martedì 21 gennaio 2014

Retrospective: Elio Petri Files #2


La bufera di Todo Modo è passata da un paio d’anni ormai. Alcune cose sono cambiate. In questa intervista del ’78 (F. Laudadio, Un regista si racconta, “l’Unità”, 3 luglio 1978), di cui pubblichiamo alcuni stralci, Elio Petri viene intervistato in occasione del primo passaggio televisivo de Le mani sporche. È un’occasione per parlare proprio di televisione, di recitazione, di cinema a basso costo. È impressionante, peraltro, vedere come Petri, con la sua sensibilità di intellettuale, avesse intuito in anticipo il riflusso individualista della società, che sarebbe avvenuto negli anni Ottanta. Goodbye, Elio.

 

“Quelli che fanno cinema credendoci, perché lo amano, devono pagare di persona.”

 

Cosa ne pensi della televisione?

Non credo che la TV vada fatta come la facciamo io e altri: essa va completamente reinventata. Non si può usare la TV come se fosse il surrogato di tutto l’esistente, che è quel che oggi avviene e che mi pare aberrante, poiché simboleggia il ritirarsi dell’individuo di fronte ai fatti collettivi. Il problema è quello di capire la funzione e la destinazione della televisione nella vita moderna; la necessità è quella di comunicare le cose mentre avvengono, e non, come succede oggi, utilizzando il mezzo nel modo più pigro, ciò che fa sì che la gente non viva più in prima persona certi avvenimenti, tanto ha la TV che surroga tutto: dall’abc per i bambini, allo spettacolo, alla messa al teatro, al cinema, e questo è un regresso, non un progresso.

 

Questo vuol dire che ti senti tentato dalla possibilità di un impiego diverso del mezzo televisivo?

No, io continuerò a fare del cinema. La TV è una cosa, il cinema un’altra. (…)

 

Qual è il tuo rapporto con gli attori?

Io amo molto gli attori. Penso che l’attore sia fondamentale per uno spettacolo. Ho sempre creduto in una recitazione forte, non sommessa, o intimista, come spesso è quella degli attori americani che oggi vanno di moda, con qualche eccezione come Robert De Niro e qualcun altro. Una moda che è solo un fatto provinciale. L’attore è un essere umano, antico quanto il teatro, e quindi quanto la vita. Un essere umano nudo che deve rivestire gli abiti degli altri e gestire e parlare come gli altri, come quelli che lo guardano e lo ascoltano, perché si è trasformato in uno di loro, in tutti loro. All’attore spettano scelte come quelle che spettano al regista, ed è assurdo contrapporre il regista all’attore, poiché il primo non è quella specie di demiurgo che ancora credono di essere certi vecchi (mentalmente) registi teatrali che oggi vanno per la maggiore.

 

Tu non sei solo un regista, ma anche un autore, scrivi cioè i tuoi film. Come nasce un tuo film?

Ogni film ha una sua propria storia particolare, diversa fra l’uno e l’altro. E questa storia va legata al tempo in cui la pensi, alla realtà e alla cronaca che ti circonda. Quando ho pensato che fosse giusto cominciare a fare film politici, mi sono guardato intorno senza forzare i termini del discorso, ma sicuramente cercando di leggere fra le righe di quel che intorno a me avveniva. Così come, guardandomi intorno oggi, ritengo che si debba tornare a raccontare le storie delle persone, degli individui. Ma non certo in chiave intimistica, bensì assumendo le storie personali come spie di una situazione più generale di disagio, di ricerca di un’identità sempre più in crisi nella società in cui viviamo. Il primo dovere di un regista è quello di conoscere il principio di realtà, le condizioni della possibilità, della realizzabilità, di una storia , come di un film. Anche dal punto di vista, diciamo così, strutturale: allacciare un legame con un certo produttore, verificare la realizzabilità di un progetto, tenere duro su certi punti ed ingaggiare una vera e propria lotta, che non cessa mai, dalla progettazione fino all’uscita e dopo (…).

 

Che progetti hai per il prossimo futuro?

Due o tre idee su cui sto lavorando. Ma soprattutto, da qualche tempo, sono convinto che l’unica strada percorribile dal cinema italiano sia quella della produzione a basso costo. Anche se non condivido appieno la linea dell’austerità, che ritengo un po’ demagogica, credo tuttavia che lo spettacolo, proprio perché può apparire qualcosa di superfluo, deve in qualche modo autolimitarsi e pagare per sopravvivere. Quelli che fanno il cinema credendoci, perché lo amano, devono pagare di persona. Non c’è altra via e questo è il momento.

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