sabato 30 gennaio 2016

The Hateful Eight

The Hateful Eight è il primo passo falso di Quentin Tarantino. Difficile ammetterlo senza il rischio di sembrare sentenziosi ed effettistici, ma nei panni di blogger snob sono pronto ad assumermi il rischio. Ho sempre visto la filmografia di Quentin come un percorso diviso in due parti, abbastanza distanti: il primo è quello dei tre film degli anni Novanta (Le iene, Pulp Fiction, Jackie Brown), dove il regista presentava il proprio stile, unico e inimitabile grazie alla commistione tra il piacere di fare cinema e una specie di "malattia nera" che contaminava ogni sequenza; il secondo è quello dei quattro lavori successivi (Kill Bill, Grindhouse, Bastardi senza gloria, Django Unchained), dove Tarantino si è lasciato guidare dal proprio ormone fanzinaro e, con bravura soprannaturale, ha saputo definire una poetica militante e anti-intellettualistica costituita da citazioni in grado di comporre i tasselli di un'autentica e originale concezione di Puro Cinema, ottenuta con la gioia dell'appassionato e con il talento dell'artista, del fuoriclasse. Faccio fatica a collocare The Hateful Eight non soltanto nella prima categoria, ma anche nella seconda: il motivo è che nelle tre ore abbondanti di visione non ho mai avuto la sensazione di riconoscere questa gioia di giocare con il cinema, questa necessità dettata dai bassi istinti di cinefilo. Ed è vero, il film "tarantineggia" anche di più delle opere precedenti: i dialoghi sono ancora più lunghi, l'intreccio è ancora più irregolare e frammentario, la recitazione è ancora più caricata. Eppure, sembra che Quentin abbia smarrito quella voglia di sorprendere e disorientare, di ribaltare i codici, di rendere i suoi personaggi iconici e mitici. Il principale difetto di The Hateful Eight è quello di essere monocorde dall'inizio alla fine: sulla carta, le sorprese narrative non dovrebbero mancare, ma non incidono, non graffiano; gli attori si limitano a gigioneggiare e non contribuiscono a dare spessore alla scrittura dei caratteri. Prendiamo, per esempio, Tim Roth e Samuel L. Jackson: i loro Oswaldo Mobray e Marquis Warren risultano uno stereotipo del tarantinismo, non attribuendo alcun valore aggiunto a un archetipo di personaggi che abbiamo già avuto modo di conoscere (e apprezzare) negli altri film. Tra lo spettatore e la messa in scena c'è troppa distanza: Quentin è finito per innamorarsi talmente tanto del proprio universo da dimenticare quei magnifici espedienti che lo rendevano così anarchico e vitale. Poca ironia (non si ride quasi mai), niente furia iconoclasta: purtroppo, prevale l'impressione che The Hateful Eight sia stato partorito come un atto doveroso del regista nei confronti di un genere, il western, verso cui si pone in maniera quasi timorosa, come se una rivisitazione in chiave pop e distruttiva non fosse davvero permessa. E così, per la prima volta, l'ammirazione di Tarantino per i suoi poster appesi in cameretta finisce per dominare la sua creatività.

Emiliano Dal Toso



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