venerdì 31 agosto 2012

Bidoni: Tutti i Rumori Del Mare (voto 4)

Federico Brugia è il marito della famosa cantante italiana Malika Ayane. Ha diretto alcuni dei suoi videoclip. Possiede una casa di produzione cinematografico-pubblicitaria che si chiama "The Family". "The Family" ha prodotto il suo primo lungometraggio, "Tutti i rumori del mare". Un tizio senza nome fa il corriere per certi criminali ungheresi. Trasporta future mignotte dall'Europa dell'Est all'Italia. Fa questo lavoro per scordare se stesso e un passato che nel film non si scoprirà, ma che pare esser stato doloroso. Un giorno gli danno da trasportare una povera mentecatta che dipinge tutto ciò che vede con immaginarie chiazze di inchiostro nero. Questo incontro, in qualche modo, porta l'innominato ad un ritorno nel sè, o alle origini, se preferite. Il film è caratterizzato da colori tenui, glaciali, che hanno cominciato con insistenza ad affacciarsi sul cinema italiano con "Le conseguenze dell'amore" di Sorrentino, e che pare debbano tormentarci ancora a lungo. Tecnicamente e formalmente bello. Ottime inquadrature, discreti movimenti di macchina. Noioso, però. La scelta di un protagonista afasico non sarebbe neanche male, Kim Ki Duk l'ha fatto ne "L'arco" (lì i protagonisti erano addirittura due) e la cosa gli è girata. A Brugia, la cosa non gira per niente, perchè questa mancanza di parole è sostituita da un effluvio verbale fuori campo che vi martellerà i coglioni con banalità insulse sul senso della vita, sulla voglia di fuga, sul concetto del passato che oscura le possibilità del futuro, su una non meglio definita insoddisfazione esistenziale, che non viene da nessun luogo e non va da nessuna parte. I comprimari sono ridotti spesso a macchiette, oppure sono del tutto inverosimili, come il romantico e cocainomane lord inglese che, non si sa bene perchè, è finito a fare criminal management per una pseudomafia ungherese da barzelletta. La trama ha numerosi piccoli buchi, intendo proprio dal punto di vista della credibilità evenemenziale, peccato perdonabile, ma solo se il film fosse un capolavoro, e non lo è assolutamente. Poi, un'altra cosa. Per favore, smettiamola di chiamare "noir" qualsiasi pellicola, o libro, che abbia una atmosfera vagamente cupa. Il Noir è qualcosa di ben preciso, sia nel cinema che in letteratura, ed è purtroppo morto nella metà degli anni Cinquanta. Quello di Brugia non è un noir. Chiamatelo film drammatico, chiamatelo polpettone psicologico. Ma non chiamatelo noir. Se volete vedere un film tipo quello che voleva fare Brugia, ma fatto bene, consiglio "Nessuna qualità agli eroi" (2007) di Paolo Franchi, oppure, anche se è diverso, il godibilissimo "La doppia ora" (2009) di Giuseppe Capotondi. Chiudo dicendo che è assolutamente scandaloso che Rocco Siffredi sia stato inserito nel cast per attirare più gente al botteghino. Il povero Rocco è compresso in una comparsata umiliante, seminudo, sdraiato sul divano, che se la ronfa con una donna addormentata soavemente sopra il suo fulgido attrezzo. Il tutto dura una quindicina di secondi.

Ivan Brentari



lunedì 27 agosto 2012

Il Cavaliere Oscuro - Il Ritorno (voto 5)

Che mondo ci aspetta se anche un eroe del calibro dell'Uomo Pipistrello appende maschera e divisa al chiodo e si trasforma in un pantofolaio brontolone? Un mondo di pace, sembrerebbe essere la risposta. Meno male allora che un cattivone con una museruola al posto della bocca decide di arrivare a portare un po' di scompiglio nel Mondo. Avrà ancora voglia di venirci a salvare il nostro oscuro beniamino? Da questa serie di interrogativi prende le mosse il capitolo finale della saga di Batman, firmata Christopher Nolan. Un film che si propone come una chiusa eroica e spettacolare ma che in fin dei conti si riduce a un compitino diretto in bello stile senza prendersi il minimo dei rischi. L'eredità del secondo capitolo della saga ("Il cavaliere oscuro") era molto pesante, sia a livello narrativo che a livello simbolico, per questi motivi, forse, il regista inglese ha deciso di ricollegarsi alle vicende del primo episodio ("Batman Begins"), da molti considerato uno dei suoi film meno riusciti. Una scelta opinabile, ma in fin dei conti non da condannare. Cosa dire allora di questo terzo episodio? Mettiamo subito in chiaro che lo stile registico è eccellente a livello tecnico, attento a ogni dettaglio della messa in scena, senza concedere la minima sbavatura. Gli effetti speciali e le scene di combattimento sono esaltate con enfasi ma a risentirne è la trama, piuttosto semplice e povera. Sugli schermi italiani è arrivato un cavaliere oscuro massacrato da un doppiaggio inascoltabile, sia per quanto riguarda Batman, ma soprattutto per il personaggio di Bane, doppiato da un cacofonico Filippo Timi che rovina la performance complessiva dell'originale Tom Hardy. C'è da dire che il bravo attore inglese ha avuto un compito ingrato e complicato, costretto a recitare solo con l'espressione degli occhi e dovendo fare da successore al leggendario Joker di Heath Ledger. Ottima conferma la prova di Sir Michael Caine, sempre una sicurezza, mentre è una piacevole sorpresa vedere Anne Hathaway calata così bene nei panni della gatta morta. Quello che però risulta pesante nel film di Nolan è un'inutile retorica di fondo, una volontà di inserire temi cari alla nostra attualità come la crisi, la morsa opprimente delle banche e la corrente ecologico-ambientalista, che con un film di supereroi c'entrano poco o niente. I personaggi dei fumetti dovrebbero appartenere a un universo tutto loro, avulso dalla realtà, per farci capire magari che ognuno di noi può essre un eroe nella sua realtà quotidiana. La cultura americana invece sembra essere sempre bisognosa di un salvatore dotato di superpoteri e non si rende conto che nella vita reale non si finisce mai con dei sorrisi complici in un soleggiato bar italiano. A spuntarla è quasi sempre il cattivo con la maschera.
Alvise Wollner


domenica 19 agosto 2012

Anteprima: Take This Waltz (voto 9) IL FILM DEL MESE

'Take this waltz' è bellissimo ma non è facile scriverne una recensione. Perchè, sulla carta, è un film che racconta una storia davvero molto vecchia, su cui il cinema americano (e non) ci marcia dalla notte dei tempi. Lui, lei, l'altro. Coppia di giovani sposi innamorati con bellissima casetta nella provincia canadese: lei è una scrittrice freelance, lui si occupa di libri  di cucina. Lei è Michelle Williams, ed è bellissima, dolcissima, un agnellino. Lui è Seth Rogen, ed è uno degli uomini più simpatici del mondo, è sensibile, è sostanzialmente un buono. La loro vita sembra una favola, in Canada non ci sono problemi economici, anche se fai il giornalista o lo scrittore vivi alla grande. Non ci sono nemmeno i tamarri, figuriamoci i delinquenti. Sembrerebbe che nulla possa cambiare la loro serenità, il loro divertimento, i piccoli scherzi di lui, le tenerezze di lei. Fino a quando, non piomba nella loro vita un nuovo vicino di casa, artista, guidatore di risciò, che instaura con la mogliettina una fortissima alchimia. Il terzo incomodo è Luke Kirby ed è praticamente l'opposto di Seth: seduttivo, affascinante, irresistibile. Alla sua seconda prova dietro la macchina da presa ('Away from her' fu l'esordio), la trentacinquenne Sarah Polley racconta l'imprevedibilità dei sentimenti, in maniera molto semplice ma con stupefacente autenticità. Non ha bisogno di troppi fuochi d'artificio, concentrandosi in modo particolare sulla caratterizzazione dei tre personaggi principali. La vita non è programmabile, le emozioni non sono controllabili. Vuole bene ai propri protagonisti: ciascuno di loro ha i propri motivi per soffrire, le proprie ragioni per essere incazzato con l'amore. Lo stile indie-malinconico di 'Take this waltz' potrebbe riportare alla memoria una Sofia Coppola, un Wes Anderson: forse la regia della Polley è meno visionaria ma c'è davvero altrettanta poesia. Tutto è condito da una politica fortemente anti-hollywoodiana, che respinge qualsiasi sentimentalismo, rifiuta l'ipotesi di un happy ending e di una soluzione consolatoria. Lo spettatore può rispecchiarsi col suo personaggio preferito: ad ogni modo, ne esce con un groppo in gola e le lacrime dagli occhi. Il sorriso finale di Michelle Williams, su una giostra, col sottofondo di Video killed the radio star, è un'immagine che va tenuta stretta nel cuore perchè nasconde una lacerante ricerca della felicità, una dolorosa scelta che ribadisce una volta per tutte, se ce ne fosse ancora bisogno, quanto la gioia di alcuni comporti necessariamente la sofferenza di altri. 'Take this waltz' è un piccolo capolavoro che ridefinisce il concetto di malinconia.

PS: il film non ha ancora una data di uscita in Italia. Va visto però, legalmente o illegalmente.

Emiliano Dal Toso




sabato 18 agosto 2012

Anteprima: Ted (voto 7)

Da un certo punto di vista, Seth MacFarlane assomiglia al grande pittore espressionista Mark Rothko. Sai sempre che cosa aspettarti, eppure sei sempre felice di apprezzarne la familiarità. Guardando un episodio di 'Family Guy', notiamo che i comportamenti di Peter Griffin non sono distanti da quelli che potrebbe assumere un Homer Simpson, ciononostante non è assolutamente possibile trattenere le risate. A un primo approccio, potrebbe sembrare che in 'Ted' il regista abbia preferito virare verso un'ironia e un ritmo comico adatto alle famiglie. L'orsacchiotto è una versione in miniatura di Peter Griffin; Wahlberg è una versione più giovanilista di Peter Griffin; Mila Kunis è la versione gnocca e snella delle insofferenti mogli dei capofamiglia di 'Family Guy' e di 'American Dad'. Sfortunatamente per i detrattori di MacFarlane, 'Ted' si rivela essere un grandioso hoot, in vista della prossima stagione cinematografica. Se l'idea di mettere in bocca a un orsacchiotto parolacce e sconciezze non è certamente originale, non è possibile resistere di fronte al numero infinito di invenzioni comiche, di riferimenti alla pop culture energeticamente ordinati in una catena irresistibile di politically uncorrect. Col suo primo lungometraggio, MacFarlane si posiziona a metà strada tra la parodia e lo specchio dei tempi. Da una parte, il mirino è indirizzato nei confronti di quell'industria (non solo cinematografica) che trasmette un'immagine edulcorata e patetica della vita, della società, della crescita. Dall'altra, vengono raffigurate straordinariamente l'immaturità e la difficoltà di relazionarsi. L'orsacchiotto Ted e il suo "migliore amico" Johnny si drogano, si sbronzano e bestemmiano; non sono altro che dei "dispersi", a volte un po' vigliacchi. Esattamente l'opposto del personaggio femminile di Mila Kunis, ritratto della fidanzata "rompiscatole", inorridita dal cattivo comportamento della vera "coppia di fatto", composta da orso e amico, certamente non da fidanzato e fidanzata. Bromantic comedy all'ennesima potenza, 'Ted' esplora tutti i lati possibili dell'amicizia fraterna, oltre alla sua dissolvenza e ad un eventuale ricongiungimento. C'è certamente molto di Seth MacFarlane nel personaggio di Mark Wahlberg: per entrambi non esistono ragioni plausibili per le quali valga la pena di modificare le proprie abitudini, le proprie attitudini cazzare, malgrado l'inevitabilità dei cambiamenti. Meglio così, dal momento che i risultati danno loro ragione: 'Ted' è il film più irriverente e divertente dell'anno.

Emiliano Dal Toso

giovedì 12 luglio 2012

All Summer Long: Adventureland

'Adventureland' è quel magone che sale nel petto quando ci guardiamo indietro e ci ricordiamo le estati più belle della nostra vita. Che, c'è poco da fare, coincidono con le prime volte: la prima volta che siamo andati a ballare, la prima volta che ci siamo sbronzati, la prima volta che ci siamo innamorati. Chi ha inventato l'estate, probabilmente, ha pensato che serviva un periodo di due-tre mesi per passare dall'età dell'innocenza a quella della giovinezza, dell'avvicinamento alle gioie e alle disgrazie. Storie di amicizia, di sogni e di letti bagnati. Non è obbligatorio andare in vacanza, può anche capitare di essere costretti a lavorare in un parco divertimenti, in attesa di venire ammessi all'università. Questo capita al protagonista James Brennan, interpretato dal Jesse Eisenberg di 'The Social Network', circondato da personaggi non troppo alla moda, colleghi stralunati che, forse, non vedrà più nel corso della vita ma che non dimenticherà mai. Con loro si è annoiato, si è divertito e si è confidato. In quell'estate del 1987, Brennan, adolescente impacciato, ha creduto che le emozioni e i sentimenti potessero invaderlo per sempre. Benchè sfuggente e istantaneo, l'innamoramento rende indimenticabile anche il contorno, tutto ciò di cui altrimenti non ci accorgeremmo. Anche la noia sembra più piacevole, perchè si tramuta in attesa, in formicolio, in entusiasmo, il più delle volte ingiustificato. Tanto più quando la ragazza che ci sta facendo perdere la testa è Kristen Stewart, ha la nostra età ed è troppo bella per essere vera, e sembra incredibile che, noi e lei, stiamo condividendo qualcosa che è presente, ed è reale, e che diventerà un magnifico ricordo. Il regista Greg Mottola disegna l'altra faccia della medaglia di 'Suxbad' (capolavoro demenziale), sostituendo l'irruenza ormonale e cameratesca con il battito cardiaco accellerato, il mal di pancia, e gli occhi sempre aperti, la testa sempre assente, perduta nel dolcissimo pensiero di quello che non c'è ma che vorremmo noi. Tutto troppo poco concreto, tutto troppo bello e inafferrabile. E quelle canzoni che c'erano allora rimarranno sempre la nostra colonna sonora, saranno indelebili, mentre quelle che verranno dopo sembreranno sempre meno importanti, un po' inutili, senza sapore. 'Adventureland' possiede lo stesso gusto di Proust per le madeleine, trasmette la stessa nostalgia canaglia. E' un trionfo per tutti coloro che guardano costantemente nello specchietto retrovisore e per tutti quelli che amano l'idea dell'amore, molto di più dell'amore in sè. Guarda caso, non è il solo racconto di formazione ambientato nel periodo estivo: da 'Stand By Me' a Bertolucci, da Rohmer a 'Y tu mama tambien', quanto bel cinema intravede nell'estate una stagione tutt'altro che spensierata, anzi, il terreno ideale per costruire i primi approcci all'inquieto vivere.

Emiliano Dal Toso

mercoledì 11 luglio 2012

The Amazing Spider-Man (voto 7) IL FILM DEL MESE

Chiariamolo subito. 'The Amazing Spider-Man' ha il grande difetto di venire dieci anni dopo il primo film di Sam Raimi e solo cinque anni dopo l'ultimo episodio. Non si è mai visto nella storia del cinema un reboot così veloce. Christopher Nolan era ripartito da zero con 'Batman Begins' otto anni dopo l'ultimo Batman di Schumacher (che proseguiva la serie di Tim Burton) ma, signori, stiamo parlando di Nolan, uno che all'epoca aveva già acquisito la nomea di autore dopo solo tre film. In questo caso, dietro la macchina da presa ci va il misconosciuto Marc Webb, alla seconda fatica dopo l'ottima commedia sentimentale '500 giorni insieme'. Webb riesce nell'impresa di compiere un lavoro eccellente, più leggero e cazzaro di quello di Raimi. Comparando le due diverse impostazioni, la mia personalissima tendenza a preferire l'onestà intellettuale, la semplicità e il divertimento all'ambizione e alla necessità di oltrepassare i limiti del puro intrattenimento mi porterebbe a sentenziare che questa nuova versione dell'Uomo Ragno è migliore di quella precedente. Dall'altra parte, però, non si possono dimenticare il travaglio e la sfortuna che precedettero il film di Raimi, che coprì in extremis i buchi lasciati da James Cameron e Ang Lee e si dovette cimentare nella trasposizione cinematografica di un fumetto che conosceva soltanto per sentito dire. Per non parlare della tragedia dell'undici settembre che costrinse a ritoccare, in fase di post-produzione, diverse sequenze. I clamorosi risultati al botteghino hanno dato comunque ragione al regista de 'La casa'. Non ho mai amato troppo quello Spider-Man, nemmeno a quindici anni. Troppa cupezza, troppa pesantezza, pochi passaggi davvero "ignoranti". Avrei preferito una versione più simile a quella di questo 'The Amazing', che si caratterizza per maggiore spettacolarità e per una migliore sensibilità nella descrizione dei rapporti interpersonali. E, soprattutto, per una grandiosa scelta di casting. Andrew Garfield è un Peter Parker molto più simpatico, più autoironico e meno sfigogrigio ed, inoltre, ha una notevolissima gamma espressiva, a differenza di Maguire. Seppur bella, Emma Stone è forse meno bella di Kirsten Dunst ma il suo personaggio di Gwen Stacy è indubbiamente più vivace, consapevole di essere la donna di un supereroe e di avere, in proporzione, altrettante responsabilità. Mary Jane, tutto sommato, non era altro che una gattamorta divisa tra la tenerezza nei confronti di uno sfigato e la sicurezza economica che le poteva garantire la ricca famiglia Osborn. Proseguiamo. Gli zii Martin Sheen e Sally Field (sticazzi!) lasciano da mangiare la polvere a Cliff Robertson e a Rosemary Harris. E il cattivo Lizard del grandissimo Rhys Ifans non ha assolutamente niente da invidiare al Goblin di Willem Dafoe. Insomma, si ride di più, ci si distrae di più e ci si emoziona di più: scusate, che cos'altro volevate chiedere all'Uomo Ragno?

Emiliano Dal Toso

All Summer Long: Il Compleanno

Nel 2009 viene presentata alla Mostra di Venezia l’opera prima di Marco Filiberti. 'Il Compleanno', ambientato tutto d’estate, tratta il tema dell’omosessualità. Matteo, psicanalista di successo, è il marito di Francesca e il padre di una giovane bambina.  Durante le vacanze estive con una coppia di amici, il figlio di questi ultimi scatenerà le tentazioni represse di Matteo. Il pregio di questa storia è quella di non cadere nello scabroso, ma di mostrarci in profondità il cambiamento del comportamento di un uomo nel momento in cui si accorge di amare un altro uomo, pur avendo una famiglia. Il regista è sorretto da un cast di attori esperti (Maria de Medeiros e Alessandro Gassman) e meno famosi (Massimo Poggio, Michela Cescon,  Hristo Jivkov) ma indovinati. Fra tutti spicca il burlone Gassman che dà un tocco di leggerezza, con battute divertenti e sdrammatizzanti. Sebbene alcune situazioni siano scontate e qualche slancio di sceneggiatura pecchi di originalità, Filiberti ha il coraggio di affrontare un tema ancora delicato per il cinema italiano; tutto ciò è già una vittoria perché non si è scaduto nel banale, non sì e fatta solo pura retorica e, ancora di più, si è evitato di utilizzare lo  scandalo per autopromuoversi. A differenza di alcuni registi nostrani (Ozpetek?) che dovrebbero imparare l’arte della naturalezza e della semplicità. Speriamo che grazie a giovani autori come Filiberti e Guadagnino ('Io sono l'amore') possa sorgere una nuova maturità per il cinema italiano.

Luca Recordati