Nell'ambito del Milano Film Festival, il 15 settembre 2012 è stato organizzato un bellissimo incontro presso il cinema Ariosto con Gabriele Salvatores. Tema: gli anni Ottanta, la televisione che mangia il cinema. Gabriele, che aveva già analizzato il fenomeno in presa diretta con "Kamikazen" (1987), ha osservato che l'avvento delle televisioni private e il consumo di massa del prodotto televisivo hanno influito ferocemente sul modo di fare cinema. Come ha detto lui, se la TV non si è mangiata il cinema, di sicuro «gli ha dato un bel morso». La questione è prima di tutto meramente tecnica. L'elettrodomestico televisione è più piccolo dello schermo del cinema. Quindi negli sceneggiati televisivi, nelle fiction, sono stati tagliati i campi lunghi, perchè su piccole dimensioni si apprezzano meno. I ritmi sono più serrati (pensate, per esempio, a quella porcata di CSI) a tutto discapito della profondità dei messaggi. Anche qui, il motivo è molto semplice. Sei in casa e stai guardando qualcosa. Se ti rompi i coglioni, prendi e vai a mangiare un biscotto, a lavare i piatti, oppure cambi canale. Gli sceneggiatori non hanno soddisfatto il cliente. Al cinema è, o dovrebbe essere, diverso. Sei in un luogo chiuso, senza distrazioni esterne, hai pagato per quello che stai vedendo: a meno di tragedie inenarrabili, il film te lo gusti fino alla fine. Ecco perchè, nel buio della sala, i registi possono permettersi di dilatare i tempi della narrazione, se la storia lo richiede. Oggi invece, e non voglio essere retorico, la logica della televisione ha ammorbato anche molte opere cinematografiche. E ha contagiato anche noi. «Ci ha abbassato il gusto», parole di Gabriele. Ha ragione. Ora, io ci ho pensato un po' su. E se fosse successa la stessa cosa anche alla nostra coscienza politica? Ci si accapiglia sulla legge elettorale, sulle polemicuzze inutili, senza alcuna visione politica di lungo periodo. Senza campi lunghi. Vedere le cose con una prospettiva globale, un indirizzo ideologico preciso, aiuta anche a guardare lontano. Le tanto bistrattate ideologie hanno a lungo dato un senso alle vite di milioni di persone nel mondo, le hanno fatte sperare nel futuro con fiducia. Tutto questo non accade più. Ci accontentiamo di primi piani e di dettagli spesso orridi, siano inquadrate vecchie conoscenze ammuffite, siano inquadrati improvvisati strilloni con la barba. Una volta la comicità serviva a distorcere e deridere strutture sociali inadeguate. Negli anni Ottanta, invece, programmi come "Drive In" le hanno celebrate. Battute per lobotomizzati, troie mezze nude, telespettatori trattati come bambini: roba buona, il meglio che si potesse desiderare, le uniche cose che si potessero desiderare. Tutto vomitato nel cinema. Qualcosa di simile l'hanno fatto, però al mondo intero, Reagan e la Thatcher. L'esaltazione dell'esistente come il migliore e il solo mondo possibile. Il disprezzo del passato e della Storia, la centralità di un presente da ingurgitare in tutta fretta, il disinteresse per il futuro. La manona invisibile e saggia che ci sospinge. Il Mercato. Tutto vomitato negli uomini. A vent'anni di distanza aspettiamo quotidianamente gli sviluppi delle borse internazionali, e se sono andate male piangiamo i nostri morti. Come fossero vittime di una disgrazia naturale inevitabile sulla quale nessuno ha potere. Oppure ci lamentiamo perchè vediamo cattive pellicole, «che film di merda!», diciamo. Sono due rami dello stesso fiume. Come si costruisce la diga?
Ivan Brentari
Ivan Brentari
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