Mi sarei aspettato francamente un maggiore coraggio da parte del presidente di giuria Annette Bening nell'assegnazione dei premi di quest'ottimo Concorso di Venezia 74. The Shape of Water di Guillermo del Toro non ha bisogno del Leone d'oro per acquisire visibilità e, nello stesso tempo, non è un film che si distingua per particolari meriti, al di là di essere un buonissimo prodotto per famiglie, confezionato magistralmente per gli Oscar. Un tenero elogio all'amore e alla diversità, fin troppo perfetto e corretto, senza tormento. Un tono dark e fantasy sempre pulito, mai davvero cupo e irrequieto, mai sporco. The Shape of Water sa emozionare e rassicurare. Una favola sedentaria e conservatrice, che non sposta di un millimetro la ricerca cinematografica verso nuovi orizzonti - e sono certo che con il potenziale di questa storia il Tim Burton di un tempo, quello romantico e disperato, ne avrebbe tirato fuori un capolavoro. Guillermo del Toro è un regista privo della febbrile eccitazione che possiede un certo Abdellatif Kechiche quando è dietro la macchina da presa. Qualcuno sostiene che nel meraviglioso romanzo di educazione estiva ed erotica Mektoub, My Love: Canto Uno l'abbia confusa con il suo pene: un'osservazione brillante, ma non sono convinto che questo sia davvero un difetto. A parte i meriti puramente registici di Kechiche (nessuno muove la mdp come lui, nessuno attraverso dettagli e piccolezze instaura relazioni umane e racconta i personaggi come lui, nessuno immerge così tanto lo spettatore nella realtà e nella verità delle immagini come lui), Mektoub, My Love è una complessa e problematica riflessione sul ruolo di chi guarda: i lunghi primi piani sui bellissimi culi di ragazze che ballano, che hanno indignato la parte bigotta e castigatrice della stampa presente alla prima proiezione del film (mio dio, ci troviamo davvero ancora a questo punto?), sono la gioia di chi concepisce il cinema come sguardo sovversivo e liberatorio, come strumento artistico finalizzato a rompere i tabù e a far pensare, vedere, vivere ciò che non dovremmo o che non possiamo. Un'idea di cinema non troppo lontana da un regista strutturalmente lontano come Darren Aronofsky, che nell'imperfetto ed eccessivo mother! dichiara la sua fiducia indissolubile per le potenzialità sconfinate del grande schermo con un delirio visivo biblico e perverso, ma vivissimo ed estremo, sonoro e fisico, che sporca gli occhi e costringe a una reazione. Grazie a registi come Kechiche e Aronofsky, credo che abbia un senso intendere una visione cinematografica come un'esperienza. E, a tal proposito, in questa bella edizione della Mostra di Venezia, faccio fatica a non pensare allo struggente documentario Jim & Andy: The Great Beyond, dove si celebrano il significato profondo e le conseguenze dell'essere attore e dell'essere Andy Kaufman, quando, scoppiando quasi in lacrime, l'incredibile uomo e performer Jim Carrey ricorda la lezione del padre per cui "se devi fallire, è meglio fallire facendo quello che si ama".
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