Come d'incanto, il cinema torna prepotentemente a regalare opere grandiose, destinate a durare e a fare la Storia. Come d'incanto, assistiamo a qualcosa che in modo indelebile segnerà le nostre esistenze, qualcosa sulla quale tornerà la nostra memoria per riassaporare i colori, le suggestioni e le emozioni che incendiano l'ultimo lavoro del regista finlandese Aki Kaurismaki, 'Miracolo a Le Havre'. Siamo di fronte al terzo grande capolavoro del nuovo decennio, dopo 'The Social Network' e 'Il Cigno Nero'. Se questi due sono espressioni della realtà circostante, degli incubi e delle ossessioni, delle relazioni virtuali e ipotetiche che caratterizzano il nostro vivere odierno, il film di Kaurismaki rappresenta la realtà come vorremmo che fosse, nella nostra utopia con la quale siamo cresciuti e che ha formato i nostri sogni, i nostri amori, le nostre speranze ultime a morire. Sembra un mondo parallelo quello raccontato da Aki, un mondo costruito con i materiali nostri preferiti, la solidarietà, l'umanità, l'amicizia, l'amore. Un mondo, però, fortemente ancorato all'attualità e all'antropologia che costituiscono la spina dorsale della società capitalista e classista: l'immigrazione, l'emarginazione sociale, la povertà sono la base narrativa del cinema di Kaurismaki. Il fatto che Aki abbia smussato tutte le imperfezioni ermetiche e non sempre intelleggibili delle sue opere precedenti ('L'uomo senza passato', 'Le Luci Della Sera'), abbia sostituito la riflessione esistenzialista con quella utopistica (e non favolistica, come ho letto in diversi commenti) e si sia completamente abbandonato a un ideale assoluto, testimoniato dal cognome del protagonista, non è un caso. Non è un caso che nel momento storico della presa di consapevolezza dell'abbandono di ogni impegno socio-politico, nel momento storico in cui i punti di riferimento per un mondo migliore sono Obama e Steve Jobs, Kaurismaki si sia voluto rifiutare in maniera categorica di aderire anche solo narrativamente a un compromesso così demolente. 'Miracolo a Le Havre' è, sotto tutti i punti di vista, una vera opera rock, concepito così come lo urla Jack Black in 'School of Rock': la vendetta nei confronti del potente. E, infatti, sono meravigliosamente coerenti, vivi, energici, puri i cinque minuti abbondanti che il regista dedica per riprendere l'esibizione di Little Bob, un ex cantante in declino che potremmo ritrovare tranquillamente sbronzo nel bar sotto casa. L'universalità è un'altra componente fondamentale di 'Miracolo a Le Havre': una storia che poteva essere raccontata da Chaplin e che si sarebbe potuta ambientare a Le Havre così come a Lampedusa, così come in tutti quei luoghi nei quali la nostra essenza di "gente di passaggio" viene nitidamente fotografata. Non ci sono parole per esprimere in maniera sufficiente la grandezza, l'importanza del doppio colpo di scena finale, che ribalta ogni possibilità di cinismo e di fatalismo. Anche i personaggi apparentemente cattivi sono coloro i quali respingono, senza remore, tutto ciò che è disumano. E, alla fine, gli umili e gli sconfitti si ritrovano insieme, coinvolti nella stessa barca a farsi forza reciprocamente, con l'orgoglio e la dignità di chi non cederà mai all'eventualità di una società che non ama. Bello e fuori dal tempo.
Emiliano Dal Toso
Emiliano Dal Toso
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