sabato 13 ottobre 2012

On The Road (voto 7)

Nessuno sa quel che succederà di nessun altro se non il desolato stillicidio del diventar vecchi.
 

Ha lavorato otto anni ininterrottamente Walter Salles per trasportare sul grande schermo il romanzo di Jack Kerouac 'Sulla strada'. Il regista brasiliano de 'I diari della motocicletta' ha terminato un'impresa che altri registi sono stati costretti sempre ad abbandonare, a causa della grandissima difficoltà di trasformare in immagini le parole del libro. Stiamo parlando di progetti che vedevano Godard dietro la macchina da presa con Marlon Brando protagonista oppure di Francis Ford Coppola regista con Brad Pitt in prima linea. Salles, invece, ha scelto per i ruoli principali due attori poco conosciuti, Garrett Hedlund nei panni di Dean Moriarty e Sam Riley in quelli dell'alter-ego di Kerouac, Sal Paradise. Quest'ultimo lo ricordiamo, però, per un altro ruolo maledetto, quello di Ian Curtis nell'ottimo 'Control' di Anton Corbijn. 'Sulla strada' è sicuramente uno dei libri più belli che abbia mai letto nella vita. Come tanti altri, la grande attesa di vedere la traduzione cinematografica di uno dei propri libri più amati non può che comportare enormi delusioni. Oltretutto, quando si tratta di un capolavoro letterario riconosciuto all'unanimità (e in questo caso, sinceramente, i bastian contrari sono dei cretini). Non stiamo certamente parlando de 'La solitudine dei numeri primi'. Ad ogni modo, l' 'On the road' di Walter Salles è un buon film. Chi ama veramente il cinema, non può non riconoscere la grandissima precisione del lavoro di Salles, sotto ogni punto di vista: ricostruzione storica, ambienti interni ed esterni, musiche, paesaggistica, vestiti, tutto viene riportato in maniera semplicemente magnifica. Ottima anche la scelta del casting, non solo Hedlund e Riley sono indovinati ma soprattutto una favolosa Kristen Stewart/Mary Lou e un simpaticissimo Tom Sturridge/Carlo Marx. Belle anche le brevi apparizioni di Viggo Mortensen e Steve Buscemi. E' probabilmente questa straordinaria precisione formale a essere, nello stesso tempo, il maggior pregio e il maggior difetto del film. Se, da una parte, il risultato è quello di un'operazione impeccabile, dall'altra proprio questo sapore così vintage, così patinato, appare essere quasi un tradimento all'anarchia e alla potenza dello spirito di Kerouac. Questo è l'appunto principale da fare all'opera di Salles. Per il resto, il film scivola via benissimo, e nel finale riesce anche ad emozionare (bellissima, in modo particolare, la parte messicana). Ciononostante, va detto che si esce dal cinema con l'amaro in bocca, ma la colpa non è del regista. Si esce dal cinema con l'idea che si sia assistito alla storia di due ragazzi, di due amici troppo lontani e distanti, ormai. Si è assistito a una storia, a un racconto, a un'utopia che non esistono più. Oggi, 'Sulla strada' è un documento storico, un capolavoro letterario del Novecento. Ma è un'illusione pensare che parli ancora di quelli come noi. Tanto di cappello, comunque, a Walter Salles, che dopo aver affondato il colpo nelle radici del Che, conferma di non aver paura a rincorrere e ad aggredire il Mito.
 
Emiliano Dal Toso



venerdì 12 ottobre 2012

Billy Wilder Gallery: A Qualcuno Piace Caldo

Capostipite del Cinema giocato sul travestimento, pietra miliare della Commedia e saggio impeccabile di regia e recitazione. Non si esagera mai quando si danno queste definizioni a un film come 'A qualcuno piace caldo'. La commedia più rappresentativa e, forse, più celebre di Billy Wilder. Siamo nel 1959 e partendo da un fatto di cronaca realmente accaduto, il regista austriaco naturalizzato statunitense, tesse una vicenda che pone le basi nel fenomeno del travestismo. Con sapiente maestria, rovescia tutti gli stereotipi sessuali dell'epoca e crea qualcosa di assolutamente unico. Non una semplice commedia, ma una farsa geniale dai risvolti picareschi e in certi casi noir. Sorretta da un ritmo infallibile, riesce a trattare di Amore e Morte con una leggerezza, ma anche con un'intelligenza così grande, da lasciare estasiati. Jerry e Joe, protagonisti, loro malgrado, di tutta la vicenda, saranno risucchiati dalla spirale della sessualità, diventando donne per necessità, impossibilitati a esprimere la loro virilità. Per salvare la pelle, dovranno insomma cambiare la loro pelle. Dimostrandosi sempre a suo agio nel genere comico, qui Wilder mette in mostra tutta la sua modernità. Non a caso, un anno dopo l'uscita del film (1960), Alfred Hitchcock fece uscire 'Psyco', facendoci capire come sarebbe stata la pellicola di Wilder in salsa thriller. Fu il film preferito da Freddie Mercury, diede origine al musical 'Sugar', e molti riferimenti si possono trovare anche in 'Priscilla-La regina del deserto', film cult degli anni 90. Insomma, se la battuta finale ci ricorda come nessuno di noi sia perfetto, "A qualcuno piace caldo" ci fa intravedere da vicino cosa voglia dire la perfezione quando si parla di Cinema comico.
Alvise Wollner



mercoledì 10 ottobre 2012

Un Sapore Di Ruggine E Ossa (voto 10) IL FILM DEL MESE

- Baby you're a firework, come on, show'em what you're worth - Katy Perry

- Siamo carne e fiato - Gianna Nannini

 

E' così che vanno fatti i film. Jacques Audiard è un regista che parla della vita per quella che è, senza intellettualismi, senza fronzoli. Racconta di uomini e di donne sempre al limite, ai margini, che si affannano e che sono disperatamente alla ricerca di un appoggio per poter stare nel mondo, a loro modo. Questo accadeva nei strepitosi lavori precedenti ('Sulle mie labbra', 'Tutti i battiti del mio cuore', 'Il profeta'), questo accade nel nuovo 'Un sapore di ruggine e ossa'. Sa parlare di persone, sa raccontare la sconfitta e il riscatto, la sensualità e il dolore. Senti i sospiri, le lacrime, la rabbia dei suoi protagonisti. Glieli senti addosso. Senti i magoni, i batticuori. I graffi, sulla pelle, nell'anima. Stringere i denti, e poi ripartire. 'Un sapore di ruggine e ossa' parla di corpi, come unica risora quando tutto sembra perduto. Per Ali, l'utilizzo del corpo è l'unico modo per sopravvivere, sfruttandolo nei più disparati lavori, da quello di buttafuori a quello di vigilante, fino a quello di pugile di strada. Se non fosse per i suoi muscoli, per la sua prestanza fisica, non sarebbe nessuno. Non avrebbe niente. Per Stephanie, invece, recuperare il proprio corpo, riappropiarsene, restituirne una dignità significa tornare a vivere, tornare a sentire. Entrambi sono due solitudini, che per necessità, per solidarietà, si trovano indissolubilmente legate, strette per la vita, per i fianchi, per i sessi. Entrambi sono spigolosi, irrequieti, non riconciliati. Lui è tanto brutale e inadeguato (nel ruolo di padre, di amante, di fratello), quanto inconsapevolmente capace di attenzione. Lei ha pochissimi affetti personali, una volta era la femmina che amava essere inseguita e guardata, che amava sedurre e abbandonare. E' bellissima e, fino ad ora, è sempre stata consapevole di esserlo. Lei è Marion Cotillard, che offre l'interpretazione della sua carriera, che allunga gli arti verso il cielo, verso l'alto, quando riscopre il piacere che può offrire un'esistenza, seppur dimezzata. Lui, invece, è Matthias Schoenaerts, che respinge la possibilità di provare sentimenti ed emozioni, fino a quando non porta all'estremo la propria forza, le proprie ossa, per salvare tutto quel poco di buono che è presente nella sua vita. Jacques Audiard è un cineasta che ti stringe per il collo e ti molla solo quando hai raggiunto il limite. E' un regista pieno, che non dimentica che il cinema è anche genere, azione, intreccio narrativo, tensione. Ma è, soprattutto, un tripudio di esperienza vissuta. All'ultimo Festival di Cannes, la giuria fighetta di Nanni Moretti ha preferito il pietismo senile di Haneke. Eppure, il regista francese è uno dei pochi autori che hanno dimostrato nel nuovo millennio di saper coniugare l'espediente della finzione, dell'intrattenimento, con quello della rappresentazione della realtà (gli altri sono Paul Thomas Anderson, Darren Aronofsky, Park Chan-Wook, altri straordinari "controversi"). La "sua" macchina da presa è una donna che hai sempre amato ma che sai di non poter avere. A sbattere la fronte contro il muro, gli altri riprenderebbero il sangue sulla fronte, lui riprende quello sul muro. Bello e impossibile.

Emiliano Dal Toso




venerdì 5 ottobre 2012

Billy Wilder Gallery: La Fiamma Del Peccato

Qui parliamo di due fottuti geni. Billy Wilder, il regista celebrato nello speciale che Emiliano ha scelto per questo mese, e Raymond Chandler, semplicemente lo scrittore divenuto padre del Noir mondiale, con buona pace dei francesi. Wilder e Chandler hanno scritto insieme la sceneggiatura de "La fiamma del peccato" (1944). È piuttosto evidente che l'impronta principale sulla pellicola sia di Ray. Chi ha letto i suoi libri può ritrovare nelle battute del film la stessa ironia alcalinica, corrosiva. C'è il marcio che abbraccia le vite degli uomini. Però non solo. Un intempestivo senso morale emerge alla fine, quando è troppo tardi, talmente tardi che l'unica cosa che resta da fare è morire. Los Angeles 1938, che già solo questo basterebbe. Un assicuratore, Neff, stanco del suo lavoro, si fa convincere da una bella e ricca signora, mrs. Dietrichson, ad uccidere il consorte di lei, inscenando un'infortunio in circostanze inconsuete, in modo da riscuotere l'indennità doppia prevista in quei casi (il titolo originale è "Double indemnity"). L'assicuratore, che nel frattempo si zompetta mrs Dietrichson, assicura il cornuto, poi organizza e svolge l'omicidio a dovere. Sa il fatto suo perchè con quelle cose ci lavora. Frega anche l'investigatore privato Keyes, suo amico, che viene pagato dalla società di assicurazioni per indagare sui casi di indennizzo sospetti. Però poi non regge. Perchè l'azzardo di quella morte così assurda, quasi improbabile, perlomeno strana? Così tutto puzza di più sotto al naso dei segugi. Neff ha voluto il doppio, non avrà nulla. Si infila di notte nell'ufficio deserto del detective e racconta tutto al registratore. Se la cosa non lo redime, perlomeno gli dà sollievo. Un sollievo limitato, perchè nella clavicola c'ha un proiettile ammaccato, e perchè ha perso sangue, parecchio. Il film inizia così, quasi dalla fine. È qui che dalla porta laterale entra Wilder e mescola alle idee di Chandler le proprie. Tutta la torbida vicenda è raccontata da Neff in prima persona, il che se da un lato toglie qualcosa alla suspence, dall'altro permette al regista di lasciar andare Ray a briglia sciolta coi testi della voce fuori campo, di sfruttarlo appieno, di fargli plasmare una sorta di videolibro. Chandler plasma, Wilder resta intelligentemente lì a fianco, un po' in disparte, con una regia dimessa, perfetta per il genere. E gira un capolavoro del cinema noir. Occhio, fare un film di genere non significa limitarsi. Il noir è profondo come una coltellata, ma bisogna saper guardare nella ferita. Non mi piacciono quelli che considerano i film (o i libri) di genere delle opere minori. Un noir, per esempio, può dire di più sull'animo umano, o sulla società, di cinquemila preti e tremila antropologi. Ripeto, bisogna saperlo guardare. E poi, cazzo, in questo film ci sono certe gemme obiettivamente fantastiche, anche se prese da sole, senza concetti, senza sottotesti. Ness ci ha appena provato in maniera abbastanza sbrigativa con la signora Dietrichson, durante il loro primo incontro, e lei sbotta. D: «C'è un limite di velocità, signor Neff, 45 miglia.» N: «A quanto andavo, brigadiere?» D: «Attorno ai 90.» N: «Supponiamo che mi fermiate per arrestarmi». D: «Supponiamo che vi lasci andare... per questa volta». N: «Supponiamo che sia recidivo». D: «Supponiamo che io vi picchi sulle mani». N: «Supponiamo che io mi metta a piangere sulla vostra spalla». D: «E supponiamo che la spalla sia quella di mio marito». Figata.

Ivan Brentari

mercoledì 3 ottobre 2012

Billy Wilder Gallery: L'Appartamento

Fa' le carte e poi ridimmelo.


Billy Wilder non ha mai considerato 'L'appartamento' una commedia ma, a mio modesto parere, 'L'appartamento' è la commedia per eccellenza: perfetto equilibrio tra critica sociale e storia d'amore, magnifica descrizione della contemporaneità, straordinari chiaroscuri scavati sui visi dei protagonisti. Che cosa conta nel cinema? Che cosa cerchiamo? Intrattenimento, riflessione. Il giusto mix tra relax e stimolo intellettuale. Forse. Io, personalmente, mi considero un romantico, e il cinema è il miglior mezzo per saziare gli appettiti dei sognatori e di tutti coloro che amano il lato platonico dell'amore. Guardi 'L'appartamento' alla Mostra del Cinema di Venezia del 1960 e ti innamori di Fran Kubelik, il personaggio dell'"addetta agli ascensori" interpretato da una sublime Shirley MacLaine. Magari, lo riguardi 52 anni dopo su uno di quei canali via digitale, in una serata d'autunno, mangiando distrattamente una coscia di pollo sul divano, e ti rinnamorerai nuovamente di Fran Kubelik. Perchè il grande cinema (così come il vero amore) è destinato a durare per sempre, a non morire mai, ed i suoi protagonisti sono incarnati da quegli attori che hanno la capacità di dare vita a qualcosa che è istantaneo ed eterno allo stesso istante, particolare ed universale. Nel 2000, Kevin Spacey vinse l'Oscar per miglior attore protagonista per 'American Beauty' e il suo primo pensiero andò a Jack Lemmon, ringraziandolo per l'interpretazione indimenticabile di CC Baxter ne 'L'appartamento'. Qualche anno fa, Silvio Orlando ha dichiarato che non avrebbe mai deciso di tentare la carriera di attore se non avesse visto 'L'appartamento' e se Jack Lemmon non avesse incarnato tutto quello che avrebbe voluto essere, rappresentare, interpretare. Non esistono confini territoriali nel grande cinema. 'L'appartamento' è culturalmente americano, irrimediabilmente americano, nei ritmi, nelle caratterizzazioni, nei contenuti (per detta dello stesso Wilder, è un film sulla "tipica solitudine americana prefabbricata"); detto ciò, racconta una storia che potrebbe essere ambientata ovunque, a Berlino, a Londra, ad Amburgo, a Tokyo, anche a Gallarate volendo (citata genialmente nell'incipit dalla voce fuori campo); ha una sensibilità, un modo di descrivere i rapporti umani ed i sentimenti che è globale. Credo che il cinema non debba essere considerato semplicemente un'arte. E' di più: un mezzo in grado di unire, di influenzare, di creare una cultura condivisa (come ha spiegato ottimamente Massimiliano Gavinelli). Insieme alla musica, è l'unico strumento artistico che può essere compreso e vissuto da chiunque, senza distinzioni di razza, religione ed estrazione sociale. Questo miracolo il cinema (e il cinema americano, in particolare) lo ha compiuto, almeno fino agli anni 70. Billy Wilder ne è stato uno dei principali fautori. Per Jack Lemmon e Shirley MacLaine, invece, è stato sufficiente recuperare una partita di carte non conclusa per fare in modo che non venga mai posta la parola fine a un Sogno.

Emiliano Dal Toso




martedì 2 ottobre 2012

The Five-Year Engagement (voto 6)

Jason Segel è, dopo Seth Rogen, indubbiamente il miglior attore brillante americano emergente. Conosciuto in Italia per la serie televisiva 'How I met your mother', l'ho maggiormente apprezzato per i film girati da Nicholas Stoller e prodotti da Judd Apatow, il divertente 'Forgetting Sarah Marshall' e l'ottimo 'I love you, Man'. 'The Five-Year Engagement' è il terzo episodio di questo triangolo (la sceneggiatura è dello stesso Segel, mentre la regia e la produzione sono sempre, rispettivamente, di Stoller e di Apatow). L'impressione che ho degli ultimissimi film provenienti dall'universo Apatow è che si sia assunta una notevole maturità narrativa ma si sia un po' perso il genio anarchico. 'Le amiche della sposa' si è rivelato un grandissimo successo ma ha cominciato a darmi questa sensazione, che viene ora confermata da questo 'The Five-Year Engagement'. Segel ed Emily Blunt (gradevole) sono una giovane coppia di San Francisco che decide di rimandare il matrimonio quando lei ha l'opportunità di fare carriera in una prestigiosa università nel Minnesota. Ovvero, dall'altra parte dell'America. Lui la ama al punto da rinunciare alla sua di carriera (da chef) e la segue ma, al contempo, si trova costretto a racimolare lavoretti da fast-food. Lei, invece, entra nelle grazie di un prestigioso professore (il sempre grande Rhys Ifans) e tentenna addirittura un tradimento. Lui è infelice e frustrato. Si lasciano. Lui torna a San Francisco. Se il film finisse in questo modo, si tratterebbe di una deliziosa commedia dolceamara, ottimamente scritta, capace di inquadrare perfettamente le dinamiche di una coppia di innamorati alle prese con l'imprevedibilità e la precarietà dei tempi. Purtroppo, il finale tradisce le aspettative e si mantiene lontano dai toni malinconici, tristi ma reali. Così, 'The Five-Year Engagement' rimane a metà strada tra le scorrettezze, la comicità stralunata dei lavori precedenti e la commedia sentimentale adulta e rappresentativa della Vita. Una via di mezzo tra i fratelli Farrelly e Woody Allen, senza però accontentare completamente chi cerca la risata liberatoria e chi, invece, la riflessione intellettuale e profonda. A tal proposito, mi è inevitabile un confronto con un magnifico film che ho avuto la fortuna di vedere un mese e mezzo fa, 'Take This Waltz' di Sarah Polley (http://ilbelloilbruttoeilcattivo.blogspot.it/2012/08/anteprima-take-this-waltz-voto-9.html). Se in quest'ultimo il matrimonio è descritto come un punto di partenza, un'incognita ancora tutta da costruire, nel film di Stoller il matrimonio è un punto d'arrivo, l'incoronamento di un percorso difficile che però certifica la robustezza di un rapporto. Questa filosofia un po' cattolica è sempre stata presente nei film targati Apatow, a dir la verità, ma veniva compensata dal gusto anticonformista delle battute e delle situazioni, sempre oltre la barriera borghese del politicamente corretto. Nel momento in cui si decide di crescere e di sacrificare la parte più "maleducata", allora ci si dovrebbe anche assumere la responsabilità di essere completamente portatori di un'idea di cinema come specchio dell'esistenza. 'The Five-Year Engagement' lo è soltanto a metà.

Emiliano Dal Toso




lunedì 1 ottobre 2012

Retrospective: A qualcuno piace Billy

Questo mese parleremo di Billy Wilder.
Ci siamo presi il permesso di chiedere a un wilderiano doc come Massimiliano Gavinelli (filmmaker, appassionato esperto ed esperto appassionato della Settima Arte) di scrivere per noi. Affetto, cuore, competenza, passione. Grazie Ga'.



Approfitto di questo spazio concessomi dal mio amico Emiliano per elogiare un regista a me molto caro; e voglio partire in modo ardito, senza ulteriori esitazioni: l’influenza di Billy Wilder non si limita al suo mestiere di regista, e nemmeno a quello di scrittore di grandi sceneggiature. Prima di tutto ciò, o meglio insieme a tutto ciò, Billy Wilder ha creato una cultura condivisa, contaminando non solo tutto il Cinema di lì a venire, ma anche quella che oggi è universalmente definita “cultura occidentale”. Esagero? Secondo me, no. Dopo le riforme del New Deal, destinate a risollevare l’economia degli Stati Uniti in seguito alla grande crisi del ’29, si sentiva il bisogno di risollevare l’umore dell’America e forgiare, inculcare nella mente delle persone lo spirito del sogno americano che ha reso possibile l’esplosione degli Usa. In questo processo di aspirazione alla grandezza, Hollywood è stata non solo fondamentale, ma necessaria. Il cinema americano è considerato il “più bello del mondo” da allora, da quando questo connubio tra stile ed ottimismo è stato, non a caso, esportato anche fuori dagli Usa, dove l’umore sociale non era certo elevatissimo, dando vita ad una cultura transatlantica condivisa che sopravvive tutt’oggi. I più importanti esponenti di questa esplosione di ottimismo sociale sono stati gli americanissimi John Ford e Howard Hawks, ma forse più di loro è stato un austriaco a “far sognare” gli americani, e il suo nome è appunto Samuel Wilder, passato alla storia come Billy Wilder: questi ha saputo calarsi nella cultura della rinascita americana inizialmente in punta di piedi, da sceneggiatore di commedie (anche se è già del 1939 la sua prima candidatura all’Oscar per lo script di 'Ninotchka', diretto dal suo maestro Ernst Lubitsch) ed in seguito come motore principale di questa stessa rinascita culturale. Il resto è storia: 29 lungometraggi, decine di sceneggiature (spesso scritte a più mani con alcuni tra i più grandi autori di sceneggiature di sempre come “Izzy” Diamond e Charles Brackett), 21 nominations agli Oscar (con 6 statuette vinte), per non parlare dei numerosi premi e riconoscimenti assegnatigli nelle più grandi manifestazioni cinematografiche del mondo (Bafta, Cannes, Venezia, David di Donatello, Golden Globe). Questi però sono soltanto numeri; ciò che ci fa amare Wilder e che lo terrà sempre nel cuore di tutti gli appassionati di Cinema sono le sue facce, i suoi lati. Billy ha due facce: una è la faccia delle sue commedie, l’altra è quella più oscura, imprescindibilmente tinta di noir. Spesso però questa faccia è una sola, formata da questi due profili differenti e distanti che molto spesso Billy ha saputo condensare in una sola, splendida espressione cinica. Per essere più specifici, Billy ha un lato brillante che tanto bene ha rinfrescato gli animi del pubblico e dei produttori: pellicole rassicuranti, maliziose ma educative, in cui il male serve solo a godere meglio del bene, i personaggi indossano una “maschera” (in senso lato) a fin di bene, ma soprattutto ci fanno ridere, e ridere tanto. Alcuni titoli indicativi sono 'A qualcuno piace caldo', 'Baciami stupido', 'Uno, Due, Tre', 'Non per soldi..ma per denaro'. Un altro lato è quello delle pellicole ciniche, in bilico tra malignità e farsa, nelle quali Billy si diverte come un bambino a giocare con l’ago della bilancia che pesa il sorriso e la smorfia maligna, il sollievo e l’ambiguità. Eccoci quindi a 'Testimone d’accusa', 'Stalag 17' e 'L’asso nella manica', per fare qualche esempio. Infine, pellicole di maggior spessore emozionale, siano esse noir “tradizionali” (Billy non le avrebbe chiamate certamente così, perché la tradizione del noir è proprio quella che lui stesso stava costruendo, parallelamente ad altri registi come Hawks, Lang e scrittori come Chandler), commedie sentimentali tinte di dolente romanticismo, o mélo-noir: rispettivamente 'La fiamma del peccato', 'L’appartamento' e 'Viale del Tramonto'. E’ sufficiente scegliere tra queste facce, tra questi lati ammalianti. E non si rimarrà certamente delusi. E’ estremamente difficile trovare la stessa brillantezza, varietà, qualità nel cinema odierno, spesso troppo convulso e tristemente impersonale.
Sarà l’autore di questo blog a farvi respirare nello specifico la magia di alcuni dei capolavori di Wilder. Personalmente voglio concludere questo piccolo ed incompleto ritratto citando un breve passo di un libro che mi sento di consigliare a tutti coloro che sentono la voglia e la curiosità di entrare nell’universo di questo straordinario artista, scritto da un suo grande fan, il regista Cameron Crowe (non per caso uno dei pochi registi che siano riusciti a mantenere un equilibrio comico-intellettuale di indubbia brillantezza), dal titolo 'Conversazioni con Billy Wilder', una lunga intervista mai noiosa e piena di spunti interessanti sulla vita e le opere di Wilder.
L’opera di Billy Wilder è un prezioso scrigno di creature straordinariamente vive create da un mago che possedeva il mestiere del comico e l’occhio infallibile del grande ritrattista; gli aspetti migliori della vita, le cose tristi e quelle frivole, l’ironia e lo strazio hanno uguale peso nella sua opera. Così, anche a distanza di anni, le opere di Billy Wilder, meglio di quelle degli altri registi suoi contemporanei, continuano a rappresentare gli esseri umani per quello che veramente sono.
Grazie di cuore, grande Billy.

Massimiliano Marco Gavinelli