo succedeva, ad esempio, in 'Million Dollar Baby' e in 'Gran Torino', ovviamente, ma è successo anche nei più discussi 'Invictus' e 'Hereafter', nei quali Clint continuava a proporre la sua idea completamente libera di cinema, senza alcun compromesso narrativo e ideologico (vedi la descrizione senza chiaroscuri che viene fatta di un grande personaggio come Mandela) ma nemmeno suggestivo ed emozionale (la scelta di parlare della morte e del sovrannaturale in maniera secca, senza mezzi termini). Per 'J.Edgar', invece, Eastwood preferisce adottare uno sguardo decisamente diverso, più freddo e distaccato. Va assolutamente compresa la motivazione per cui il regista americano compie questa scelta: John Edgar Hoover, capo dell'Fbi per 48 anni, rappresenta quello in cui Clint ha sempre creduto e, ora, in maniera totalmente disillusa quello di cui constata e prende atto, ovvero il fallimento di un'ideale di democrazia. Come tutti i grandi coerenti, l'autore non cede al ritratto sarcastico e facile dell'uomo politico e nello stesso tempo non ne fa una agiografia. Preferisce raccontare la solitudine dell'uomo privato, con le sue contraddizioni e i suoi lati oscuri. Alcuni aspetti sono analizzati con la solita grande abilità, dal rapporto soffocante con la madre all'omosessualità repressa del protagonista. Purtroppo, i lati politici più accattivanti e doppiogiochisti non sono approfonditi e i singoli episodi (ad esempio, la caccia a Dilinger o al rapitore del figlio di Lindberg) non sono sostenuti da una sceneggiatura adeguata. Il ritmo lento del film non aiuta lo spettatore meno dotto sul personaggio di Hoover e sulle vicende di storia americana ad appassionarsi ai diversi intrecci e, oltretutto, i continui rimandi temporali contribuiscono a dare un senso di confusione e poca chiarezza. E così, ne viene fuori un ritratto piuttosto asettico e con poca personalità. Apparentandolo al recente 'Le idi di Marzo', 'J.Edgar' segna il ritorno di un cinema molto classico ma, a differenza del film di Clooney, non c'è alcun graffio, solo grande professionalità. Di Caprio è davvero eccezionale così come lo sono la segretaria Naomi Watts e la madre Judi Dench ma non bastano per accendere la fiammella del coinvolgimento emotivo. Tutto è fatto molto bene ma manca la scossa che ha sempre caratterizzato il cinema di Clint, anche a costo di farsi rifiutare. Per quanto un Eastwood sottotono equivalga comunque ad una sufficienza piena, 'J.Edgar' non è bello, non è brutto, non è cattivo.
Emiliano Dal Toso
Emiliano Dal Toso
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