lunedì 28 aprile 2014

Riflessioni Spiazzanti: La Provocazione

I registi tradiscono. Wes Anderson ha tradito la propria proposta cinematografica di un universo stilizzato di perdenti caratterizzato dalla malinconia e dall'ironia, scegliendo di costruire un impeccabile prodotto preconfezionato rivolto ad un pubblico che si accontenta del citazionismo, del formalismo ed è ormai incapace di confrontarsi con un cinema che che abbia a che fare con temi e sfumature anche solo vicini alla vita reale. Lo stesso percorso è stato intrapreso da Tim Burton, che è passato in pochi anni dal meraviglioso 'Big Fish' per approdare al riprovevole immaginario di plastica di un film pattumiera come 'Dark Shadows'. Ma, in fondo, il trionfo dell'estetica incapace di andare oltre, di significare qualcosa d'altro, è un po' ciò che accomuna i bidoni recenti che sono stati spacciati come capolavori: da 'Avatar' a Nicolas Winding Refn, da 'La Grande Bellezza' a '12 anni schiavo'. Questo non-sentimento dei tempi è stato perfettamente inquadrato da Harmony Korine in 'Spring Breakers': il regista americano ha avuto il merito di prenderne consapevolezza e di proporre un'opera complessa che si presenta come futile ma che è esattamente l'opposto. Si potrebbe dire che 'Spring Breakers' intraprende la direzione opposta degli Anderson e dei Burton, ex grandi "autori" che sono convenientemente passati dalla sostanza all'inconsistenza. Ma il coraggio di un cinema alternativo in grado di smascherare il vuoto pneumatico della fotografia e delle belle immagini fini a se stesse non è rimasto isolato. Lars von Trier con 'Nymphomaniac' ha creato un evento mediatico, utilizzando la principale arma commerciale che unisce i popoli di tutto il mondo: il sesso. Quello che ne è venuto fuori è, però, il film più doloroso, audace, denso di sfumature, di immagini vive, pulsanti, autentiche degli anni Duemila. Certo, mettersi in relazione con il succo del discorso di 'Nymphomaniac' potrebbe non essere il desiderio di chi va al cinema per distrarsi e rilassarsi. A loro lasciamo volentieri 'Grand Budapest Hotel'. Allo stesso modo, mi tengo strette le scopate liberatorie di 'La Vita Di Adele' e non l'hipsterismo piagnucolone di 'Her', mi tengo stretto la parabola grottesca e distruttiva di 'The Wolf Of Wall Street' e non le lezioncine da sussidiario delle elementari di 'Lincoln'. Più vado avanti e guardo film, più mi rendo conto che dietro a tutto ciò che appare provocatorio c'è molta più sensibilità: dietro a 'Nymphomaniac' e a 'La Vita Di Adele' ci sono due commoventi storie d'amore, dietro a 'The Wolf Of Wall Street' e a 'Spring Breakers' ci sono le cause e gli effetti del delirio collettivo della contemporaneità. Ma non mi illudo: so che per chi whatsappa agli amici le foto corrette su Instagram o per chi tiene ad aggiornare il proprio stato sentimentale su Facebook questo possa essere difficile da capire.

Emiliano Dal Toso



martedì 8 aprile 2014

The Grand Budapest Hotel

Ci sono soltanto due registi che negli ultimi vent'anni siano stati in grado di dare un'impronta talmente originale alla loro filmografia da diventare immediatamente riconoscibili: Quentin Tarantino e Wes Anderson. Esattamente come accade nei film del regista di 'Pulp Fiction', così in quelli di Wes sono sufficienti un paio di inquadrature e qualche battuta per non avere dubbi su quale sia la loro provenienza. Se, però, nelle opere di Tarantino si è dichiaratamente dinanzi a un trionfo del citazionismo e della pura narrazione e difficilmente si richiede allo spettatore uno sforzo interpretativo ulteriore, in quelle di Anderson l'originalità dello stile e della confezione è sempre stata funzionale a un contenuto nascosto in maniera molto sofisticata dietro alla perfezione formale e alla precisione millimetrica dei dettagli. Ho amato alla follia lavori come 'I Tenenbaum' e 'Il Treno per il Darjeeling' proprio per la loro costante tensione malinconica che accompagna ogni passaggio e per lo sfumato disagio esistenziale dei personaggi più stilizzati e surreali. Mi sembra che questo miracoloso connubio tra invenzioni visive e profondità stia gradualmente esaurendosi nel cinema del regista texano: già in 'Moonrise Kingdom' la quantità di carineria prevaleva su quella della sostanza, malgrado l'indubbia efficacia di alcune invenzioni registiche. Ora, con 'The Grand Budapest Hotel' temo che la "polpa" sia definitivamente scomparsa: aumenta il numero di personaggi eccentrici, aumentano le sfarzosità delle scenografie e la vivacità dei colori, sembra sempre più maniacale la ricerca geometrica dell'"inquadratura perfetta", eppure svaniscono clamorosamente ogni traccia di caratterizzazione umana e di poesia. Sia chiaro: non mancano momenti divertenti e geniali (non saremmo altrimenti in un film di Wes Anderson), ma non è possibile evitare di constatare un generale senso di delusione per quello che è a tutti gli effetti nient'altro che un divertissement sterile e fine a se stesso, un po' compiaciuto e, alla lunga, ripetitivo. Diventato ormai regista noto anche alle masse e abbandonata l'etichetta di autore chic e snob, la paura è quella che il buon Wes segua la strada che ha portato al fallimento artistico di Tim Burton: quella dell'opera cinematografica prefabbricata, richiesta ad uso e consumo da un pubblico sempre più propenso a divertirsi per le stramberie e per le cazzatine ma sempre meno in grado di vivere un'esperienza cinematografica consistente e davvero emozionante. Il numero spaventoso e, forse, eccessivo di attori eccellenti presente in 'The Grand Budapest Hotel' sembra essere quasi una giustificazione per soccombere alla mancanza di idee ed un pretesto per proporre agli spettatori il gioco di chi ne riconosce di più, distraendosi dalla sostanziale inutilità dell'intreccio narrativo. Col rischio di sembrare un cinico con la puzza sotto il naso, preferisco prendere le distanze da un film fighetto e modaiolo, malgrado il suo autore sia uno dei più amati dal sottoscritto. Dopotutto, soltanto una linea sottile separa la bellezza dalla vacuità, e la mancanza di ogni tipo di amarezza sarà sempre motivo di grande noia e di disinteresse.

Emiliano Dal Toso



domenica 30 marzo 2014

I Magnifici Sette: Gennaio - Marzo 2014

The Wolf Of Wall Street - Martin Scorsese: ne ho già parlato in abbondanza, ma non è mai abbastanza. Un capolavoro, la cui sconfitta agli Oscar non fa altro che accrescerne il valore e a consolidarne il suo significato corrosivo e iconoclasta, sulla degenerazione della parola America. Si è parlato tanto anche della mancata statuetta a DiCaprio: Leo si può consolare col fatto di essere il protagonista di uno dei più grandi film di uno più grandi registi di sempre.

Nebraska - Alexander Payne: una descrizione della provincia americana impietosa e disperata, accompagnata da un'analisi dei rapporti familiari amara e sarcastica. Senza dimenticare sfumature leggere, romantiche, nelle quali il mezzo bicchiere pieno prevale su quello vuoto. Altro sconfitto agli Oscar, al quale è stata preferita addirittura la sceneggiatura melensa e modaiola del sopravvalutato 'Her'. Dopotutto, 'Nebraska' è esattamente l'opposto: crepuscolare e anti-estetico.

The Counselor - Ridley Scott: a sorpresa, un noir cupo e tesissimo, nel quale tutte le sue star iper-hollywoodiane (Fassbender, Bardem, Cruz, Pitt) fanno una fine davvero tremenda. Su tutti, svetta una diabolica Cameron Diaz, seduttrice che da sempre stringe patti con il Male. Il miglior Ridley Scott dai tempi di 'Thelma e Louise', girato da Dio, e nemmeno preso in considerazione per gli Oscar: altra batosta all'immagine di un Paese che non ha altro profeta al di fuori del vile denaro.

The LEGO Movie - Phil Lord, Christopher Miller: il miglior film per bambini da non so quanto tempo a questa parte, e il migliore d'animazione da 'Wall-E' della Pixar. Pieno zeppo di citazioni e di invenzioni davvero incredibili, folle, surreale, esclusivamente a base degli amati e colorati mattoncini di plastica, alle prese con un golpe per ribaltare e sovvertire la dittatura degli oppressori. Delizioso il cammeo finale di Will Ferrell, che insegna a suo figlio le "regole del gioco".

Il Capitale Umano - Paolo Virzì:
descrizione di una borghesia brianzola inquietante e involontariamente divertente e, nello stesso tempo, un avvincente giallo adolescenziale, perfettamente calibrato. Il livornese Virzì abbandona la sua poetica familista dei suoi ultimi due film per un lavoro ambizioso, non sempre riuscito, che deve molto alle interpretazioni degli stagionati Fabrizio Bentivoglio e Fabrizio Gifuni e della promettente Matilde Gioli. 

Smetto Quando Voglio - Sydney Sibilia: per nulla folgorante, troppo debitore delle serie americane e dell'ironia alla 'Boris', è comunque un esordio interessante, che mette a fuoco l'allucinante condizione di chi uscito dalle Università non riesce a far altro che il benzinaio, il lavapiatti o il giocatore di poker clandestino. Alcune trovate sono riuscite ed esilaranti, ma molti passaggi narrativi sono sfilacciati e la sensazione è di trovarsi di fronte a qualcosa di troppo inverosimile e non veramente surreale.

Quando C'Era Berlinguer - Walter Veltroni: un racconto onesto, trasparente da parte di uno dei più grandi sconfitti della Sinistra italiana su colui che, invece, ne è stato il più valido rappresentante. Ne viene fuori qualcosa di doloroso e commosso, una presa di consapevolezza sulla fine della "spinta propulsiva", quella che contribuiva a rendere piena di significato la parola comunista, almeno fino all'11 giugno 1984. Un atto dovuto, anche nei confronti della qualità della politica italiana di quel tempo.



lunedì 10 marzo 2014

I Primi Dieci Bei Film Italiani Degli Anni Dieci

10 - La Solitudine Dei Numeri Primi - Saverio Costanzo
Criticatissimo, forse perchè ha completamente disatteso le attese di chi si aspettava una semplice trasposizione del romanzo di Paolo Giordano. Costanzo, invece, firma uno psycho-horror sorprendente, pieno di suggestioni e di richiami al cinema di De Palma e di Argento, sostenuto da una indimenticabile e impressionante interpretazione di Alba Rohrwacher.

9 - Qualche Nuvola - Saverio Di Biagio
Raro esempio di un'opera nostrana leggera, popolata di personaggi semplici, "gente de borgata". Non si parla di criminalità, di disagi sociali ma di amicizia, amori e passioni, con una semplicità e una genuinità davvero invidiabile. Lontano anni luce dalle macchiette rassicuranti della "neocommedia all'italiana", eppure straordinariamente italiano.

8 - La Pecora Nera - Ascanio Celestini
Il film italiano più duro e spiazzante degli ultimi anni. Racconta un'umanità di perdenti e di emarginati, senza alcun tipo di approccio buonista e consolatorio. Seppur non manchino alcune ingenuità narrative, si tratta nuovamente di un caso più unico che raro di un cinema reale e coraggioso, che non si affida a macchiette o a scorciatoie rassicuranti.

7 - Io e Te - Bernardo Bertolucci
C'è tutta la poetica del più grande regista italiano di tutti i tempi: la sconfinatezza dello spazio chiuso, che può essere resa tale soltanto dalla forza del Cinema; la capacità di creare immagini universali, in grado di rimanere nell'immaginario collettivo; l'ammissione di limitatezza dell'Uomo di fronte alle proprie convinzioni. Sullo sfondo, un romanzo di formazione tenero e crudele.

6 - Il Capitale Umano - Paolo Virzì
Grande descrizione di una borghesia brianzola inquietante e involontariamente divertente e, nello stesso tempo, un avvincente giallo adolescenziale, perfettamente calibrato. Il miglior film del regista livornese, il più ambizioso e meno familista, che deve molto alle prove degli stagionati Gifuni e Bentivoglio e della promettente Matilde Gioli.

5 - Miele - Valeria Golino
Se Miele è talmente riuscito ed emozionante, il merito va soprattutto a una magnifica, trascinante, fighissima Jasmine Trinca. I temi sono complessi ed ambiziosi, non sempre sostenuti da una altrettanta profondità nella gestione del racconto. Però, alcuni singoli momenti scuotono e lasciano a bocca aperta. Di certo, è palese la voglia della Golino di allontanarsi dalla medietà del cinema italiano politicamente corretto.

4 - Cesare Deve Morire - Paolo e Vittorio Taviani
I Taviani ridefiniscono il significato di cultura e di arte come bisogno primario, sculacciando la presunzione e l'autocommiserazione di chi si ritiene superiore a tutti gli altri. Un film sperimentale, intellettuale e anti-intellettualistico, che sfrutta le sconfinate potenzialità della macchina da presa. Una riflessione sul concetto di eguaglianza.

3 - Reality - Matteo Garrone
Una dolorosa riflessione antropologica sul desiderio di fama come possibile svolta, come certificazione del proprio valore di essere umano. Garrone non denuncia ma si limita a constatare che il mondo plastificato della televisione possa rappresentare un mondo magico e fatato per tutti coloro che non possiedono gli strumenti necessari per rifiutarlo. Eccezionale il protagonista Aniello Arena.

2 - Diaz - Daniele Vicari
Botte, schiaffoni, manganellate: la testimonianza di una guerra a senso unico, ad armi impari. Un film violento, che non ha intrecci narrativi da seguire, perchè la violenza non va compresa, non va giustificata, non va contestualizzata. La ricostruzione furiosa e senza tregua di un agghiacciante evento storico, che sconvolge e ammutolisce, come se fosse un film del miglior Oliver Stone.

1 - Habemus Papam - Nanni Moretti
Sono il migliore, me lo dicono sempre tutti. Si può criticare il personaggio, ma Nanni si conferma di gran lunga il più illuminato, lungimirante, visionario autore italiano, in grado di raccontare la Storia prima che accada. Perchè dietro a ogni costume, dietro a ogni formalismo, ci sono carne e fiato, dubbi e insicurezze. Un grande film che celebra il libero arbitrio, ovverosia la più grande espressione di umanesimo.









sabato 8 marzo 2014

I Primi Dieci Grandi Film Degli Anni Dieci

10 - Django Unchained - Quentin Tarantino
La D è muta. Il trionfo della poetica fanzinara di Tarantino. Puro Cinema che si nutre di Cinema regalando Cinema. Ogni altro tipo di lettura interpretativa è fuori luogo. Così come Bastardi senza gloria non era un vero film sul nazismo, Django Unchained non è un film sulla schiavitù. Sono pretesti per omaggiare, citare, esaltarsi e creare sogni. Il semplice gusto dell'avventura, del racconto, niente di più.

9 - The Artist - Michel Hazanavicius
Non sono un burattino, sono un artista. Una sfida al tecnicismo, sfruttando nello stesso tempo le armi della tecnica: bianco e nero estetizzante, fotografia impeccabile, pulizia e precisione registica adoperate al massimo del potenziale. Il tutto al servizio di un'operazione raffinatissima e anticonvenzionale, nella quale ogni invenzione visiva è narrativa, ogni gag è finalizzata al piacere del racconto e del divertimento.

8 - The Tree Of Life - Terrence Malick
Se non ami, la tua vita passerà in un lampo. Dopo la prima visione, ero rimasto piuttosto disorientato. Malgrado alcuni passaggi sembrino provenire da uno spot di Scientology, è un film meravigliosamente ambizioso, suggestivo, violentemente simbolico. Una prova registica impressionante per un'opera che vive soltanto di visioni e di preghiere. Può non piacere, ma non si è mai visto nient'altro del genere.

7 - Spring Breakers - Harmony Korine
Quanta bellezza ancora da vedere. La celebrazione assoluta dell'estetica, della consistenza della superficie, che non può essere meglio rappresentata che dalle adolescenti sopravvissute ma deformate del terrorismo cerebrale di High School Musical e di Disney Channel. Visivamente epocale, un capolavoro pop con una sensibilità lontana anni luce da facili moralismi e gratuite provocazioni.

6 - The Social Network - David Fincher 
E' gente che conosce gente, e mi servono le loro email. Una sceneggiatura a orologeria, incalzante, cinica, senza tregua. Un film sull'Oggi, sulla velocità, sulla schiuma dei giorni. Ma, soprattutto, su un'amicizia tradita. Non basteranno mai milioni di amici virtuali se la solitudine fa parte di noi, e se il primo amore è un'ossessione, per nulla magnifica.

5 - La Vita Di Adele - Abdellatif Kechiche
Il blu è un colore caldo. L'attenzione ai dettagli rende il cinema di Kechiche prezioso e speciale. Guardando La Vita Di Adele, si assapora la vita, perchè le immagini sono immediate, dirette, e non hanno bisogno di fuochi d'artificio per raccontare storie colme di sapore e di sudore, di gioia e di sofferenza. Un grande film: onesto, autentico, sensibile.

4 - The Master - Paul Thomas Anderson
Come hai fatto a trovarmi. Un capolavoro in direzione ostinata e contraria, una riflessione sul significato che hanno movimenti, sette e personaggi che si propongono di dare un Senso, un abbraccio spirituale a chi ha perduto ogni punto di riferimento. Nei nostri cuori: Joaquin Phoenix, anima persa, volto di sconfitta e di redenzione, e Philip Seymour Hoffman, guida morale senza risposte.

3 - Il Cigno Nero - Darren Aronofsky
Mostrami il cigno nero, Nina. Conturbante, torbido e avvolgente. Non esistono intellettualismi nel cinema di Aronofsky: quello che conta è il corpo dei suoi protagonisti, sempre portati all'estremo, all'esasperazione. Il volto meraviglioso di Natalie Portman non rimane più impresso delle sue punte sanguinanti, del suo sguardo posseduto e demoniaco. Indimenticabile: grezzo, essenziale, debordante di passione.

2 - The Wolf Of Wall Street - Martin Scorsese
Vendimi questa penna. Scorsese intuisce le potenzialità finora inespresse del genere demenziale e le sfrutta per raccontare la vittoria definitiva di chi, mentre sorride, sta serenamente fottendo il mondo intero. Epocale, irresistibile, travolgente e nichilista. In fondo, disilluso e rassegnato. Leonardo DiCaprio nella sua più grande interpretazione, al fianco di uno strepitoso Jonah Hill.

1 - Nymphomaniac - Lars von Trier
I can't feel anymore. Al primo posto, se lo consideriamo complessivamente insieme ai due precedenti, rivoluzionari Antichrist Melancholia. La trilogia del folle, provocatorio, immenso regista danese sull'alterità del genere femminile, che non si può comprendere, e sulla sua sensorialità. Il cinema di Lars rappresenta la forza devastante dell'umanesimo e l'importanza della libertà di pensiero e di espressione.



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lunedì 3 marzo 2014

Anteprima: Nymphomaniac

Nel cinema di Lars von Trier, c'è un dolore che appartiene non soltanto ai suoi personaggi ma che pervade le atmosfere, che invade ogni sfumatura. Lars è imprevedibile, pazzo, a volte di cattivo gusto. Eppure, la sua carica distruttiva è sempre congegnata all'interno di una struttura narrativa formidabile. Mai, però, come in 'Nymphomaniac' l'attenzione al congegno drammaturgico è tanto evidente, al punto da mettere in dubbio le certezze dei seguaci della sua poetica. Nessun altro lavoro di von Trier presenta così tante chiavi di lettura a livello psicologico e interpretativo, e nessun altro lavoro di von Trier ha mai avuto soluzioni registiche così raffinate ed eleganti. Sembra paradossale che ciò accada proprio nel film apertamente più provocatorio ma, tolte le scene erotiche (oneste, autentiche, mai gratuite), 'Nymphomaniac' è il capitolo più umano e complesso della filmografia del regista danese. Ho avuto la fortuna di aver visto i due capitoli a distanza di un giorno dall'altro e, seppur la visione complessiva sia risultata estremamente coerente e compatta, le conclusioni alle quali sono arrivato dopo il primo capitolo sono praticamente l'antitesi di quelle alle quali sono arrivato dopo aver visto anche il secondo. Lars, d'altronde, è così: beffardo, imprevedibile, in grado di ribaltare completamente i punti di vista. In grado di far suscitare simpatia per personaggi che, nel giro di un'inquadratura, diventano disgustosi. Oppure, in grado di rivalutarli completamente, di prendere le loro difese se, fino a quel momento, sembravano riprovevoli. Da un punto di vista strettamente cinematografico, 'Nymphomaniac' regala almeno quattro macro-sequenze di una forza visiva impressionante: due nella prima metà, due nella seconda. Ma, a differenza di 'Antichrist' e 'Melancholia', non ci sono suggestioni orrorifiche nè fantascientifiche: al centro, ci sono sempre il sudore, la fame, la solitudine, le voglie della protagonista Joe (interpretata dalla sorprendente Stacy Martin da adolescente e da una dolorosa Charlotte Gainsbourg da adulta). Quello che è il filo conduttore con i lavori precedenti, è il tema di fondo: l'alterità del genere femminile che, come la morte, non si può comprendere. Accusato di misoginia e di antisemitismo, Lars dà come l'impressione di volersi scusare con chi lo ha sempre maltrattato e rifiutato ma non è altro che un'illusione che viene violentemente svelata nell'incredibile, spiazzante finale. Lars continua a raccontare l'inconciliabilità della natura femminile con quella maschile e le loro incolmabili differenze. Quello che continua a interessargli è esplorare la sensorialità della prima, in grado di percepire anticipatamente la fine del mondo (vedi 'Melancholia'), e in grado di eccitarsi per la scomparsa dei propri cari (vedi una delle sequenze più belle e audaci di 'Nymphomaniac'). Dall'altra parte, viene ribadita l'inferiorità della seconda, la sua inettitudine di fronte all'impossibilità di avere un confronto pari con l'altro sesso. Rifuggendo come sempre ogni moralismo e ogni intellettualismo, 'Nymphomaniac' è un altro capolavoro di un cineasta immenso che, come nessun altro, rappresenta sullo schermo la forza dell'umanesimo e l'importanza della libertà di espressione.

Emiliano Dal Toso


lunedì 17 febbraio 2014

Pagellino Candidati Oscar 2014

12 Anni Schiavo 4: una noia mortale. Uno schematismo da prima elementare, da una parte i neri buoni e dall'altra i bianchi cattivoni. Sembra la risposta seriosa e priva di ironia di chi si è offeso dinanzi al divertimento ludico e citazionista di 'Django Unchained'. Lo stile di Steve McQueen si fa pedante, invasivo e gratuito, molto meglio la retorica spielberghiana di 'Amistad' o quella disneyana di 'The Help', lavori onesti che almeno sanno emozionare.

American Hustle 5: tutto molto carino e superficiale. Sceneggiatura perfettina, attorini perfettini, regia perfettina. Peccato che dietro ai bigodini di Bradley Cooper, alla calvizie di Christian Bale e agli abitini scollacciati di Amy Adams, non ci sia pressochè niente. Può anche divertire, a tratti, ma l'impressione è che ci si trovi di fronte a chi vorrebbe chiamarsi Martin Scorsese ma non ne ha il talento narrativo nè la travolgente profondità umana.

Captain Phillips 7: solido. Paul Greengrass questo cinema lo sa fare e lo aveva già dimostrato nei precedenti 'Bloody Sunday' e 'United 93'. Bello teso per più di due ore, merito soprattutto dell'inquietante pirata somalo Barkhad Abdi, che potrebbe portare a casa la statuetta di attore non protagonista. Il limite principale, però, è la mancanza di sottotesti, la sensazione che, oltre a quello che si vede sullo schermo, non ci sia nient'altro.

Dallas Buyers Club 6: un'occasione mancata. Per più di un'ora è un bel film, che si concentra sulle reazioni e sulle inquietudini di un cowboy di rodeo razzista e omofobo che scopre di essere sieropositivo. Poi, diventa il classico film americano pseudo-indipendente che si scaglia contro le multinazionali e fa dell'abilità imprenditoriale sempre e comunque un vanto, anche di fianco alla morte. Eccezionale Matthew McConaughey, stereotipato Jared Leto, imbarazzante Jennifer Garner.

Gravity 6: sotto ogni punto di vista tecnico, impeccabile. La regia perfetta di Cuaron riesce a mantenere una tensione pazzesca per la prima mezz'ora, dopo si concentra in modo particolare sul fondoschiena della Bullock, anch'esso impeccabile ma forse non in grado di reggere più di metà film. Vertiginose e impressionanti le riprese spaziali, ma sinceramente non credo si possa andare oltre il riconoscimento di un robusto prodotto commerciale.

Her - Lei 5: melensa apologia dell'universo hipster intimista e depresso. Joaquin Phoenix, uno degli attori della Nostra Vita, a un certo punto lo vorremmo strozzare. Spike Jonze perde definitivamente il confronto con il "cuginetto" Michel Gondry perchè, sebbene sia in grado di trattenere i propri bassi istinti creativi, risulta essere sempre troppo autoreferenziale, troppo intellettualistico, mai davvero emozionante. Finale completamente inspiegabile.

Nebraska 8: grandioso elogio di uomini perdenti, indimenticabile e commovente. Senz'altro, il miglior film di Payne. Una descrizione della provincia americana impietosa e disperata, accompagnata da un'analisi dei rapporti familiari amara e sarcastica. Eppure, non mancano sfumature leggere, romantiche, nelle quali il mezzo bicchiere pieno prevale su quello vuoto. Come ad esempio nel finale, poetica rivincita di chi non può far altro che aggrapparsi alle piccolezze per sopravvivere.

Philomena 8: film classico, di un'eleganza superiore a tutti gli altri. Non c'è bisogno di ghirigori o di gratuite trovate stilistiche per raccontare la toccante storia di un'anziana signora irlandese che decide di fare i conti con il proprio passato. Magnifico equilibrio tra dramma e ironia meravigliosamente british, grazie a un'immensa Judi Dench e a un irresistibile Steve Coogan. Oltre all'attrice, vorremmo che l'Academy riconoscesse il valore della sceneggiatura.

The Wolf Of Wall Street 10: Storia del Cinema. Martin Scorsese intuisce le potenzialità finora inespresse del genere demenziale e le sfrutta per raccontare la vittoria definitiva di chi, mentre sorride, sta serenamente fottendo il mondo intero. Un'opera epocale, irresistibile, senza attimi di tregua. Travolgente e nichilista. In fondo, disillusa e rassegnata. Leo DiCaprio monumentale, Jonah Hill Santo Subito. Eppure, potrebbe rimanere a bocca asciutta perchè il bersaglio non è il capitalismo ma gli Stati Uniti D'America.