Robert Zemeckis ha finalmente terminato di rompere i coglioni con la motion capture ed è tornato al Grande Cinema. 'Flight' è il suo lavoro più oscuro ed emozionante, che si pone subito dietro ai conclamati capolavori di 'Ritorno al futuro' e 'Forrest Gump'. Sempre interessato alle potenzialità tecniche infinite della macchina da presa, Robert non è un semplice sperimentatore ma un cesellatore di emozioni, in grado di utilizzare l'effetto speciale come espressione cinematografica funzionale alla narrazione, al sentimento. So che questo della funzionalità è un discorso che ripeto spesso sul blog, ma per me è fondamentale. Non amo il cinema fine a se stesso ma neanche il cinema che non coinvolge. Se la spettacolarità delle immagini è densa di significato, allora ben vengano le innovazioni tecnologiche. In questo senso, la prima mezz'ora di 'Flight' è un pezzo indimenticabile del cinema contemporaneo (a differenza della trilogia sulla motion capture, puro onanismo). Ma quello che rende l'ultimo film di Zemeckis un'autentica sorpresa è il coraggio con il quale vengono posti al centro del discorso questioni etiche, che raramente vengono affrontate. Quanto possono incidere le dipendenze sul nostro grado di professionalità? Chi compie un gesto eroico è sempre e comunque un eroe? 'Flight' parla di demoni e alcolismo, di menzogne e cocaina, l'unica "medicina" che possa rendere presentabile chi beve, tutto il giorno, tutti i giorni. Il regista americano prende di petto, seriamente, temi "scomodi" su cui non si ha più molta voglia di riflettere. Per il personaggio di Whip Whitaker, interpretato da un fantastico Denzel Washington (bentornato anche a te, era ora), gli alcolici sono ciò che gli permettono di non soffrire, di dimenticare le sconfitte, mentre la cocaina è ciò che gli dà la possibilità di "riprendersi" e di pilotare, l'unica cosa di cui è capace. Quando compie il miracolo di evitare un disastro aereo, salvando la vita a 96 persone, si trova stretto in un angolo a scegliere tra l'autodistruzione e la prigione. Oltre all'impressionante sequenza dell'incidente, non si può dimenticare quella in cui Whitaker è solo, in una stanza d'albergo, e sente il richiamo del frigobar, pieno zeppo di bevande alcoliche. E' vero, si potrebbe rimproverare a Zemeckis la scelta di un finale buonista e politicamente corretto. Ciononostante, sarebbe ingeneroso non premiare la grandezza, la pulizia narrativa, l'intensità di 120 minuti su 138. Certo, si può sempre preferire la lezioncina da sussidiario delle medie di Spielberg e del suo 'Lincoln', che ignora completamente gli sforzi che hanno compiuto gli schiavi per accelerare il processo di emancipazione dagli oppressori e si preoccupa soltanto di un'agiografia paracula per essere premiato agli Oscar. C'è chi dice no. Io mi tengo stretto le storie degli sconfitti, degli alcolizzati, che non hanno modo di riscattare la propria vita neanche quando salvano quella degli altri.
Emiliano Dal Toso
Emiliano Dal Toso
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