Sembra incredibile che oggi il cinema di James Gray possa esistere, essere prodotto ed essere realizzato. Ed è meraviglioso che possa essere ammirato su un grande schermo: vedere in un cinema nel 2017 un film come Civiltà perduta è un ultimo atto romantico, un gesto ribelle, un momento fuori dal tempo che appartiene a quegli spazi della nostra vita che abitano in una terra di nessuno. Nell'ossessione del protagonista Percy Fawcett di proclamare la scoperta della città di Z nel cuore della foresta sudamericana e di provare l'esistenza di una civiltà sconosciuta risiede tutto ciò che non possiamo lasciare indietro: il Cinema come opera eterna, che prescinde da ogni etichetta, classifica, catalogo, manuale, contestualizzazione. Questa è la grandezza dei capolavori impossibili, imperfetti e sbagliati, perché non si regolano in funzione di un pubblico, una moda, uno zeitgeist. A tal proposito, non può non venire in mente I cancelli del cielo di Michael Cimino, il più grande fallimento commerciale di tutti i tempi. Eppure, quanto amore esiste in questa idea di cinema. Un'idea che combatte contro la stessa inesorabilità del Tempo: non è certamente casuale che in Civiltà perduta si superino con naturalezza mesi e anni e ci si trovi catapultati con poco preavviso in diversi luoghi e continenti. Perché l'ossessione e il sentimento sono eterni e nomadi, e non hanno un luogo dove stabilirsi, sistemarsi, costruire un progetto, una famiglia. E gli affetti di Fawcett, la moglie e i figli, sono costretti a essere spesso abbandonati, sacrificati, oppure non hanno altra scelta che la collaborazione e l'unione all'ossessione di Percy, quella che lo tiene in vita e che gli permette una quotidianità domestica, una relativa e parziale serenità famigliare. Moriremmo uomini felici se dovessimo aver speso la nostra permanenza terrena all'insegna dello stesso sogno di James Gray e di Percy Fawcett: significherebbe aver viaggiato con il cuore e la testa tutti i giorni, cercando di raggiungere quel miraggio in cui siamo profondamente certi abiti il senso della nostra irrequieta esistenza. Purtroppo, non basta niente, nulla che non sia l'incontro con la nostra città di Z. Neppure nel finale di questo film così consapevolmente perdente e sognatore si ottiene una chiusura del cerchio: la morte non si vede, circola sospettosa come in tutti gli altri frammenti, suggerendo che non sia un arrivo ma un'altra partenza, forse quella definitiva per la realizzazione del nostro inquieto vagare.
Emiliano Dal Toso
Emiliano Dal Toso
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