Pensavo di annoiarmi terribilmente, dato che il precedente 'C'era una volta in Anatolia' è stata una delle visioni più inaccessibili della mia esperienza di appassionato di cinema. Dopo la vittoria al Festival di Cannes, mi ero promesso che la Palma D'Oro di quest'anno l'avrei evitata: la presenza di Jane Campion come Presidente di Giuria non ha fatto altro che rafforzare in me il pregiudizio nei confronti dell'ultima fatica di Nuri Bilge Ceylan, regista turco, allergico al cinema americano ("i film hollywoodiani ci hanno abituato a risposte diventare ormai come pillole ansiolitiche per lo spettatore"), amante della lentezza, del teatro, dei silenzi, di tutto ciò che non si troverebbe mai in un film di Michael Mann. Eppure, nonostante il pregiudizio si fosse consolidato più che mai, non posso negare di essere stato dapprima sedotto, per poi trovarmi completamente immerso nella pesantezza, nei dialoghi fluviali, nelle tirate esistenzialiste di 'Il Regno D'Inverno - Winter Sleep'. Sono innumerevoli i riferimenti letterari a cui si rivolge Ceylan: Cechov, Dostoevskij, Shakespeare, Voltaire, Camus. Ciononostante, non ho mai avuto l'impressione di trovarmi di fronte a un lavoro intellettualistico, ripiegato su se stesso, all'insegna dell'autoreferenzialità più sprezzante nei confronti dello spettatore. Tutt'altro. La sensazione che ho avuto dopo le tre ore e un quarto di minutaggio è stata quella di aver assistito a un'opera colta e generosa, che attraverso i tempi morti della Vita, ne evoca l'amarezza, la vacuità, l'inevitabile rancore di chi non è stato in grado di indirizzarla sui binari del proprio modo d'essere, delle proprie esigenze e delle proprie passioni. Il film è ambientato in uno sperduto villaggio in mezzo all'Anatolia, fuori da tutto, dal Mondo, dai mezzi di comunicazione, dai social network: un non-luogo nel quale domina incontrastato il vuoto pneumatico dell'esistenza. Non è un caso che tutti i personaggi si rimproverino qualcosa, siano invasi dai rimpianti e nessuno sia in grado di tendere la mano a chi si trovi nelle medesime difficoltà: non è sufficiente neppure la condivisione della solitudine per sentirsi vivi. Quello che sembra essere l'unico strumento per non farsi seppellire dal freddo glaciale delle relazioni umane è l'alcool, che riscalda e scatena reazioni magari non troppo eleganti ma perlomeno non sopite dall'immobilità e dal gelo. Si dialoga tanto, forse troppo, a volte effettivamente ci si annoia: ma è una noia che coccola, dovuta alla consapevolezza che questa volta Nuri Bilge Ceylan ha individuato il fulcro dei suoi demoni, il punto sensibile, che giustifica il ritmo faticoso del suo Cinema e che lo innalza a punto di riferimento non più manierista ma intellettuale, non più elitario ma elevato.
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